Vita nella Smart city
Meno asfalto e più silicio: grazie alle nuove tecnologie – Internet, reti elettroniche, sensori – le città si stanno trasformando in computer che mettono in comunicazione il mondo fisico e quello digitale.
La Rete doveva uccidere le città e invece le sta salvando. A metà degli anni Novanta, complice l’esplosione di Internet trainato dai primi browsers, molti parlavano di death of distance, riprendendo il titolo di un celebre libro di Frances Cairncross. L’esplosione delle reti faceva presagire l’annullamento delle distanze nel mondo fisico. L’idea era così radicata che lo scrittore americano George Gilder si sbilanciò fino ad affermare che, con ogni cosa a portata di mano, anche le città sarebbero scomparse in quanto «inutile retaggio del passato».
In realtà, da allora il numero di persone che preferisce vivere in aree urbane è aumentato costantemente, fino a superare nel 2008 il 50% della popolazione mondiale: un evento senza precedenti nella storia dell’uomo. Con buona pace della visione di Gilder, si può dire che le reti abbiano rafforzato, invece che indebolito, gli elementi di centralità esistenti. La tecnologia, infatti, ci libera dall’obbligo di essere in un solo posto per fare le cose che facciamo, ma questo non ci allontana dai centri abitati. Le cose che ci interessano nella vita di tutti i giorni sono pur sempre nello spazio fisico.
Le nuove tecnologie quindi non hanno fatto scomparire le città, ma le stanno trasformando profondamente. Nei territori urbanizzati si assiste a un fenomeno nuovo: i bit della Rete si fondono con gli atomi del mondo materiale. Le città, coperte di sensori e di reti elettroniche, si stanno trasformando in computer all’aria aperta. Si può dire che Internet stia invadendo lo spazio fisico, un fenomeno che spesso passa sotto il nome di smart city.
Per descrivere questa evoluzione si può partire da un esempio, le gare di Formula 1: vent’anni fa per vincere erano necessari un buon motore e un bravo pilota; oggi c’è bisogno anche di un sistema di telemetria, basato sulla raccolta di dati da parte di migliaia di sensori posti sulla macchina e sulla loro elaborazione in tempo reale. In modo analogo le città di oggi ci permettono di raccogliere una mole di informazioni senza precedenti, che possono poi essere trasformate in risposte da parte degli abitanti o dell’amministrazione pubblica. L’universo delle applicazioni (app) urbane è il segnale più evidente di questa evoluzione. Per esempio, l’app per telefonini Waze, che contribuisce a far funzionare meglio il traffico grazie alle segnalazioni degli utenti, oppure Open Table, che permette ai clienti di prenotare direttamente il ristorante (negli Stati Uniti quasi nessuno usa più il telefono per cercare un tavolo). Per ora si tratta di esperimenti, ma per molti versi siamo in un momento storico molto simile alla metà degli anni Novanta, quando ha cominciato a diffondersi il web. Anche allora, infatti, percepivamo che la nostra vita sarebbe cambiata, ma non sapevamo come, perché era tutto da inventare: non esisteva eBay, Amazon non c’era ancora.
Queste trasformazioni offrono una grande opportunità anche all’Italia. Pensiamo per esempio ai centri storici che tutto il mondo ci invidia, o a una città come Venezia, che non avrebbe mai potuto adattarsi agli imperativi dell’industria del secolo scorso, mentre può accogliere facilmente le tecnologie di oggi: reti, sensori, lampioni, pensiline, monitor, nuovi sistemi di distribuzione dell’energia. Interventi che mettono insieme mondo fisico e mondo digitale.
D’altronde in una nazione in cui la popolazione non cresce e gli standard abitativi non cambiano (anzi, per effetto della crisi la superficie pro capite delle abitazioni potrebbe ridursi), non si può più pensare di espandere le aree urbane come nel secolo scorso: oltre a consumare inutilmente territorio vergine (greenfield, in inglese) ciò si tradurrebbe inevitabilmente nello svuotamento delle aree già edificate, esponendole al rischio di degrado. La sfida dei prossimi anni sarà invece valorizzare il patrimonio già edificato, correggendo gli errori urbanistici del secolo scorso e usando le nuove tecnologie per utilizzare meglio le infrastrutture esistenti.
Con meno asfalto e più silicio.
Il Free Wi-Fi made in Italy
La storia di Free ItaliaWi-Fi, il progetto volto alla diffusione di una Rete federata di accesso Wi-Fi pubblico e gratuito, inizia il 30 novembre 2010, quando Nicola Zingaretti, presidente della Provincia di Roma, Mario Floris, assessore degli Affari generali della Regione autonoma della Sardegna, e Gianfranco Bettin, assessore per l’Informatizzazione e la Cittadinanza digitale del comune di Venezia, sottoscrivono un accordo di collaborazione sulla Cittadinanza digitale. In particolare, la Provincia di Roma avvia nel 2008 la Rete ProvinciaWi-Fi, creando più di 650 aree Wi-Fi dislocate nei territori di Roma e provincia; la Regione autonoma della Sardegna lavora al progetto SurfinSardinia, che prevede accessi Wi-Fi in porti, aeroporti e comuni a vocazione turistica; e il comune di Venezia, nel 2009, avvia la realizzazione della Rete Cittadinanza digitale, su fibra ottica e wireless. La finalità del progetto a livello nazionale è la creazione della prima Rete federata nazionale di accesso gratuito a Internet senza fili. Con il progetto Free ItaliaWi-Fi, infatti, è possibile navigare gratis nelle aree Wi-Fi pubbliche della propria città e di altre amministrazioni che sono entrate a far parte della Rete. Attualmente, oltre alle province promotrici, hanno aderito quelle di Cosenza, Firenze, Frosinone, Genova, Gorizia, Grosseto, Lamezia Terme, Pesaro-Urbino, Pistoia, Potenza, Prato, Siena, Trapani; i comuni di Alba, Bra, Cesena, Coriano, Montevago, Rosignano Marittimo, Saronno, Torino, Tortorici; la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia; la comunità montana Fondation Grand Paradis.
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(da ‘Techland’ del Time)