BORROMEO ARESE, Vitaliano
Nacque dal conte Giberto e da Elisabetta Cusani, in Milano, il 12 nov. 1792. Nel 1811 accompagnò il padre a Parigi, per il battesimo del re di Roma, e vi si trattenne alcuni mesi. Tornato in patria, approfondì gli studi, specie di botanica e scienze naturali, dedicandosi a coltivazioni floreali ed arboree nelle isole Borromee, appartenenti al casato. Si strinse in amicizia con A. Manzoni e T. Grossi, e sposò, nel 1814, la marchesa Maria d'Adda; fu quindi solerte amministratore del patrimonio domestico, compì viaggi e intensificò le ricerche di scienze naturali, collezionando importanti materiali, tra l'altro con l'acquisto, dal geologo S. Breislak, di un intero museo mineralogico, che sistemò nel palazzo Borromeo.
Nei confronti del dominio austriaco, che, dato il suo rango, gli fu largo di titoli e onori (fu nominato ciambellano, consigliere intimo, gran coppiere e gran siniscalco del regno lombardo-veneto; infine, nel 1847, cavaliere del Toson d'Oro d'Austria), tenne per lungo tempo un contegno improntato a dignitosa prudenza. Leale e corretto, ma non servile, nei rapporti con la corte vicereale e con quella di Vienna, fu soprattutto presente nelle iniziative volte al progresso civile, economico, tecnico e culturale del Lombardo-Veneto, figurando come presidente o membro dei consigli di varie società (Società per la navigazione a vapore del Lago Maggiore, per l'escavazione dei fossili di Lombardia, per la ferrovia da Milano a Venezia, Istituto lombardo di scienze e lettere), finché, nel settembre 1844, presiedette il sesto congresso degli scienziati italiani, tenuto in Milano (già aveva partecipato a quello di Torino del 1840), accogliendo generosamente i partecipanti, ma esortandoli, nel discorso di apertura, ad attenersi strettamente agli argomenti scientifici. La sua cautela non impedì che si levassero, nel corso del congresso, voci patriottiche e unitarie, ma valse a evitare incidenti con le autorità.
Nel 1846 si recò a Roma, in visita di omaggio al nuovo pontefice Pio IX, cui presentò il quarto figlio, Edoardo, entrato nella carriera ecclesiastica. Rimase tuttavia intimamente scettico verso l'evoluzione liberale della politica pontificia, né valutò con favore, fino al 1848, il ruolo antiaustriaco e l'eventuale espansione nell'Italia settentrionale del vicino Piemonte, del quale detestava la classe aristocratica e criticava l'organizzazione militare. Caldeggiò, invece, la formazione di un regno costituzionale lombardo - veneto effettivamente autonomo dall'Austria, anche se con un arciduca austriaco per sovrano. Crescendo, però, la tensione tra le forze austriache e la cittadinanza milanese, nei mesi precedenti l'insurrezione del 18 marzo 1848, assunse una posizione coraggiosa, protestando presso il governatore, conte Spaur, per la prepotenza della soldatesca. La corte di Vienna fece ancora un passo per trattenerlo dalla sua parte, facendogli giungere, a nome dell'imperatrice, soccorsi in denaro da distribuire alla popolazione indigente colpita durante i disordini, mentre, dal canto loro, le autorità austriache in Milano passavano, nei confronti del conte e della famiglia, a ingiunzioni e minacce. Ma egli aveva ormai compiuto la sua scelta, contrassegnata dall'uscita del figlio Guido dall'amministrazione civile e dal passaggio di Emanuele dall'esercito austriaco a quello sardo, nel quale già militava l'altro figlio Emilio.
Scoppiata l'insurrezione, nei primi giorni diresse le barricate nella zona circostante il suo palazzo, nel quale fu messo undeposito di munizioni e furono condotti i prigionieri (tra gli altri il famigerato L. Bolza e l'amante di Radetzky, Giuditta Meregalli).
Nominato, il 19 marzo, dal podestà G. Casati collaboratore della municipalità, espresse il parere di aderire alla proposta austriaca di tregua, energicamente contrastata dal Consiglio di guerra, diretto da C. Cattaneo. Quando la municipalità si costituì in governo provvisorio (22 marzo), il Casati ne divenne presidente; il B., eletto vicepresidente, ebbe molta importanza nel determinare l'orientamento della politica lombarda verso la monarchia piemontese.
Restio, in un primo tempo, alla fusione, volle condizionarla alla convocazione di una assemblea costituente, di cui ribadì l'esigenza, polemizzando con gli ambienti conservatori torinesi, in un dispaccio al conte E. Martini, inviato al quartier generale sardo. In tale atteggiamento autonomistico, a parte la sua nota diffidenza per il Piemonte, può aver avuto peso l'amicizia col mazziniano marchese Anselmo Guerrieri Gonzaga, anch'egli membro del governo provvisorio. Ma dopo aver effettuato una visita al campo di Carlo Alberto, passato con l'esercito a oriente del Mincio, probabilmente per influenza del figlio Guido, da lui molto apprezzato, divenuto, commissario del governo provvisorio al quartier generale del re, abbracciò senz'altro il partito fusionista e fu uno dei più risoluti fautori del decreto del 12 maggio 1848, col quale fu indetto il plebiscito per l'unione al Regno sardo. Infervorato nella nuova opinione, propose addirittura un colpo di Stato per stroncare l'opposizione democratica, che respingeva le modalità del plebiscito, insistendo sulla priorità dello sforzo bellico.
Nella seconda metà di giugno partecipò alle trattative con l'austriaco Schnitzer, sostenendo, come nei primi giorni dell'insurrezione, una soluzione di compromesso: preoccupato, infatti, per la ripresa militare del nemico, avrebbe volentieri accettato una pace che stabilisse il confine all'Adige, ma questa non fu raggiunta ed in breve gli Austriaci furono davanti al capoluogo lombardo. Il Cattaneo si recò allora (3 agosto), in assenza del presidente Casati, dal B., proponendogli di costituire una magistratura straordinaria per la difesa di Milano, ma questi, sia che non vedesse probabilità di successo, sia per timore che i repubblicani prendessero il sopravvento, preferì seguire le truppe sarde e abbandonò la città. Prese quindi parte, in Torino, ai lavori della Consulta lombarda, creata col decreto di fusione del 28 luglio 1848, sconsigliando la riapertura delle ostilità.
Gli Austriaci lo esclusero, assieme ad altri trentuno esuli della provincia di Milano, dall'indulto concesso il 12 ag. 1849 ai cittadini che si erano allontanati, occuparono il palazzo, adibendolo ad ospedale militare, e gli imposero una forte tassa di guerra, procedendo al sequestro dei suoi beni. Nonostante ciò, fu sempre largo di sussidi ai concittadini profughi in Piemonte. Nel frattempo, per interessamento di M. d'Azeglio, ottenne nel 1852, che da parte del rappresentante piemontese a Vienna fosse richiesta la restituzione dei suoi beni e in seguito poté pure recarsi a Milano.
Assunta la cittadinanza sarda, il 20 ott. 1853 entrò a far parte del Senato subalpino, nel quale tuttavia non fu molto attivo, sia per motivi di salute sia per le scarse doti oratorie. Sostenne costantemente il partito moderato e fu assai vicino all'ambiente del giornale L'Opinione;egualmente condivise la politica del conte di Cavour, al quale si legò d'amicizia, e nonostante le sue convinzioni cattoliche votò a favore delle leggi in materia ecclesiastica volute dal grande statista.
Nel 1859, liberata la Lombardia dai Franco-Piemontesi, tornò ad abitare nel suo palazzo di Milano; negli anni successivi, specialmente dopo la perdita della moglie (1862), si dedicò nuovamente, con passione, agli studi prediletti e compì lunghi viaggi, finché nel 1872 si stabilì in Roma.
Morì in Milano il 26 febbr. 1874.
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