VITE (lat. vitis; fr. vigne; sp. vid; ted. Winstock; ingl. vine)
Per vite, senz'alcun aggettivo, comunemente s'intende la vite europea o nostrana. Botanicamente, si tratta della specie Vitis Vinifera L., appartenente al genere Vitis Tourn. e alla sottofamiglia Ampelideae (o Vitoideae) della famiglia Vitaceae. È questa l'unica specie che viva spontaneamente in Europa e in tutto il bacino mediterraneo. Altre specie vivono in America e in Asia (v. appresso: Le viti americane).
Sommario. - Cenni storici sulla coltura in Italia (p. 469); Cenni di ampelografia (p. 472); Cenni di botanica (p. 473); L'ambiente naturale: regione della vite; clima; terreno (p. 476); Moltiplicazione: per seme; per gemma; per innesto (p. 477); Potatura secca (p. 478); Potatura verde (p. 480); Sostegni (p. 481); Impianto di nuovi vigneti (p. 482); Scelta dei vitigni: vitigni da vino (p. 482); Le uve da tavola (p. 483); le viti americane (p. 484); Bibliografia (p. 485). - Tavv. XCVII-CIV.
Cenni storici sulla coltura della vite in Italia. - L'origine di questa pianta è stata molto discussa. Ormai però non è più possibile ammettere che essa sia venuta in Europa dall'Asia soltanto con le prime grandi correnti migratorie dell'umanità. Ché i numerosi avanzi fossili ritrovati in varie località europee, fino nei paesi più nordici, attestano in modo indiscutibile che fin dall'Eocene inferiore dovevano esistere in Europa delle viti di specie ormai estinte (la più antica di esse è la Vitis Sezannensis Sap.). Solo più tardi (nel Miocene superiore) apparvero viti con caratteri più simili all'attuale vite europea (tali la Vitis praevinifera Sap., la V. Tokayensis Stud.), fino a che, verso il principio del Quaternario, appare la vera Vitis vinifera (in Italia: nei travertini toscani di S. Vivaldo, di Poggio a Montone, delle Galleraie; in quelli di Ascoli Piceno e di Fiano Romano; nei peperini vulcanici presso Roma).
Rimangono però ancora dubbî circa la precisa origine della sottospecie V. vinifera sativa D.C. (cui appartengono le vere viti europee coltivate), distinta dalla V. vinifera silvestris Gmel., o vite selvatica. Entrambe queste sottospecie erano certo note anche nell'antichità, ma interessa sapere se la sativa venne, sia pure in tempi molto remoti, importata in Europa, o se essa vi sia indigena. Lo studio accurato dei reperti finora fatti nelle stazioni preistoriche, specialmente italiane, porterebbe a concludere che l'apparizione della V. vinifera sativa, almeno in Italia, sia avvenuta posteriormente a quella della V. vinifera silvestris; più precisamente alla fine dell'età del bronzo; anzi, più sicuramente, con l'età del ferro. E un complesso di considerazioni fa ritenere più verosimile l'ipotesi che le nuove correnti migratorie giunte in Italia dall'Asia e dall'Africa vi abbiano già trovato viti indigene da utilizzare, piuttosto che quella della loro importazione, senza con ciò escludere che, se non nei tempi preistorici, almeno in quelli protostorici, sia cominciata una graduale introduzione di vitigni da altri paesi del Mediterraneo, e che questi si siano aggiunti a quelli autoctoni. Con l'intervento dell'ibridazione e della disseminazione naturale, gli uni e gli altri avrebbero poi dato origine alla miriade di vitigni attualmente conosciuti. Quanto poi alla derivazione della V. sativa dalla V. silvestris, essa appare, se non sicuramente documentabile, almeno assai verosimile.
Venendo alle origini dell'utilizzazione dell'uva per ricavarne una bevanda, fermentata, si può affermare che le vestigia più antiche di una industria enologica si sono rintracciate in Sicilia, in una delle necropoli preelleniche scoperte da P. Orsi (quella di Cozzo Pantano presso Siracusa). Alcuni vasi potorî, a forma di clessidra, trovati in una tomba del tardo periodo minoico (circa 2000 anni a. C.) furono da G. Bendinelli sicuramente ascritti alla categoria dei "vasi da vino". Invece, per quanto riguarda l'Italia settentrionale, forse bisogna risalire alla civiltà villanoviana, che fiorì nell'attuale Emilia intorno al primo millennio a. C., per trovare un inizio d'attività viti-vinicola. Certamente però questa deve aver subito un notevole impulso col sopraggiungere degli Etruschi. All'incremento di quest'industria nell'Italia settentrionale devono pure aver contribuito gli Euganei. Nell'Italia centrale nei tempi che precedettero la fondazione di Roma la vite dovette essere coltivata in limiti assai modesti; tuttavia essa era tenuta in grande onore, e, sia da Sabini sia da Latini, veniva considerata quasi sacra (Virgilio chiama il Padre Sabino vitisator).
Anche nei primi secoli di Roma la coltura della vite e la preparazione del vino erano esercitate in misura limitata e in modo piuttosto rudimentale; ancora ai tempi di Catone il Censore s'ostentava quasi un disdegno per i vini fini e di lusso. Ma, già nelle leggi delle XII tavole si parla di vigne, e si contemplano i furti in esse commessi. Nell'Italia meridionale, invece, prima della conquista da parte di Roma, la viticoltura e l'enologia erano già fiorenti, in conseguenza soprattutto della lunga dominazione greca. Quando Roma affermò il suo dominio sul Mediterraneo, anche l'economia rurale subì una profonda trasformazione e la vite venne a occupare il primo posto fra le colture di gran reddito, mentre la produzione granaria veniva svalutata dalle grandi importazioni di grano dalle terre conquistate. La tecnica viti-vinicola si perfezionò anche in virtù degli schiavi greci e asiatici che affluivano a Roma. A questo periodo, che segnò l'apogeo della viticoltura romana, seguì una sensibile riduzione nella viticoltura del Lazio, acquistando in esso maggiore importanza le industrie zootecniche e l'ortofrutticoltura. Non dovette però trattarsi (come qualcuno ha supposto) d'una contrazione generale della viticoltura, se qualche tempo dopo già si doveva lamentare una grave crisi di sovraproduzione enologica. È infatti noto come allo scopo di rimediare alla pletora del vino e alla carestia del grano, Domiziano emanasse un editto (92 d. C.) vietante l'impianto di nuovi vigneti in Italia, e imponendo la soppressione di una metà delle vigne nelle provincie. Però già nel sec. II d. C. cominciano a palesarsi i sintomi della crisi generale dell'agricoltura romana; le guerre civili e l'anarchia militare causavano il progressivo spopolamento delle campagne, e il conseguente abbandono delle terre. La viticoltura fu tra le prime a risentire del marasma generale. Negli ultimi tempi dell'impero la coltura della vite andò sempre più languendo, tanto che si giunse a tagliare le viti per sottrarsi all'esosità del fisco.
La vite e il vino hanno un posto importante nella letteratura latina. Catone dedica alla vite e al vino la quarta parte del suo De agricultura. E di viticoltura trattano Varrone (De re rustica), Virgilio (Georg., II), Plinio il Vecchio (Nal. Hist., XIV e XVII), Columella (De re rustica, III-IV), Palladio (De re rustica).
All'inizio del Medioevo una ripresa della coltura della vite, pressoché abbandonata alla fine dell'impero romano, avvenne soprattutto per merito della giovane religione cristiana. Per assicurarsi il vino necessario alla Mensa eucaristica, religiosi di ogni ordine si fecero viticoltori ed enologi; per questo alcune chiese si dissero intervineas (fra le vigne) e non pochi dei vigneti che dànno i grandi vini d'Italia, di Francia e Germania furono opera di benedettini o di cisterciensi. Con i nuovi dominatori d'Italia il vino tornò a essere un genere di lusso; Cassiodoro, ministro di Teodorico, scriveva al canonicario di Venezia che la cantina del suo re aveva bisogno d'un vino degno della sua mensa: e perciò gli ordinava d'acquistare dell'acinatico rosso e bianco dai proprietarî del Veronese: documento questo dell'antica fama dei vini di Valpolicella. L'editto di Rotari del 650 comminava severe pene a chi rubava "più di tre grappoli d'uva" o a chi rubava pali di viti, o spezzava tralci di questa pianta. Carlomagno ripiantò i vigneti del Reno, che Probo aveva fatto sorgere 5 secoli prima e dedicò varî articoli del suo Capitulare de Villis alla vite e al vino. Avvicinandoci alla fine del primo millennio dell'era volgare, cominciano a essere più numerose le testimonianze della ripresa della viticoltura. L'intemperanza a poco a poco tornò anzi a dilagare, tanto che sotto papa Innocenzo III un concilio nel 1215 ebbe a proclamare l'ubriachezza un grave delitto. Navigatori genovesi, veneziani e pugliesi ricominciarono a importare specialmente da Creta e da Cipro i ricercatissimi vini greci (come la malvasia) versando cospicue gabelle ai singoli stati. Tra i vini italiani furono nel Medioevo molto rinomati quelli calabresi e marchigiani; stimatissima era la vernaccia (se ne importava però anche dall'Oriente, anzi essa era gravata di più forti dazî che gli altri vini). E alcuni vini d'Italia s'esportavano nei paesi dell'Europa centrale: Germania, Ungheria, Polonia. Particolarmente ricordati al riguardo il greco della Campania, il cutrone e il turpia della Calabria, il patti della Sicilia. E si esportavano anche vitigni. Infatti si ricorda che nel 1241 Bela IV curò l'introduzione dall'Italia in Ungheria dei maglioli occorrenti per la ricostituzione dei vigneti, che già dieci secoli prima vi erano stati piantati dai legionarî romani.
Il commercio interno del vino era però impacciato dalle fortissime restrizioni protezionistiche, che limitavano i passaggi di vini da comune a comune. Le stesse restrizioni dell'ordinamento comunale favorirono tuttavia la ripresa della coltura della vite; numerosissimi sono gli statuti comunali che contengono disposizioni per la tutela della viticoltura, divieti di circolazione nelle vigne durante la vendemmia, multe per chi introduceva animali nelle vigne, pene per chi tagliava tralci di vite, per chi racimolava senza licenza, severa disciplina nei riguardi del momento della vendemmia (bandi vendemmiali), ecc.
Quanto alla letteratura viticola, soltanto dopo il 1000 troviamo qualche segno di risveglio. Nel 1137 Borgondione di Pisa, essendo a Costantinopoli, vi tradusse in latino quanto si riferiva alla viticoltura nelle Geoponiche, sorta di enciclopedia agraria bizantina (670-680). Fra il 1180 e il 1220, un medico arabo, Ibn al-‛Awwām, pubblicava a Siviglia un'opera georgica di notevole importanza, nella quale dettava anche sagge norme di viticoltura, benché Maometto avesse vietato l'uso del vino. Ma l'opera che doveva nel Medioevo segnare una tappa luminosa per la rinascita agraria non solo d'Italia ma di tutt'Europa, fu il Ruralium Commodorum libri duodecim, pubblicato verso il 1303 da Pier Crescenzio Bolognese. Il libro IV di quest'opera è interamente consacrato alla vite e al vino (De vitibus et vineis et culto et earum, ecc.
La scoperta dell'America con cui si apre l'Evo moderno, ebbe notevoli ripercussioni anche nel campo viticolo. Cristoforo Colombo, ritornando dal suo terzo viaggio d'America nel 1498, portava alla regina Isabella di Spagna il prodotto di viti selvagge da lui trovate a Cuba. Nel 1550 Carlo V prometteva un premio cospicuo a chi avesse per primo prodotto nell'America Meridionale del vino utilizzabile per la celebrazione della messa: e il premio toccò a Francesco Cervantes da Toledo, che introdusse la vite europea nella regione del Plata. E fu l'importazione di viti dall'America che qualche secolo dopo doveva rivoluzionare tutta la viticoltura. Dopo la scoperta della stampa, incominciano a moltiplicarsi le pubblicazioni georgiche, fra le quali molte si occupano della vite e del vino. Il bresciano A. Gallo nel 1559 pubblicò, imitando Varrone, sotto forma di dialoghi un volume intitolato Le venti giornate della vera agricoltura, diffondendosi in precisi consigli sulla potatura della vite, sulla concimazione, sui danni dei geli e delle brine alle viti; e specialmente su quanto riguarda la preparazione del vino. Il napoletano G. B. Porta pubblicò nel 1592 a Francoforte altra imponante opera: Villae Libri XII, dedicandone il libro VII alla Vinea; A. Bacci di S. Elpidio (medico di papa SistoV) nella sua De naturali vinorum historia, de vinis Italiae et de conviviis Antiquorum, lib. VII (Roma, Miti, 1596), fece una interessantissima rassegna dei vini italiani, dalla quale risulta come l'enologia avesse riconquistato nel Rinascimento un'importanza grandissima, la quale è confermata da un altro curioso documento della stessa epoca lasciato da un tal Sante Lancerio bottigliere di papa Paolo III Farnese. Sempre per limitarci alle opere maggiori, ricorderemo: La coltivazione toscana delle viti e d'alcuni alberi (Firenze 1600) di G. Soderini; la Coltivazione toscana (Firenze 1600) di B. Davanzati Bostichi; Dell'agricoltura libri tre di Girolamo da Fiorenzuola (rimasta inedita fino al 1871). Molti sono, anche, nei secoli XVI -XVII, i medici che scrissero sulla vite e sul vino. Così, oltre al Bacci già menzionato, ricorderemo P. Mini, medico fiorentino, che nel 1556 pubblicò a Firenze il suo Discorso sulla natura del vino, de le sue differenze e del suo uso retto; Iacobus Praefectus (philosophus et medicus siculus), che nel 1559 pubblicò a Venezia De diversorum vini generum natura; il medico D. A. Altomare, che nel 1562 pubblicò a Napoli un trattato sull'utilizzazione delle vinacce per farne vinelli, dal titolo: Vineaceorum facultate et usu; G. Gratarolo di Bergamo che nel 1565 pubblicò De vini natura, energia et usu, ecc.; C. Crivellati, medico viterbese, che scrisse un Trattato dell'uso et modo di dare il vino nelle malattie acute (Roma 1600), in cui appaiono i contrasti, già vivi fin da quel tempo, fra medici vinisti e antivinisti. E a questo proposito si può forse ricordare che F. Redi, al suo celeberrimo ditirambo Bacco in Toscana, che unisce al valore letterario quello enografico, voleva farne seguire uno in onore dell'acqua: L'Arianna inferma; ma questo secondo rimase incompleto.
All'inizio del sec. XVII si pubblica un'opera fondamentale per la letteratura georgica d'ogni tempo: Le Théâtre d'Agriculture et ménage des champs di O. de Serres, nella quale l'enologia e la viticoltura sono trattate largamente. In questo secolo fra gli scrittori italiani di viticoltura e di enologia, ricordiamo: G. B. Croce (Dell'eccellenza e diversità dei vini che nella Montagna di Torino si fanno, e del modo di farli, Torino 1606); P. Rendella (Tractatus de vinea, vindemia et vino, Venezia 1629); V. Tanara (L'economia del cittadino in villa, Bologna 1644); F. Folli (Dialoghi intorno la coltura delle viti, Firenze 1670); M. Tirellio, medico e fisico (De historia vini et febrium, Venezia 1630); G. Nenci (Riflessioni sopra le più frequenti e necessarie operazioni della coltivazione, Firenze 1691).
Il sec. XVIII segna un nuovo progresso nella viticoltura e nell'enologia italiana. Secondo G. C. Villifranchi, daterebbe dal 1710 l'uso d'esportare il vino toscano in fiaschi, anziché in botti. Vanno sorgendo accademie agrarie; nel 1765 viene fondata presso l'università di Padova una cattedra di agronomia. In Toscana Leopoldo II nel 1786 abolisce i bandi vendemmiali. In Sicilia nel 1773 l'inglese J. Woodhouse effettuò una prima spedizione in Inghilterra di 60 botti di vino di Marsala. Nello stesso anno si pubblica a Firenze (G. Cambiagi) L'Oenologia toscana o sia memoria sopra i vini e in specie i toscani, del medico G. Cosimo Villifranchi, nella quale, fra l'altro, si usa per la prima volta il nome di Wermuth per i vini con assenzio. E nel 1786 A. B. Carpano a Torino prepara quel "Vermouth di Torino" che doveva poi dar luogo a una delle maggiori industrie enologiche italiane. Fra gli scrittori di questo secolo ricordiamo ancora: C. Trinci (L'agricoltore sperimentato, Lucca 1726), che illustra 31 varietà di uve italiane e parla d'un metodo trovato dai Modenesi per estrarre l'olio dai vinaccioli; A. Fabbroni (Le istruzioni elementari di agricoltura, Perugia 1786); G. C. Agosti (Regole per la coltivazione della vite, Bergamo 1789).
La fine del sec. XVIII e l'inizio del XIX risentirono, anche nei riguardi della nostra coltura, il potente influsso della rivoluzione francese e delle nuove conquiste nel campo delle scienze biologiche e fisico-chimiche. Mentre G. A. Chaptal (Traité théorique et pratique sur la culture de la vigne et l'art de faire le vin, Parigi 1801), come ministro di Napoleone I, istituiva a Parigi la prima grande collezione ampelografica del Lussemburgo, affidandone la direzione al valente botanico e ampelografo L.-A.-G. Bosc (v.), in Italia gli studî agronomici e viticoloenologici andavano rapidamente progredendo. Sono del 1801 le Istituzioni teorico-pratiche d'agricoltura pubblicate a Milano da G. B. Gagliardi; del 1803 i Saggi di agricoltura pratica sulla coltivazione dei gelsi e delle viti pubblicati a Brescia da C. Verri. Ma soprattutto notevole la vasta e varia opera di Filippo Re, il quale per primo cercò di trarre profitto delle scienze naturali e della chimica per lo studio della tecnica agraria nonché viticola. A Milano, nel 1812 usciva l'opera del conte V. Dandolo: Dell'arte di fare, conservare e migliorare i vini del Regno, e nel 1825 un Nuovo metodo economico-pratico di fare e conservare il vino di P. Stancovich; nello stesso anno l'I. R. Istituto di scienze, lettere e arti di Milano premiava una nota di G. Ignazio Lomeni su una macchina per la pigiatura delle uve. Importanti contributi all'ampelografia italiana furono dati da G. Acerbi (Delle viti italiane o sia materiali per servire alla classificazione, ecc., Milano 1825); da A. Alve à (Descrizione delle principali specie di Vitis vinifera coltivate nel comune di Fara, ecc., in Annali Univ. d'Agricoltura, 1829); O. Targioni-Tozzei (Dizionario botanico italiano, Firenze 1809); e altri minori, come G. B. Margaroli (1833), G. Gasparini (1844). Ma particolarmente notevole, e non solo per la magnificenza dell'edizione, è la Pomona italiana ossia Trattato degli alberi fruttiferi del conte G. Gallesio di Finalborgo (Pisa 1817-1839), in cui son descritti 26 vitigni. Pure importanti studî di viticoltura e di enologia (specialmente piemontese) pubblicarono fra il 1838 e il 1842 l'abate D. Milano dell'università di Torino; e dal 1832 al 1844 L. F. Gatta, canavesano, con varie memorie sui vini e sulle uve del Canavesano e della Val d'Aosta.
Ma troppo lungo sarebbe volere enumerare le opere intorno alla viticoltura e all'enologia apparse in Italia nel secolo scorso. Ormai queste discipline andavano assumendo, ogni giorno più, carattere scientifico. Le grandi scoperte del Liebig, del Pasteur (in parte già divinate dal genio di nostri italiani, come il Redi e lo Spallanzani), i progressi della meccanica, le nuove vie di comunicazione e i nuovi mezzi di trasporto, gli scambî sempre più intensi fra i varî stati e fra i varî continenti, aprivano nuovi orizzonti allo sviluppo della nostra coltura. Ma ne derivò anche un danno impensato e gravissimo: le invasioni di parassiti della vite d'origine americana: l'oidio o crittogama della vite, la fillossera e la peronospora. Ogni volta però il genio dell'uomo seppe trovare a mali sì gravi rimedî adeguati, e la viticoltura tradizionale, che fino alla metà del secolo XIX ben poco s'era discostata dai precetti dei georgici greci e latini, è andata a poco a poco mutandosi nella viticoltura moderna, basata essenzialmente sulle applicazioni delle scienze biologiche e fisico-chimiche.
A tale trasformazione diede opera altamente benemerita una falange di scienziati e di tecnici, e l'Italia ne può vantare una schiera bene agguerrita. Dagli Ottavi (Giuseppe Antonio, Ottavio ed Edoardo) a G. di Rovasenda, e ad A. Mendola; da G. B. Cerletti ad A. Carpené ed E. Pollacci; da D. Cavazza ad A. Ruggeri e a F. A. Sannino, per tacere dei viventi, è tutta una legione di benemeriti, ai quali l'Italia deve la conservazione d'una delle sue più preziose ricchezze: la vite e il suo prodotto. Ne è da tacere il contributo notevolissimo che alla difesa e al progresso della viticoltura e dell'enologia italiana portarono gl'istituti d'istruzione e sperimentazione viti-vinicola: le scuole di viticoltura e di enologia anzitutto (di cui una prima venne creata in Conegliano con r. decreto 9 luglio 1876; una 2ª ad Avellino con r. decr. 27 ottobre 1879; una 3ª ad Alba con r. decr. 2 gennaio 1881; una 4ª a Catania con r. decr. 24 novembre 1881; una 5ª a Cagliari con r. decr. 11 aprile 1886). E le stazioni sperimentali: di enologia di Gattinara (creata con r. decr. 18 maggio 1872, ma che ebbe vita breve); e di Asti (creata con r. decr. 18 gennaio 1872, e che vive tuttora), e di viticoltura di Conegliano (creata con r. decr. 29 luglio 1923 e regificata con r. decr. 25 novembre 1929). E infine le regie Cantine sperimentali (di Barletta, Riposto, Noto, Velletri, Milazzo, Arezzo) e i regi vivai di viti americane (di Palermo, Velletri, ecc.).
Cenni di ampelografia. - Le viti possono essere considerate e studiate sotto differenti aspetti: ampelografico, botanico, chimico. Il primo costituisce l'oggetto della cosiddetta ampelografia: disciplina che si prefigge la descrizione, dal punto di vista della morfologia esterna, dei differenti vitigni (ma prevalentemente delle varietà della sola V. vinifera), e, fino a un certo punto, anche la loro classificazione secondo determinati sistemi, per rendere possibile il riconoscimento d'un determinato vitigno. Il che non è però facile, né sempre sicuramente possibile, ché i caratteri differenziali delle innumerevoli varietà della vite europea non sempre sono evidenti, e neppure costanti, variando essi non di rado a seconda delle condizioni ambientali e colturali. Di qui frequenti incertezze e casi dubbî, nonché sinonimie discutibili, nomi errati, ecc.
Tuttavia, se la classificazione dei vitigni costituisce realmente un'impresa ardua, e se i sistemi finora all'uopo proposti non soddisfano che molto relativamente, perché tutti più artificiali che naturali, non per questo l'ampelografia (intesa come descrizione di dette varietà) dev'essere considerata di scarso interesse, sia per lo studioso sia per il tecnico. È però indispensabile, volendosene servire con profitto, attenersi per quanto possibile a norme precise nelle descrizioni ampelografiche, nonché a una nomenclatura per quanto possibile esatta e conforme a quella convenuta fra gli studiosi della materia. Occorre poi anche un lungo esercizio per abituare l'occhio a cogliere quelli che sono i caratteri più salienti e più tipici dei varî organi della vite; e soprattutto quelli dei germogli, delle foglie e del frutto (in minor misura quelli dei tralci lignificati, del tronco, delle radici, dei fiori). Importa anche che tali caratteri vengano rilevati nel momento più adatto. Così quelli dei germogli dovrebbero essere osservati in un primo tempo quando essi hanno una lunghezza di 8-10 cm.; in un secondo tempo all'inizio della fioritura. Le foglie invece devono essere preferibilmente descritte durante l'estate, fra luglio e i primi di settembre, prendendo in osservazione quelle situate immediatamente sull'ultimo grappolo, meglio su germogli basali, non intrecciati o aduggiati da altri.
Quanto ai caratteri da rilevare, ricordiamo per i germogli il colore e la tomentosità delle foglioline e dell'apice vegetativo. Importa anche notare l'epoca di germogliamento, che può essere precoce, media o tardiva.
Delle foglie si nota anzitutto la grandezza (secondo il Comitato centrale ampelografico italiano, sono piccole quelle lunghe circa 12 cm.; medie quelle di 18 cm.; grandi quelle di 28 cm.; ma questi sono dati soggetti a variare molto con l'ambiente). Indi la forma, che può essere intera, 3-5-7 lobata, laciniata, arrotondata, allungata, ecc. Poi i seni, che intagliano variamente il contorno della lamina fogliare: molto importante quello all'inserzione del picciolo (seno peziolare), che può essere chiuso o aperto, a V, a U, a lira. Dalla profondità dei seni dipende la grandezza e forma dei lobi, che possono essere poco o molto pronunciati, acuti, arrotondati, ecc. Altri caratteri sono proprî dell'una o dell'altra pagina fogliare: quella superiore può essere liscia, rugosa, bullosa, vesciculosa; quella inferiore può essere glabra, pubescente, tomentosa (e il tomento essere a ragnatela, cotonoso, vellutato, ecc.); indi, il colore che può variare nell'una e l'altra pagina. Anche interessanti i caratteri delle nervature: molto o poco appariscenti, con peli o senza; e così quelli della dentatura (grossolana, minuta, acuta, ottusa, mucronata, ecc.). Infine, si considera il picciolo che può essere lungo, mezzano o corto, e di colore verde o più o meno roseo. Anche la colorazione autunnale delle foglie può essere un carattere diagnostico interessante.
Per i grappoli bisogna osservare anzitutto la grandezza; indi la forma (grappolo lungo, corto, cilindrico, piramidale, alato, composto); la compattezza (compatto, serrato, spargolo o sciolto); i caratteri del raspo (lungo, corto, sottile, grosso, erbaceo, legnoso, ecc.), dei pedicelli (per questi importa anche il colore); del cercine, cioè dell'ingrossamento che il pedicello fa all'inserzione dell'acino. Quanto agli acini, sono da osservare anzitutto la grandezza (secondo il Comitato centrale ampelografico italiano, sarebbero grandi gli acini aventi 25 mm. di diametro; mezzani quelli con 17 mm.; piccoli quelli con 12 mm.); la forma (sferica, subrotonda, ellittica, ovale); il colore (verde, giallo con le varie gradazioni, rosso, blu, e relative gradazioni). Altri caratteri (oltre al colore) sono da rilevare per la buccia: se molto o poco pruinosa, se spessa o sottile, tenera o coriacea, e, nelle uve bianche, se ha persistente o no il punto pistillifero (ombellico) e se presenta o meno punteggiature. Per la polpa, importano sopra tutto i caratteri del sapore (se è semplice o aromatico, dolce, acidulo) e della consistenza (v. uva).
Infine, carattere importante dal punto di vista sia diagnostico sia tecnologico, è quello dell'epoca di maturazione. Normalmente, si segue la norma di V. Pulliat: di chiamare di I epoca le uve che maturano contemporaneamente allo Chasselas dorato; di II epoca quelle che maturano da 10 a 15 giorni dopo la I; di III quelle che maturano da 10 a 15 giorni dopo la II; e di IV, infine, quelle che maturano da 10 a 15 giorni dopo la III. Le uve che maturano prima dello Chasselas si dicono precoci; quelle che maturano dopo la IV epoca, tardive.
Si prendono pure in esame i vinaccioli o semi: tenendo conto del loro numero, della loro grandezza e forma.
Per quanto riguarda il tronco, poco c'è da rilevare: più che altro se ne osserva la vigoria e il portamento. Per i tralci lignificati si tiene conto della grossezza; della lunghezza degli internodî (il Comitato centrale ampelografico italiano considera corti quelli di 5-6 cm.; medî quelli di 9-10; lunghi quelli di 12 o più); del colore della corteccia; della sezione (nei casi in cui essa non fosse circolare); dei nodi e delle gemme.
Per i fiori, oltre all'epoca di fioritura, si devono rilevare le eventuali anomalie.
Nelle descrizioni ampelografiche, si adottano normalmente appositi moduli o schede, nelle quali, oltre ai caratteri suddetti, si annotano i sinonimi e i nomi errati del vitigno, notizie sulla sua diffusione, sulle sue caratteristiche colturali (resistenza alle avversità ambientali e parassitarie; esigenze in fatto di potatura, ecc., affinità d'innesto, produttività), nonché sul valore tecnologico e commerciale del prodotto (se esso è da vino, composizione e caratteri organolettici del vino; se da tavola, le sue attitudini ai trasporti, alla conservazione, ecc.).
Per quanto concerne i sistemi di classificazioni ampelografiche, numerosi sono stati quelli proposti dal principio del secolo scorso in poi. Ci limitiamo qui ad elencare i principali: sistema di C. A. Frege (1804), S. de Roxas Clemente y Rubio (1807), di Johann L. Christ (1810), di G. Acerbi (1825), di L. Edlen von Vest (1826), di Johan Metzger (1828), di John Burger (1837), di D. Milano (1839), di C. J. Fintelmann (1839), di G. Liegel (1841), di Alex. Odart (1841), di Franz Trummer (1841), di L. v. Babo (1844), di F. Kolenati (1846), di De Gasparin (1848), di. F. Dochnahl (1860), di Bernhard e Friedr. Mareck (1870), di L. Oudart (1873), di Ch. Oberlin (1874), di E. Lucas (1874), di Carl Bronner (1874), di R. Hogg (1875), di G. di Rovasenda (1877), della Commissione ampelografica internazionale (1887), di Ch. Oberlin-H. Goethe (1879), di G. Molon (1893), di B. Bruni (1929).
Tuttavia, come s'è già avvertito, nessuno di essi corrisponde pienamente allo scopo, né è probabile - data la natura stessa del problema - che se ne possa escogitare in avvenire uno perfetto.
Cenni di botanica della vite. - Radice. - Bisogna anzitutto distinguere nella vite le radici che provengono dalla germinazione del seme da quelle che s'ottengono in seguito alla moltiplicazione per gemma (talea, propaggine, ecc.). Nel primo caso (che però non si riscontra nella pratica viticola, ma solo nella tecnica della creazione di nuove varietà) la radice è fittonante, e deriva dalla radichetta dello stesso embrione; per lo più, però, fino dai primi giorni dopo la germinazione del seme, attorno a questa radice principale escono altre radichette (radici epibasiche), che possono anche eguagliare o superare la precedente. Nel secondo caso, si tratta di radici avventizie, che escono dai pezzi di tralcio sotterrati, prevalentemente dai nodi, più raramente dagl'internodî. La loro origine è interna: esse s'iniziano dalla zona cambiale, in corrispondenza dei raggi midollari, ed escono all'esterno attraverso i varî tessuti del tralcio. Nello stesso modo escono le nuove radici da quelle adulte. Nel caso di radichette che fuoriescono da radici giovani, e più raramente nel caso di quelle che nascono da tralci ancora erbacei, esse si originano dal periciclo.
All'estremità la giovane radice presenta la cosiddetta cuffia o pileoriza, destinata a proteggere l'asse vegetativo; segue la zona pilifera o d'assorbimento, che però ha vita breve. Il colore della radice, che dapprima è bianchiccio, va diventando giallognolo, poi bruno, per la formazione del periderma. Le giovani radici sane sono sempre cilindriche, spesso filiformi; se invece si presentano più o meno contorte, o con ingrossamenti di varia forma, quasi certamente sono attaccate da parassiti (fillossera, anguillula).
Nelle radici delle viti, specialmente americane, ha un certo interesse il cosiddetto angolo geotropico: cioè l'angolo che le radici formano con la verticale, in quanto esso può essere un indizio dell'attitudine d'una determinata specie a resistere o meno alla siccità del terreno. Così l'angolo geotropico della Riparia Gloire è di 80°; quello della Rupestris du Lot di 20°; quello d'un ibrido fra queste due specie (R. × R. 3309) è di 45° (Guillon).
Quanto alla struttura interna della radice, ci limiteremo a ricordare come nella struttura primaria (quale si può osservare nelle giovanissime radicelle) si trova all'esterno l'epiblema, le cui cellule s'allungano nei peli radicali; segue l'assisa suberosa; indi il parenchima corticale primitivo, formato da varî strati di cellule grandi a pareti sottili; poi l'endoderma, che limita il cilindro centrale. In questo troviamo anzitutto il periciclo, addossato all'endoderma; indi un numero vario (per lo più da 4 a 8) di fasci raggiati, in cui i fasci cribrosi o floematici e quelli legnosi o xilematici s'alternano (questi ultimi raggiungendo quasi il centro della radice). Il midollo manca o è scarsissimo.
Ben presto però si passa alla struttura secondaria, caratterizzata dall'attività di due zone generatrici: il fellogeno e il cambio. Il primo genera verso l'esterno alcuni strati di cellule sugherose, e all'interno del parenchima corticale secondario (felloderma). Il cambio o zona cambiale ha un andamento sinuoso, sì da lasciare all'esterno i floemi, e racchiudere internamente gli xilemi. I floemi secondarî però s'originano all'interno di quelli primitivi, mentre gli xilemi secondarî si formano in corrispondenza dei floemi; in corrispondenza degli xilemi primitivi si originano invece dei raggi midollari. Con la struttura secondaria la radice viene a essere costituita quasi esclusivamente dal cilindro fibrovascolare, riducendosi quello corticale a pochi strati di periderma. In questo, come nel parenchima liberiano, nonché negli elementi vivi del legno e nei raggi midollari, s'accumula l'amido di riserva.
Ricordiamo infine che nella vite, in condizioni particolari d'umidità, si possono sviluppare anche radici aeree, che hanno la stessa origine di quelle delle talee.
Fusto. - Il fusto della vite coltivata non assume normalmente dimensioni molto notevoli. Tuttavia non sono molto rari esemplari di viti colossali: già Plinio ricordava che a Populonia v'era una statua di Giove scolpita nel tronco di una sola vite; le colonne del tempio di Giunone a Metaponto erano anche di legno di vite; e, in tempi meno remoti, le porte della cattedrale di Ravenna, quelle di S. Andrea a Vercelli, e di altri edifici storici furono fatte con legno di vite. Si può affermare che in tutte quelle regioni in cui per la natura dell'ambiente o per i sistemi di coltivazione adottati la vite può espandersi largamente, anche il suo tronco raggiunge diametri e altezze considerevoli.
Esternamente, il fusto della vite consta di una parte basale (che in più d'un sistema di potatura è di pochi decimetri di lunghezza), che si chiama ceppo o tronco, spesso dividentesi a una certa altezza in due o più branche, le quali portano i rami di uno o due anni (tralci). Ceppo e branche (che costituiscono il legno vecchio) sono ricoperti di una corteccia squamosa detta ritidoma. I tralci hanno un aspetto caratteristico: sono nettamente divisi in porzioni di lunghezza varia (molto corta verso la base) dette internodi o meritalli, distinguibili per i nodi più o meno rigonfiati. Sui nodi sono inserite le foglie, alla base delle quali si trovano le gemme. Dal lato opposto, a partire per lo più dal 3°-4° nodo, s'inseriscono i grappoli e i cirri (o viticci). Nelle varie specie di Vitis questi sono discontinui; cioè dopo due nodi portanti un viticcio o un grappolo ne segue uno che ne è privo. La sola V. labrusca ha cirri continui.
Grappoli e cirri sono dunque organi omologhi, cioè s'originano nel medesimo modo e sugli stessi punti. Ciò è dimostrato anche dai frequentissimi casi intermedî fra un cirro e un grappolo, e dal ben noto fenomeno della filatura dei grappoli. Entrambi hanno natura caulinare, e infatti non è raro trovare viticci che si sviluppano come un vero ramo.
Fra le varie teorie enunciate per spiegare l'accrescimento dei tralci e lo sviluppo su di essi dei cirri e dei grappoli, la più accreditata è oggi quella cosiddetta simpodiale, secondo la quale l'apice vegetativo finisce c0n la formazione d'un grappolo o d'un cirro, mentre il successivo allungamento del tralcio sarebbe dovuto alla formazione d'un nuovo ramo da una gemma che si trova fra gli abbozzi del grappolo o del cirro e dell'ultima foglia. Tale nuovo ramo, accrescendosi rapidamente, spingerebbe lateralmente il grappolo o il viticcio, sicché questi finirebbero per occupare poi il loro posto caratteristico laterale sul nodo. Sui nodi, all'ascella delle foglie, da gemme formatesi nella stessa stagione, s'originano altri germogli detti femminelle (o rami anticipati), i quali a loro volta possono dar luogo a sottofemminelle (o nepoti). Le une e le altre possono anche portare grappoli, che però solo nei paesi a clima caldo possono giungere a maturazione. Il colore dei tralci erbacei è per lo più verde, ma, soprattutto in alcune specie americane, può presentare sfumature rossastre o violacee, specialmente sui nodi. Possono essere glabri, o più o meno rivestiti di peli (che divengono quasi spine in alcune specie esotiche). Con l'avanzarsi della stagione il colore diventa più scuro, variando dal grigio al bruno, mentre i tralci s'induriscono (fenomeno della matarazione o agostamento).
Venendo alla struttura interna del fusto, ricorderemo brevemente che, come nella radice, si ha dapprima una struttura primaria, che si riscontra nei germogli ancora erbace), poi una secondaria, che appare con la maturazione dei tralci.
Facendo la sezione trasversale d'un germoglio, troviamo anzitutto l'epidermide, munita d'una cuticola più o meno spessa e di stomi, e talora di peli. Segue la cosiddetta corteccia, cioè varî strati di cellule che costituiscono il parenchima corticale primitivo, rinforzato da cordoni collenchimatici, che corrispondono alle striature longitudinali, ben visibili più tardi anche dall'esterno. Nel parenchima si trovano cloroplasti (donde il colore verde dei germogli), e cristalli di varia forma (di ossalato di calcio). La corteccia termina verso l'interno con l'endoderma, però assai meno evidente che nelle radici. All'interno si trova il cilindro centrale o fibrovascolare, molto più sviluppato della corteccia (mentre nelle radici giovani è l'opposto). Esso s'inizia col periciclo, che più tardi si differenzierà dando fibre molto allungate; e all'interno di esso si trovano i fasci fibrovascolari (aperti) in numero variabile, fino a 30-40, ognuno formato da una porzione cribrosa, liberiana o floema e da una legnosa o xilema, separate dal cambio, che costituisce una zona anulare continua. Lo xilema è formato da grossi vasi, da fibre legnose e da parenchima. Tra un fascio e l'altro si trovano i raggi midollari primarî, che sboccano in un abbondante midollo centrale, a pareti sottili, e con frequenti lacune.
La struttura secondaria, come nella radice, è dovuta all'attività di due zone generatrici: il fellogeno e il cambio. Il primo è un anello meristematico che si origina internamente alle fibre pericicliche, tra i floemi, e che a sua volta produce verso l'esterno alcuni strati di cellule che si suberizzano (periderma), e verso l'interno due o tre strati di parenchima corticale secondario.
Con la formazione del sughero (periderma) s'eliminano tutti i tessuti più esterni, mentre si ha una più completa lignificazione del libro duro e dello xilema, oltre a un accumulo di amido, il quale si forma specialmente nei raggi midollari e nella parte del midollo che si trova a contatto degli xilemi.
Il midollo centrale muore con la maturazione dei tralci. Questo midollo viene però interrotto, in corrispondenza dei nodi dei tralci, dal cosiddetto diaframma (di forma varia da specie a specie, e anche da vitigno a vitigno), costituito da cellule vive e, nei tralci maturi, piene di sostanze di riserva.
L'attività del cambio dà luogo ogni anno a nuovo libro all'esterno e nuovo legno all'interno, mentre nuove zone di fellogeno, formatesi tra i floemi più esterni, provvedono a dare origine a nuovo periderma, che elimina i vecchi tessuti corticali, che si staccano a poco a poco dal fusto (ritidoma).
Gemme. - Come s'è detto, sui nodi, all'ascella del picciolo delle foglie, si trovano le gemme. Si sogliono distinguere le gemme pronte (o estive) dalle ibernanti. Le prime sono quelle che si formano in modo completo poco dopo che sono apparse, e che dànno origine alle femminelle. Le seconde si formano invece più tardi, e si chiamano ibernanti, perché non si sviluppano che nella primavera successiva. In realtà esse non sono uniche e isolate, come appaiono a un'osservazione sommaria, bensì riunite in gruppi di 2 o più (fino a 7), molto ravvicinate, di cui una principale, che è quella che normalmente si sviluppa e che dà luogo al germoglio fruttifero, mentre le altre, dette anche controcchi, non si sviluppano che nel caso di fallanza della principale o del suo germoglio. I controcchi sono di solito molto meno fertili. Esistono anche gemme dette dormienti, perché non vegetano neppure all'anno seguente; ma talora solo dopo varî anni. Sono esse quelle piccole gemme che si trovano presso la base dei tralci dell'annata, o anche le gemme di controcchio, che non hanno trovato modo di aprirsi a primavera, e che perciò col tempo finiscono per trovarsi sul legno vecchio. Allorché esse si aprono, dànno origine ai cosiddetti succhioni o polloni, normalmente infruttiferi. Le gemme della vite sono protette contro le intemperie da scaglie (perule) e da peli cotonosi. Nell'interno presentano un asse o cuore, circondato da foglioline, tra le quali si possono già scorgere i futuri grappolini rudimentali.
Foglia. - La vite ha foglia semplice (per quanto recenti indagini, fatte specialmente sul modo con cui avviene la defogliazione, e sull'esistenza di articolazioni sopra e sotto il picciolo, la farebbero ritenere una foglia composta unifogliata). Essa si compone d'un picciolo e d'una lamina o lembo: quest'ultimo tipicamente pentagonale, palminervio (salvo le differenze già ricordate dal punto di vista ampelografico). Notevole è l'eterofillia nella vite; ciò che costituisce una delle maggiori difficoltà per le descrizioni ampelografiche. Il picciolo, al punto d'inserzione sul tralcio, s'allarga a guisa di guaina, o ascella, racchiudente la gemma. Dapprincipio esistono due stipole, che però ben presto si disseccano e cadono. Le foglie della vite sono solitarie con divergenza a 1/2. La caduta delle foglie è determinata dalla formazione di strati sugherosi al punto d'attacco del picciolo sul tralcio. La colorazione autunnale, caratteristica anche dal punto di vista ampelografico, è dovuta alla formazione di antociani. Quanto alla struttura interna del lembo fogliare, essa non differisce sensibilmente da quella delle foglie delle altre dicotiledoni. La pagina superiore è limitata da un'epidermide cutinizzata, priva di stomi (tranne che lungo le nervature maggiori); segue il tessuto a palizzata, costituito di un solo strato di cellule molto ricche di cloroplasti; indi il tessuto lacunoso, formato di varî strati di cellule, e infine l'epidermide della pagina inferiore, la quale pur essendo meno ricca di cutina, è molto ben provvista di stomi e, tranne che nelle foglie glabre, di peli.
Superfluo ricordare qui le importantissime funzioni delle foglie per la vite, come per tutte le piante verdi. Nel caso della vite, basterà accennare che esse sono fondamentali per la produzione degli zuccheri, che dovranno poi accumularsi nei grappoli.
Infiorescenza. - Il grappolo d'uva proviene dall'evoluzione d'una infiorescenza, che è un racemo o grappolo composto. Come già s'è visto, la posizione dei grappoli è costantemente sui nodi, opposti alle foglie, ed è identica a quella dei viticci. Il numero dei grappoli che un germoglio può portare varia da due a tre, più di rado quattro, nelle viti europee; mentre può essere assai maggiore in quelle americane. La rachide del grappolo può variamente ramificarsi e le singole ramificazioni psssono assumere sviluppo diverso; di qui le varie forme dei grappoli già ricordate. Non di rado, la prima ramificazione della rachide è costituita da un viticcio, che talvolta permane, ma più frequentemente si dissecca e cade.
Considerando ora i singoli fiori, bisogna distinguere il caso dei vitigni coltivati per il frutto (come sono quelli europei e gl'ibridi cosiddetti produttori diretti) da quello delle viti selvagge o esotiche. Nel primo caso, attraverso una lunga selezione, sono andate diffondendosi le varietà che hanno prevalentemente fiori ermafroditi e scartandosi del tutto quelle a fiori maschili, che sono infruttifere, e, fin dove è possibile, quelle a fiori femminili (sotto quest'ultima denominazione s'intendono quei fiori il cui polline è sterile, o poco fecondo, e pertanto è necessario l'apporto di polline estraneo per la loro fecondazione). Il fiore ermafrodito nella vite è portato da un pedicello allargantesi superiormente (talamo). Su di esso dall'esterno all'interno si trova il calice, che nel fiore aperto si presenta sotto forma di piccola coppa con cinque denti (sepali); la corolla, di cinque petali, tipicamente riuniti in alto, a guisa di cappuccio, di colore per lo più verde, più di rado giallognolo o rossastro. Quando il fiore è maturo, la corolla cade, staccandosi dalla base, e scopre l'androceo, costituito di regola da 5 stami, più di rado in numero superiore (fino a 8): ogni stame ha un filamento, che porta un'antera biloculare, avente deiscenza longitudinale. Le antere nel fiore chiuso sono rivolte verso l'interno, ma caduta la corolla, si volgono verso l'esterno, in modo che il polline naturalmente non cada sul proprio fiore. Nel centro di questo si trova il gineceo a forma di piccolo fiasco, con un corto collo o stilo che porta lo stigma, e con la parte inferiore rigonfia (ovario). Nell'ovario normalmente si trovano 4 ovuli anatropi. Alla base del gineceo si trovano 5 nettarî, alternantisi con gli stami. I fiori naschili della vite hanno il gineceo atrofico, ma gli stami più lunghi, diritti, con polline molto fecondo. Sono frequenti nelle viti americane. I fiori femminili hanno invece il gineceo normale, ma gli stami corti, e, dopo la caduta della corolla, questi sono rivolti in basso, spesso con i filamenti contorti. Essi hanno un polline per lo più infecondo, soprattutto per i proprî pistilli. Sono abbastanza frequenti anche in viti europee, soprattutto in certe uve da tav9la (Bicane, Ohanez, ecc.). La fecondazione nella vite è per lo più incrociata, ed è prevalentemente anemofila, più di rado entomofila. Il polline, cadendo sullo stigma, vi viene trattenuto da un liquido zuccherino che da esso trasuda, e che ne provoca la germinazione. Il budello pollinico, che in seguito si forma, penetra attraverso lo stilo raggiungendo in un paio di giorni il micropilo dell'ovulo; dal micropilo penetra nella nocella; una delle due cellule generatrici (anterozoidi) si fonde con l'oosfera, l'altra col nucleo secondario del sacco embrionale (oosfera secondaria). La prima fusione (o prima fecondazione) dà origine all'embrione; la seconda all'albume. In questo modo l'ovulo si trasforma in seme e l'ovario in frutto. Non sempre però la fioritura della vite avviene regolarmente. Si possono verificare diversi fenomeni anormali, per lo più dannosi per la produzione della vite. Uno dei più comuni è la colatura dei fiori; l'altro quello dell'impallinamento (o millerandage). Le cause di questi fenomeni sono molteplici (v. colatura).
Frutto. - Il frutto della vite è detto comunemente uva: in realtà, si tratta d'una infruttescenza, dovuta alla trasformazione dell'infiorescenza già descritta; i cui singoli frutti sono bacche comunemente dette acini (v. uva).
Seme. - Il seme della vite è detto comunemente vinacciolo. Nella Vitis vinifera esso è tipicamente piriforme e presenta una parte rigonfia e una appuntita (becco). La parte rigonfia ha una faccia dorsale convessa, con una depressione circolare nel centro, detta calaza, circondata da un piccolo solco che poi, correndo longitudinalmente, divide la parte più alta del vinacciolo in due piccoli lobi. La faccia ventrale è piegata leggermente a tetto, e presenta due fossette laterali. I caratteri esterni dei vinaccioli variano abbastanza sensibilmente nelle diverse specie di Vitis.
Internamente, nel seme si distinguono due tegumenti e la mandorla. Il tegumento esterno presenta tre zone, di cui la più superficiale è un'epidermide sottile, cui seguono 5-6 strati di cellule grandi a pareti sottili; una terza zona più interna comprende varî strati di cellule sclereficate, a pareti molto spesse: è questa zona che dà al seme della vite la sua tipica durezza, ed essa protegge le parti interne e più vitali del seme, che nel loro insieme formano la mandorla. Questa è costituita da un abbondante albume oleoso (con granuli d'aleurone), rappresentante la sostanza di riserva, destinata ad alimentare l'embrione all'atto del germogliamento. L'embrione è piccolo, diritto, lanceolato, e si trova situato verso il becco del seme, con la radichetta volta alla punta di esso, e i cotiledoni in direzione della calaza.
I semi maturi sono facili da conservare; per agevolarne la germinazione, è bene rammollirli per alcuni giorni in acqua. Posti in ambiente adatto, dalla punta del becco esce la radichetta, mentre l'asse ipocotileo s'allunga verso l'alto; dai tegumenti lacerati escono i due cotiledoni (talvolta tre), e successivamente appaiono le caratteristiche foglioline lobate della vite.
L'ambiente naturale. - In Europa la regione della vite è delimitata da una linea che parte da 47° 44′ di latitudine alle foci della Loira, per risalire fino a 49° 33′ e continuare presso a poco su questo parallelo fino alla Mosella, ridiscendendo la valle di questa fino alla confluenza del Reno a Coblenza, per seguire questo fiume fino presso Bonn, a 50° 46′, e risalire poi ancora toccando la massima latitudine nord presso Berlino, a 52° 30′. Indi ridiscende verso sud-est sino a riportarsi in Ungheria fra il 48° e il 49°, e discendere ancora fra il 47° e 48° nella Bucovina e nella Moldavia. Risale alquanto, continuando verso est, sì da comprendere tutta la Russia meridionale. Il confine meridionale in Europa è segnato dal Mediterraneo. Nell'Africa del nord il limite meridionale corre pressappoco sul 30° di latitudine, fatta eccezione delle Canarie, che sono più a sud (28°). Ritroviamo poi la vite nell'Africa australe, dove si ha un importante vigneto nella Colonia del Capo. In Asia il limite settentrionale si può dire che corra sul 40° parallelo, per quanto esso sia piuttosto incerto; quello meridionale tocca il 20°.
Nell'America Settentrionale il confine superiore attraversa la California, poi sale verso nord, portandosi verso il 41°. Presso a poco fra il 41° e il 40° di latitudine sud corre il limite polare nell'emisfero australe, comprendendo, oltre ai vigneti dell'America Meridionale (e specialmente della Repubblica Argentina), anche quelli dell'Australia meridionale e della Nuova Zelanda.
L'influenza della latitudine si combina però strettamente con quella dell'altitudine. Così mentre il limite massimo d'altitudine per la vite è di circa m. 300 in Ungheria, lo è di 500 nella Svizzera settentrionale, di 1000 nei Pirenei, di 1300 sull'Etna, di 2500 sul Himālaya, di 3500 sulle Ande. Nell'Italia settentrionale il limite oscilla dai 600 m. (prov. di Belluno) ai 1200 (prov. d'Aosta), in funzione d'altre condizioni ambientali.
Il clima e la vite. - La vite è più esigente in fatto di clima che di terreno. Primo tra i fattori del clima è da considerare il calore. Normalmente il germogliamento della vite avviene con temperature minime da 8° a 12°, la fioritura con temperature da 16° a 18°, e anche più frequentemente a 20°, la maturazione fra 18° e 23°; la defogliazione fra 12° e 14°. La somma di calore necessario per l'intero ciclo di sviluppo della vite (impropriamente chiamata costante termica), varia da luogo a luogo, e da vitigno a vitigno. Quanto alle minime tollerabili, in generale, per le viti europee si considerano temperature pericolose quelle che scendono sotto i −16° −17°. Più raramente invece accade che le viti abbiano a soffrire a causa di temperature massime.
La luce è un altro fattore importantissimo per la vite. S'ammette in generale che una maggiore luminosità durante il periodo vegetativo, ma specialmente nei mesi da maggio ad agosto, giovi per la produzione di uve più zuccherine. Si ritiene inoltre che, dentro certi limiti, l'abbondanza di luce sia capace di compensare una deficienza di calore.
La vite teme più l'eccesso che il difetto d'umidità. Soprattutto nocive sono le piogge all'epoca della fioritura potendo provocare la colatura o la filatura dei grappoli. Ma dannose sono anche nel periodo che precede la vendemmia, potendo essa diluire i succhi e abbassare il titolo zuccherino e favorire il marciume dell'uva. In generale, si può affermare che durante la stagione vegetativa, le piogge troppo frequenti favoriscono lo sviluppo di malattie crittogamiche e specialmente della peronospora.
Ma anche le siccità troppo prolungate durante i mesi estivi possono nuocere sia alla vegetazione della vite, sia alla normale maturazione dell'uva, oltreché a un conveniente incremento di peso dei grappoli.
La brina può riuscire di grave danno per la vite quando si verifichi a primavera avanzata, dopo che è avvenuto il germogliamento; mentre è innocua d'autunno. La neve in generale si può considerare più utile che dannosa. La nebbia in generale è poco benefica, mantenendo un ambiente troppo umido attorno alle viti e intercettando i raggi solari. La rugiada per sé stessa potrebbe riuscire piuttosto utile, ma, se le viti restano a lungo bagnate, si possono avere infezioni peronosporiche. La grandine, superfluo dirlo, è uno dei peggiori flagelli per la vite.
I venti non troppo impetuosi o riescono innocui o anche alquanto utili, giovando alla fecondazione dei fiori, asciugando più rapidamente le viti dopo le piogge. Dannosi invece sono quelli troppo violenti, e specialmente quelli salsi.
G. Azzi chiama zone fisiografiche quelle nelle quali, per una data pianta, si riscontrano le medesime condizioni bioclimatiche. Ora egli ha diviso l'Italia, nei riguardi della vite, in sei zone fisiografiche che sono indicate nella cartina qui sotto riprodotta.
Nella I zona il fenomeno avverso più importante è la siccità; seguono gli eccessi termici durante il 3° e il 4° sottoperiodo della vite (giugno-agosto). Nella II zona si possono lamentare tanto siccità quanto eccessi di pioggia. Nella III zona i danni maggiori dipendono dagli eccessi ùi pioggia. Nella IV zona, più ancora che nella III, dominano gli eccessi di pioggia, è rara la siccità, quasi sconosciuti gli eccessi termici. Nella V zona è abbastanza frequente la siccità, ma si hanno talora eccessi ili piogge e deficienze termiche. Nella VI zona sono frequenti le deficienze termiche, accompagnate talora da forti abbassamenti di temperatura invernali; frequenti anche gli eccessi di pioggia.
Il terreno per la vite. - In generale la vite preferisce i terreni sciolti a quelli compatti, specialmente perché quelli sono più aerati, più asciutti, più caldi di questi. Come per il clima, così per il terreno la vite teme più l'eccesso che il difetto d'umidità, ma anche il difetto d'umidità nuoce tanto alla vegetazione quanto alla fruttificazione della vite, e ad esso, potendo, bisogna rimediare con l'irrigazione. Ha molta importanza per la vite il calore del terreno, o meglio la sua capacità di riscaldarsi; i terreni scuri si riscaldano più facilmente di quelli chiari; di qui talune pratiche, in uso specialmente in paesi settentrionali (Champagne, Borgogna, Renogovia) che tendono a scurire i terreni con l'apporto di sostanze diverse. Molto influisce, al riguardo, anche la giacitura e l'esposizione del terreno: i terreni di colle, quando siano orientati verso sud o verso ovest, si riscaldano assai più di quelli di piano, e più facilmente s'asciugano dopo le piogge. La profondità del terreno interessa soprattutto per talune viti americane. Hanno infine notevole importanza le proprietà chimiche del terreno, soprattutto sulla qualità dei prodotti.
L'argilla, se troppo abbondante, rende i terreni poco adatti alla vite, perché essi risultano poco permeabili, freddi, oltre che difficili e costosi da lavorare. Si ritiene però che i vini riescano in essi più coloriti; e, quando l'argilla non sia in eccesso, può contribuire a dare vini robusti e generosi. La silice in generale è favorevole alla vite, anche se contenuta in proporzioni molto elevate. I vini: ni che s'ottengono da terreni silicei sono in generale molto profumati, anche se talora poco colorati. Se si tratta poi di sabbie vere e proprie, si può avere in esse anche l'immunità dagli attacchi della fillossera. Il calcare - a prescindere dalla questione delle viti americane - in generale è utile alla vite, contribuendo a dare vini di buon profumo e anche di elevata alcoolicità. Se oltre al carbonato di calcio v'è anche quello di magnesio, i vini sembra che acquistino anche maggiore armonicità. Invece l'abbondanza di sostanze organiche è poco opportuna per ottenere vini fini e pregiati, in quanto è facile che essi risultino scadenti e difficili da conservare. L'alcalinità del terreno è meglio tollerata dalla vite europea, che non dalla maggior parte delle viti americane. Queste viti invece si può dire in generale che bene si comportano nei terreni neutri o subacidi.
Moltiplicazione della vite. - La vite può moltiplicarsi per seme e per gemma. La moltiplicazione per seme normalmente fa variare nei discendenti i caratteri della pianta madre, dando origine a nuove varietà; invece quella per gemma mantiene inalterati tutti i caratteri della vite dalla quale proviene la gemma. Questo motivo da tempo antichissimo ha fatto preferire nella pratica viticola la moltiplicazione per gemma, sotto le varie sue forme.
Moltiplicazione per seme. - È la vera moltiplicazione sessuale. In conseguenza della fecondazione incrociata, frequentissima nella vite, avviene un'ibridazione spontanea, resa più facile dalla coltura promiscua, che un po' dappertutto si fa, di vitigni differenti. Perciò nella pratica della viticoltura non si ricorre a questa forma di moltiplicazione, ma essa serve per ottenere nuovi vitigni, per introdurre qualche carattere nuovo in un determinato vitigno, per creare degl'ibridi fra viti europee e americane allo scopo di ottenere vitigni più resistenti ai nuovi flagelli della viticoltura europea: fillossera, peronospora, oidio, ecc. Le leggi dell'ibridazione della vite non sono ancora del tutto conosciute, né tutte sono di semplice applicazione; in quanto per ovvie ragioni di tempo non è semplice proseguire l'indagine per più generazioni di ibridi. S'è cercato di superare tali difficoltà eseguendo un grandissimo numero d'ibridazioni, sì da poter poi scegliere fra una numerosissima schiera d'ibridi. Questo metodo è stato seguito da G. Couderc, P. Castel, A. Seibel, A. P. Millardet, Ch. Oberlin, e dagl'italiani A. Ruggeri, F. Paulsen, A. Pirovano, ecc.
Tecnica dell'ibridazione. - Al momento della fioritura si sceglie sulla pianta madre un grappolo presentante 2-3 fiorellini già aperti (scappucciati); si sopprimono con le forbici tali fiorellini aperti; poi si procede allo scappucciamento (soppressione delle corolle) degli altri fiori; indi all. emasculamento (soppressione degli stami), dopo di che, se non si ha già pronto il polline, si chiude il grappolo così operato in un sacchetto di carta oleata per evitare l'intervento di polline estraneo. Entro 2-3 giorni bisgna procedere all'impollinazione. Il metodo più usato è quello di toccare con un pennellino molto fine imbrattato di polline gli stigmi dei fiori emasculati. Il sacchetto viene lasciato in posto almeno fino ad allegagione sicuramente avvenuta. La raccolta di questi grappoli deve essere fatta un po' più tardi del normale, per essere sicuri che i semi siano ben maturi.
La semina dei vinaccioli generalmente si fa a primavera; per favorire la germinazione si lasciano per alcuni giorni a rammollire nell'acqua. Ottenute le piantine, si studieranno i nuovi vitigni con diligenza e costanza per un buon numero di anni, potendo spesso i caratteri degl'ibridi variare sensibilmente nei primi tempi.
Gl'ibridi s'indicano per lo più con i nomi dei 2 progenitori separati da un × se si tratta d'ibrido artificiale; da un − se d'ibrido naturale. Il nome che precede è quello della vite madre. Quando al nome seguono dei numeri, questi sono stati dati dall'ibridatore nelle sue collezioni.
Moltiplicazione della vite per gemma. - Come s'è detto, è il metodo più usato nella coltura ordinaria. Le forme più importanti sono la talea, la propaggine, la margotta e l'innesto.
Talea. - La talea è costituita da un pezzo di tralcio, normalmente di un anno, munito di almeno due gemme. Se la gemma fosse unica, si avrebbe la "gemma isolata": metodo di moltiplicazione assai poco usato in viticoltura. Allorché la talea viene piantata, dalla parte inferiore (specialmente in corrispondenza dei nodi) escono le radici, mentre la gemma superiore si schiude dando un germoglio. Oltre a questo tipo di talea, detta ordinaria, se ne hanno varî altri: uno dei più antichi è il magliolo, talea che porta inferiormente un pezzetto di legno di due anni. La lunghezza delle talee può variare: nei terreni freschi è bene che siano piuttosto corte (d'una trentina di centimetri); in quelli secchi più lunghe (50-60 cm.). È necessario formare le talee da tralci ben lignificati, sani, di medio calibro, provenienti da ceppi aventi spiccate le buone caratteristiche del vitigno, e non affetti da malattie trasmissibili per talea (es. il roncet). Le talee possono essere staccate dalle piante madri durante tutta la stagione di riposo. Se si tagliano molto tempo prima dell'impianto, bisogna provvedere alla loro conservazione in un ambiente che eviti tanto il loro disseccamento, quanto un prematuro movimento vegetativo con relativa schiusura delle gemme. Il metodo migliore è di conservarle sepolte in sabbia quasi asciutta, in un locale bene isolato dall'esterno. In generale la vite attecchisce bene per talea. Però abbiamo taluni vitigni europei, e specialmente alcune specie e ibridi americani, che sono molto restii a radicare per talea. Tipico è il caso della Vitis Berlandieri e dei suoi ibridi. Si sono studiati molti mezzi per favorire l'attecchimemo delle talee di detti vitigni. Pochi sono però veramente efficaci. Giovano più o meno l'immersione delle talee in acqua per alcuni giorni prima dell'impianto; lo scortecciamento della base delle talee; la torsione; lasciare un pezzo di legno di due anni alla base (magliolo); l'insabbiamento; l'immersione in soluzioni di permanganato potassico al 0,05% o di biossido di manganese al 0,04% per 24 ore; la raccolta delle talee a primavera subito prima dell'impianto. Il piantamento delle talee si fa ben raramente oggi a dimora, cioè là dove si voglia costituire un nuovo vigneto. Per lo più invece esse si piantano prima in vivaio, dove restano normalmeme un anno, più di rado due, trasformandosi in barbatelle (v.). Il vivaio dev'essere posto in un terreno leggiero, soffice, fresco o irrigabile, ben concimato. L'impianto delle talee può essere fatto a ciglioni o ad aiuole. È più usato il primo sistema. L'epoca d'impiantn delle talee va dai primi di marzo alla fine di aprile, a seconda dei climi (dove l'inverno non è rigido, è preferibile l'impianto d'autunno). Le cure colturali al vivaio consistono soprattutto in sarchiature, scerbature e, se necessario, irrigazioni: queste però fatte con molta parsimonia.
Propaggine. - Varie sono le forme di propaggine che si possono usare in viticoltura, ma tutte hanno in comune la caratteristica di uno o più tralci parzialmente interrati senza che vengano subito staccati dalla pianta madre; sicché l'emissione delle radici avviene mentre essi ancora ricevono il nutrimento dalla vite madre. Un tempo era molto usata in viticoltura la propaggine semplice, destinata a sostituire le viti mancanti nei vigneti. Oggi però questo metodo è pressoché abbandonato, perché, essendo i nuovi vigneti su piede americano resistenti alla fillossera, con la propaggine evidentemente si verrebbe a sotterrare un tralcio europeo, il quale emetterebbe radici non resistenti. Qualche interesse possono ancora avere oggi certe forme di propaggini multiple, come la cosiddetta propaggine cinese.
Poco usata è in viticoltura la margotta (usatissima invece per gli agrumi, i rosai).
Innesto. - È una delle forme più importanti di moltiplicazione della vite per gemma. Usata fin dai tempi antichi (i georgici latini ce ne lasciarono precise descrizioni) è andata assumendo un' importanza assolutamente fondamentale nella viticoltura moderna, dopo l'invasione fillosserica. L'innesto però non ha perduto con ciò i suoi scopi più antichi: e specialmente quello di poter rapidamente ed economicamente sostituire le varietà di viti d'un vigneto con altre migliori o più ricercate. Perché l'innesto fra due viti dia buoni risultati, occorrono determinate condizioni: anzitutto che esista un'affinità d'innesto, cioè una stretta parentela, non solo dal punto di vista morfologico, ma anche e più da quello fisiologico. L'innesto in viticoltura è possibile fra le varie specie del genere Vitis (esclusa la V. rotundifolia); ma i gradi d'affinità possono essere molto varî. Vi sono poi condizioni estrinseche di riuscita degl'innesti: la temperatura dell'ambiente, che è tanto più favorevole al processo di saldatura quanto più è prossima ai 25°; l'umidità, che deve essere notevole ma non eccessiva; un moderato accesso dell'aria nel punto d'innesto, che consenta un'attiva respirazione. Molto s'è discusso sugli effetti dell'innesto in viticoltura, specialmente nel caso d'innesti di viti europee su americane. S'è però esagerato nei riguardi delle cosiddette variazioni d'innesto, affermando che alcune di queste (dette variazioni specifiche) possano addirittura dar luogo a casi di pseudo-ibridazione, con la comparsa di ibridi d'innesto. Certo non si può ammettere che in seguito all'innesto le viti americane finiscano per perdere la loro resistenza alla fillossera, e quelle europee le loro buone attitudini fruttifere. Ma ciò non esclude che si debba porre la maggior attenzione alla scelta di adatti portinnesti.
Quanto alle forme, si distinguono anzitutto innesti legnosi ed erbacei. I primi sono da tempo i più diffusi ma i secondi vanno acquistando sempre maggiori simpatie fra i viticoltori. Fra gl'innesti legnosi della vite, d'uso molto antico e generale sono quelli a spacco e specialmente l'innesto a spacco semplice, molto adatto quando si debbono innestare grossi ceppi. L'innesto a spacco pieno è usato specialmente quando si debbono innestare soggetti non molto grossi, come barbatelle di uno o due anni. L'innesto a cavallo sarebbe un innesto a spacco pieno capovolto. Gl'innesti inglesi sono caratterizzati dall'avere marza e soggetto dell'identico diametro, entrambi tagliati a becco di clarino, sicché le superficie di sezione possono combaciare esattamente, senza lasciare ferite scoperte. Il tipo più perfetto e preferito d'innesto inglese è quello cosiddetto a doppia fenditura, o a linguetta. È molto usato specialmente per l'innesto al tavolo delle talee americane (innestotalea).
Gl'innesti erbacei (e quelli semi-legnosi) differiscono dai precedenti perché si fanno durante la stagione vegetativa della vite, fra germogli ancora erbacei o solo parzialmente lignificati. Le saldature in essi avvengono per lo più assai meglio che in quelli legnosi. Alcuni di essi si eseguiscono molto presto: dalla metà di maggio alla metà di giugno; tali sono gl'innesti inglesi erbacei semplici (cioè senza linguetta) o a doppia fenditura; seguono, in ordine di tempo, gl'innesti a occhio vegetante, in generale poco usati e poco raccomandabili; infine, dal luglio al settembre, s'eseguiscono gl'innesti a occhio dormiente. Si hanno varî modi d'esecuzione di questi ultimi; fra i più comuni sono quelli a zufolo e quelli a occhietto (detti anche alla Maiorchina). Tali innesti erbacei (o semi-legnosi) possono riuscire anche molto utili per sostituire quelli legnosi falliti.
Gl'innesti al tavolo hanno trovato larghissime applicazioni per preparare le barbatelle innestate da piantare in vivaio. Normalmente, dopo eseguiti, gl'innesti al tavolo si sottopongono a una forzatura per affrettarne e assicurarne l'attecchimento. La forzatura s'ottiene ponendo gli innesti in un ambiente caldo-umido, a circa 25°. Dopo la forzatura, gl'innesti vengono piantati in vivaio. Questo deve rispondere agli stessi requisiti del vivaio per talee: tenendo presente che gl'innesti-talea sono ancora più esigenti delle semplici talee. Anche le cure colturali al vivaio d'innesti devono essere più assidue e diligenti che non al vivaio per barbatelle selvatiche. Somma importanza hanno per gl'innesti i trattamenti antiperonosporici. Operazione molto importante è anche la sbarbettatura degl'innesti, la quale consiste nel sopprimere le radici uscite dalla marza (dette di affrancamento), le quali non tarderebbero a prendere il sopravvento, con grave danno al soggetto. Se possibile, è meglio evitare le irrigazioni al vivaio d'innesti; in qualunque caso, bisognerà usarne con molta parsimonia. Normalmente gl'innesti restano in vivaio per un solo anno; in casi più rari la permanenza può essere di due anni.
Potatura secca della vite. - È una delle operazioni fondamentali per la viticoltura. Essa consiste nel sopprimere una parte degli organi legnosi della vite, e nel raccorciarne debitamente altri. È detta un po' impropriamente "secca" per distinguerla da quella "verde", che si esegue durante il periodo vegetativo della pianta, sugli organi erbacei. Fin dai tempi antichi s'è compreso che una vite non potata assumerebbe un portamento disordinato, irregolare, invadendo lo spazio delle vicine, ostacolando i lavori al terreno. Non solo, ma essa darebbe una produzione molto incostante da un anno all'altro; e anche la qualità della produzione ne risentirebbe, perché l'eccessivo numero dei grappoli delle annate di abbondanza non troverebbe sufficiente alimento per giungere a regolare maturazione. La potatura razionale della vite si basa sui seguenti principî: 1. la vigoria vegetativa della vite è, fino a un certo punto, contraria alla sua attitudine a fruttificare; 2. tale vigoria vegetativa è proporzionale al numero delle foglie che la vite porta; 3. una potatura molto rigorosa deprime la vigoria vegetativa della vite, diminuendo il numero delle foglie; 4. lo sviluppo degli organi omologhi nelle viti è complementare: quindi, diminuendo il numero di essi sulla pianta si favorisce lo sviluppo di quelli che si lasciano (ciò vale tanto per i tralci quanto per i grappoli e gli acini d'un grappolo); 5. lo sviluppo del sistema aereo è proporzionale a quello radicale; quindi non si dovrà mai con la potatura portare squilibrî pericolosi fra questi due sistemi; 6. la posizione verticale dei tralci è più favorevole allo sviluppo vegetativo mentre la posizione orizzontale o ricurva favorisce di più la fruttificazione; e così le strozzature, le incisioni, ecc.; 7. normalmente il frutto della vite è dato da germogli che escono da tralci d'un anno portati da legno di due anni. Questi ultimi due principî permettono di distinguere i capi a legno dai capi a frutto.
Capi a legno sono quelli che per la loro posizione verticale e per il piccolo numero di gemme sono più adatti a dare vigorosi germogli; capi a frutto sono quelli che per la loro posizione orizzontale o ricurva, per il numero sempre piuttosto rilevante di gemme che portano, sono più adatti a dar frutto. I capi a legno di solito sono costituiti da speroni o cornetti di due o tre gemme. I capi a frutto da tralci di 5-6 o più gemme. In alcuni casi però si lasciano alla vite solo degli speroni: si fa allora una potatura corta. Quando invece si lasciano tralci fruttiferi di più gemme, si fa una potatura lunga. Si dice invece potatura povera quella che, relativamente al tipo di potatura adottato, lascia sulla vite un piccolo numero di gemme; potatura ricca quella che, sempre relativamente, ne lascia un gran numero. L'epoca della potatura varia a seconda delle circostanze. Nei climi meridionali si può cominciare a potare dopo la caduta delle foglie. Ma nei climi settentrionali una potatura fatta troppo presto può essere nociva. Le viti potate in autunno, difatti, a primavera entrano prima in vegetazione, ciò che può essere pericoloso dove sono frequenti le brinate primaverili. E perciò là dove queste sono da temere, è preferibile attendere a potare alla fine dell'inverno o al principio della primavera. Quanto agli strumenti per la potatura, sono ormai pressoché del tutto abbandonati gli antichi pennati (specie di roncole, per lo più con una lama anche sul dorso), e invece d'uso generale le forbici da potare, cui s'aggiunge, per i grossi tagli, un seghetto.
Principali sistemi di potatura della vite. - 1. Sistemi di potatura corta. - Alberello. - Sotto questo nome si comprende tutto un gruppo di sistemi d'allevamento a ceppo basso, nei quali la vite assume quasi l'aspetto d'un piccolo albero che, spesso, si sostiene da sé, senza alcun aiuto. La potatura, dopo il periodo d'allevamento, è quella tipica a speroni: cioè si pota a due gemme il tralcio più basso dei vecchi speroni, e si sopprime, il più alto. Vi sono varî tipi di alberelli: a vaso, pugliese, a capitozza. In generale gli alberelli sono sistemi adatti a vitigni poco vigorosi, che abbiano le gemme basali dei tralci fruttiferi, e che si coltivino in terreni asciutti, piuttosto magri, e in climi o caldo-aridi, o freddi, dove cioè la vite non può assumere che uno sviluppo molto modesto.
Cordoni speronati. - Si chiamano così quei sistemi nei quali il ceppo della vite assume la forma d'un cordone di notevole lunghezza, portante varî speroni fruttiferi di due gemme. Si tratta quindi di sistemi di potatura corta ma piuttosto ricca. A seconda della posizione del cordone, si possono avere cordoni orizzontali, verticali o obliqui. I più importanti sono certamente i primi. Le viti si piantano a filari, distanti non meno di 2 metri; e nel filare si pongono a metri 1,50 o 2 l'una dall'altra. L'impalcatura dei filari è costituita da 3 fili di ferro: il primo distante 50 cm. da terra; il secondo 30 cm. dal primo, il terzo 60 cm. dal secondo. Sul primo filo si distende il cordone, sul quale si lasciano a 20-25 cm. l'uno dall'altro gli speroni di 2 gemme. Ogni anno, dei due tralci di ciascuno sperone si sopprime il più alto, e l'altro si sperona a sua volta a due gemme. Il cordone speronato orizzontale è un ottimo sistema per quei vitigni che s'adattano a potatura corta e abbastanza ricca, e per terreni sufficientemente fertili, ma asciutti. Esso può dare produzioni abbondanti e nel tempo stesso di buona qualità. I cordoni verticali o obliqui sono sistemi adatti per uve da tavola di lusso, coltivate a spalliera o in serra.
2. Sistemi di potatura lunga della vite. - Sistema Guyot. - È uno dei più noti sistemi di potatura della vite. Si volle anzi da taluni definirlo il "sistema razionale" per antonomasia. Esso però, con varianti più o meno notevoli, è usato da tempo lunghissimo in Italia. Caratteristica del sistema Guyot è quella di presentare tipicamente un capo a legno, costituito da uno sperone, e un capo a frutto costituito da un tralcio di varie gemme. Le viti, piantate a filari, per lo più a un metro l'una dall'altra, quando sono giunte a produzione (3°-4° anno) subiscono la tipica potatura, che consiste nell'asportare il vecchio capo a frutto fin dalla base, accorciare opportunamente (lasciandogli 6-8-10 gemme) il più alto dei tralci del vecchio sperone, e speronare a due gemme il tralcio più basso. Naturalmente, non sempre la potatura è così semplice, potendo mancare o l'uno o l'altro dei tralci occorrenti. Il potatore deve perciò sapersi regolare caso per caso. Il Guyot è un buon sistema per quei vitigni che amano potatura lunga, ma non ricca, e per terreni di media fertilità, e non troppo freschi. Per viti molto vigorose o per terreni molto fertili, esso sarebbe però un po' troppo povero. S'è quindi pensato a modificazioni di esso, che lo arricchiscano più o meno.
Fra queste ultime, è da ricordare il sistema Cazenave. Esso è stato definito un Guyot multiplo, perché un solo ceppo porta quasi numerosi piccoli Guyot. La vite adulta si presenta con un lungo cordone orizzontale, disteso su un filo di ferro distante da 50 a 80 cm. da terra. Su questo cordone si trovano, a circa 25 cm. l'uno dall'altro, tanti capi a frutto di 5 a 6 gemme disposti obliquamente e legati a un secondo filo distante 35 cm. dal primo, e altrettanti speroni di due gemme; i germogli si legano a un terzo filo distante circa 40 cm. dal secondo. Le viti si piantano a circa 2 metri l'una dall'altra. È un buon sistema per viti molto vigorose e per terreni fertili. In queste condizioni può dare produzioni molto elevate, se non sempre qualitativamente molto buone.
Sistema Sylvoz. - La vite adulta si presenta con un cordone orizzontale lungo 2 metri o più, disteso su un robusto filo di ferro alto circa metri 1,20 da terra; su questo cordone v'è un numero di capi a frutto piegati ad archetto e fissati a un filo di ferro inferiore, alto circa 80 cm. da terra. I germogli della parte basale d'ogni archetto si legano a un terzo filo superiore, alto circa m. 1,70 da terra. In questo sistema non ci sono speroni. I tralci di successione si prelevano dalla base d'ogni vecchio archetto fruttifero, perché, essendo il primo tratto di questi archetti quasi verticale, si potranno avere da esso robuste cacciate. Anche questo sistema, come il Cazenave, può dare forti produzioni, ma bisogna riservarlo a terreni fertili e a vitigni robusti.
Un sistema schiettamente italiano, e adatto ai luoghi dove le viti a basso ceppo non si trovano bene, è il sistema a raggi. La vite raggiunge altezze assai più notevoli che nei precedenti; di solito non inferiori ai 2 metri. Anche qui, come nel Sylvoz, si trova un cordone che per lo più è disposto obliquamente dal basso in alto, e su di esso un buon numero di archetti fruttiferi. Le viti possono appoggiarsi a sostegni vivi (per lo più aceri o gelsi) o a pali secchi. Da ognuno di questi sostegni partono fili di ferro, che, attraversando l'interfilare, vanno a fissarsi al sostegno corrispondente del filare vicino. Attorno a ogni albero o palo si trovano da 2 a 4 viti, ciascuna delle quali con una o due branche, che si dirigono verso la metà dell'interfilare, sostenute ai fili di ferro. Perciò da un centro rappresentato dall'albero partono come tanti raggi costituiti dalle branche delle viti. La potatura consiste nel lasciare ogni anno sulle branche un archetto fruttifero a ogni 25-30 cm., prelevandolo da uno dei tralci sviluppatisi alla base degli archetti dell'anno precedente. Questo sistema è ottimo per i climi freschi e i terreni fertili e piuttosto umidi, in cui i sistemi bassi darebbero uva di qualità scadente. Le viti a raggi permettono invece ai grappoli di trovarsi alti dal suolo, e di godere luce e aria in abbondanza maturando normalmente. Per lo stesso motivo, oltre che per realizzare una non lieve economia in fatto di sostegni, sono tuttora molto diffusi, specialmente nell'Italia settentrionale e centrale, i sistemi di allevamento e potatura della vite, detti:
Alberate. - In esse le viti sono maritate ad alberi vivi, che, a seconda dei casi, sono l'olmo, l'acero, il pioppo, il gelso, ecc. Certo più d'uno di questi sistemi è poco consigliabile, perché la vite è spesso costretta a confondere in gran parte pampini e grappoli con la chioma del "marito", e perciò viene impedita la buona maturazione dell'uva, sono ostacolati i trattamenti contro le malattie, nonché molte operazioni colturali. Ma in altri si riducono al minimo questi inconvenienti, come nelle alberate in uso nel Chianti e in altre parti della Toscana, dove il sostegno vivo (l'acero) viene severamente potato, e la vite ha i suoi tralci fruttiferi del tutto al di fuori della chioma di esso, chioma d'altra parte ridottissima. Non altrettanto si può dire di molte alberate dell'Emilia, dove però la vite, per la fertilità dei terreni, assume uno sviluppo grandissimo e può dare forti produzioni, ma di qualità ben diversa da quella che s'ottiene nei casi precedenti. Senza pretendere la scomparsa di questi sistemi, eminentemente caratteristici della viticoltura italiana, si cerca però di migliorarli, soprattutto sottraendo più che sia possibile la vite all'ombra del sostegno vivo, e piantando le viti lontane dal piede del sostegno stesso.
Potatura verde della vite. - Si comprende sotto questa espressione una serie d'operazioni svariate che si fanno sulle viti durante il periodo vegetativo, e che sono destinate in parte a completare, in parte a correggere la potatura secca, nonché a cercare di rimediare a talune cause avverse, soprattutto di natura stagionale.
Alcune di queste operazioni si fanno sulla parte vecchia del tronco:
Mondatura o spollonatura. - Consiste nella soppressione dei succhioni che spuntano dal ceppo o dalle-branche, i quali nella maggior parte dei casi sono inutili. Solo nel caso che qualcuno di essi portasse frutto, o potesse servire per la potatura avvenire, si dovrà rispettarlo. È bene fare quest'operazione quanto più presto possibile, cioè finché i germogli sono teneri, sì da poterli sopprimere facilmente con le mani. La maggior parte delle operazioni di potatura verde si fa però sul capo a frutto. Tra le più comuni ricordiamo le seguenti.
Scacchiatura. - Consiste nel sopprimere quei germogli che, pur trovandosi sul capo a frutto, non portano uva. Anch'essi si possono considerare inutili, quindi nella maggior parte dei casi sarà meglio asportarli. Anche quest'operazione è bene farla per tempo, quando ancora i germogli sono teneri. Essa riesce molto utile su viti deboli e in terreni magri. Ma su viti molto robuste, più disposte a dar foglie che frutto, è meglio tralasciarla. Nei casi dubbî, è meglio attendere che la fioritura della vite sia finita, per non provocare, con una scacchiatura inopportuna, la colatura dei fiori.
Castrazione. - Essa consiste nell'asportare con le unghie l'estremità dei germogli del capo a frutto. Naturalmente, asportando l'apice vegetativo, il germoglio non dà più nuovi internodi né nuove foglie. Con quest'operazione si vuole impedire che gli umori si disperdano nella parte superiore dei germogli, anziché accumularsi nei grappoli. Ma una castrazione troppo rigorosa può riuscire nociva, impedendo un buon accumulo di zucchero nel grappolo. Quindi meglio castrare sulla quinta o sesta foglia. E se si tratta di viti deboli e di terreni magri, meglio non castrare affatto. Molti viticoltori però invece della castrazione fanno la:
Cimatura. - Essa consiste nello spuntare i germogli alla quinta o sesta foglia sopra l'ultimo grappolo; ma assai più tardi che non con la castrazione, quando già le foglie superiori si sono sviluppate. S'asporta quindi non solo l'apice vegetativo del germoglio, ma un vero e proprio tratto di questo. Per ragioni ovvie, se la castrazione è talvolta pericolosa, la cimatura è frequentemente dannosa. Quindi, tranne casi eccezionali, è meglio evitarla. Sulle femminelle si eseguisce la ricimatura. Essa è la cimatura delle femminelle, e, in generale, riesce utile, specialmente se fatta presto, quando cioè queste sono ancora poco sviluppate.
Sfemminellatura. - È la soppressione totale delle femminelle. In generale è preferibile la ricimatura.
Sfogliatura. - Consiste nella soppressione di un certo numero di foglie dai germogli fruttiferi. È operazione molto discussa. Una soppressione molto moderata e tempestiva di alcune foglie può però giovare, specialmente se fatta poco prima della vendemmia, allo scopo di arieggiare i grappoli, esporli meglio al sole (ciò che può far loro assumere colori più vivaci), ostacolare lo sviluppo di parassiti, e specialmente della muffa grigia dell'uva, e rendere più efficaci alcuni trattamenti 'antiparassitarî, specialmente insetticidi.
Incisione anulare. - Consiste nell'asportare, mediante apposite tenagliette, un anellino di corteccia o dalla base del capo a frutto, o dalla base dei singoli germogli fruttiferi. Con tale asportazione si vengono a interrompere gli elementi del libro, impedendo così la discesa dei materiali nutritivi elaborati dalle foglie, mentre non s'interrompe l'ascesa delle soluzioni nutritive assorbite dalla radice, le quali salgono attraverso i vasi legnosi. Conseguenza di questo fatto, è una maggiore nutrizione della parte superiore all'incisione: ciò che si può avvertire anche dall'ingrossamento sensibile che presentano i tralci incisi al disopra del punto dell'operazione. Altro effetto normalmente assai visibile si ha nell'ingrossamento notevole dei grappoli portati dai tralci incisi, e anche nell'aumento complessivo del peso dell'uva. Però all'aumento di peso del prodotto corrisponde normalmente una diminuzione nella sua ricchezza zuccherina, ciò che per le uve da vino non è certo un bene. Neanche sulle uve da tavola l'incisione anulare può essere fatta senza limitazione, in quanto essa viene, se ripetuta per varî anni, a spossare rapidamente la vite, sottraendo al legno vecchio molte sostanze di riserva che s'arrestano nei capi a frutto. L'incisione anulare pertanto dovrà essere considerata come un'operazione eccezionale, consigliabile solamente in casi di necessità, soprattutto nelle annate in cui, nel periodo che precede immediatamente la fioritura, la stagione si presenta avversa per piogge troppo abbondanti, temperatura eccessivamente bassa, ecc.
Sostegni. - La vite è pianta che, per la sua natura sarmentosa, normalmente ha bisogno di appoggiarsi a qualche sostegno. Pochissimi sono i casi in cui ne puó fare a meno (alberelli, viti striscianti, ecc.). Questi sostegni rappresentano oggi un titolo di spesa non indifferente per la viticoltura. Si possono distinguere in due gruppi: vivi e morti.
Sostegni vivi. - Sono alberi vivi, detti anche tutori, ai quali "si marita" la vite. Essi costituiscono una delle caratteristiche più tipiche della viticoltura di varie regioni italiane, specialmente delle pianure settentrionali, dove ancora predominano le cosiddette "viti alberate". Questi sostegni furono accusati di danneggiare con la loro chioma e le loro radici le viti che ad essi si appoggiano. Ma essi consentono di ridurre al minimo le spese che sarebbero elevatissime con i sistemi di allevamento della vite a grande sviluppo, quali occorrono in climi piuttosto umidi e in terreni freschi e fertili. Non potendo quindi eliminarli, si dovrà però cercare di ridurne gl'inconvenienti, dando la preferenza a piante aventi una chioma poco folta e un sistema radicale poco espanso; e sottoponendo tali piante a energiche potature. La specie più adatta a questo ufficio è l'acero (Acer campestris) largamente usato nell'Italia centrale e anche nel Veneto; esso tollera potature molto rigorose. Molto usato nell'Emilia è l'olmo (Ulmus campestris), che però ha un portamento e una chioma ben maggiori; ma la sua foglia può servire d'alimento al bestiame. Molto meno usati, e sconsigliabili infatti, in generale, sono i pioppi, i salici, gli ontani.
Sostegni morti. - Possono essere di legno, o di materiali diversi: pietra, cemento, ferro, ecc. D'uso più antico e generale sono i primi, costituiti per lo più da pali d'essenze legnose diverse. Le preferibili sono: il castagno, la robinia, il salice; e talvolta l'olmo, la quercia, e qualche conifera. Ottimo il castagno, ma in generale costoso. Più economico, ma assai meno resistente e duraturo, il salice (Salix alba), che cresce specialmente in terreni umidi. Molto raccomandabile la robinia (Robinia pseudo-acacia), la quale offre il vantaggio di poter essere coltivata un po' dappertutto e di dare in pochi anni pali abbastanza resistenti e duraturi. Largamente usata, come sostegno della vite, è anche la canna comune (Arundo donax); essa ha però dei difetti, e soprattutto quello che, per la sua limitata resistenza, è di breve durata, e implica un notevole dispendio di mano d'opera per le sostituzioni annuali.
Per aumentare la durata dei pali di legno si usano varî sistemi: buono quello di spalmare la parte del palo, che deve andare sotterra, con sostanze idrofughe (catrame o meglio anche carbolineum). Ottimo quello di far subire ai pali un bagno in una soluzione di solfato di rame al 5%, lasciandoveli per una settimana. Per ottenere impalcature o spalliere più durature e resistenti, e nel tempo stesso leggiere e poco ingombranti, è bene ricorrere al filo di ferro zincato. A seconda dei casi, si usano fili di ferro di calibro diverso. I calibri più comunemente conosciuti in Italia sono quelli francesi; in talune regioni s'adottano però i calibri tedeschi. Nella seguente tabella sono riuniti i dati più importanti al riguardo:
I fili più usati sono: per i vigneti a basso ceppo il 14 (calibro francese); per quelli alti il 16 o il 18.
I fili di ferro devono essere ben tesi: ciò che si può ottenere con l'uso di appositi tendifili, di cui si hanno varî tipi. Ma per poter tendere fortemente i fili occorrono anche pali molto robusti, soprattutto alle testate dei filari. Pali molto robusti e di lunghissima durata sarebbero quelli di ferro, ma in Italia essi non sono convenienti perché troppo costosi. Invece vanno sempre più diffondendosi i pali di cemento armato. Essi presentano indubbiamente notevoli vantaggi: robustezza, lunga durata, eleganza, e anche costo non eccessivo, soprattutto costruendoseli nell'azienda.
Concimazione. - Per determinare i bisogni della pianta, per lo più ci si è basati sui quantitativi di sostanze nutritive asportate annualmente dal vigneto con i normali prodotti. Ma i dati ottenuti in tal modo si presentano molto variabili.
Secondo numerose ricerche di A. Müntz, per produrre 10 hl. di vino, sono necessarî:
Secondo ricerche più recenti del Lagatu (1922) dal 15 aprile al 10 settembre, 8000 ceppi per ha. nel Mezzodì della Francia asporterebbero:
La concimazione dev'essere differente a seconda che si tratta della cosiddetta concimazione d'impianto o di quella periodica che si fa alle viti che hanno superato il periodo di allevamento. Per la prima resta sempre raccomandabile, tutte le volte che si possa averne a condizioni economicamente convenienti, il letame di stalla, che serve assai bene anche a correggere fisicamente il terreno. Se ne usano dosi variabili da 500 a 1000 (e anche più) quintali per ettaro. Difettando però il letame di anidride fosforica, sarà bene integrarlo con concimi fosfatici. All'impianto possono servire anche concimi di effetto non molto rapido: scorie Thomas in ragione di 8 a 10 q. per ha.; fosforiti (12-13 q.). Per le concimazioni periodiche di viti ormai in produzione, il letame dovrà essere usato con moderazione per non pregiudicare la buona qualità dell'uva. Sarà pertanto anche più necessario correggerlo con buone concimazioni fosfatiche: in questo caso, soprattutto con perfosfato. Ma se il letame è molto costoso, o se i vigneti sono di difficile accesso, meglio è nelle concimazioni periodiche sostituire del tutto il letame con concimi chimici, o anche col sovescio.
Le concimazioni chimiche alla vite, per essere razionali, debbono essere complete: cioè comprendere concimi azotati, fosfatici, potassici, e, in terreni poveri di calce, anche calcari. I concimi azotati giovano soprattutto per eccitare la vegetazione, specialmente in viti deboli o deperite. In generale per il vigneto sono preferibili quelli ammoniacali (d'effetto un po' più lento ma più duraturo) a quelli nitrici: quindi piuttosto solfato ammonico, calciocianamide, che non nitrato di soda o di calcio. Di solito le dosi variano da quintali 1,5 a 3 per ha. I concimi fosfatici sono molto utili per la buona qualità del prodotto, e specialmente per la finezza dei vini; ma anche per rendere la pianta più resistente alle avversità. Per lo più s'usano i perfosfati, in ragione di 5 a 6 quintali per ha. I concimi potassici sono pure utilissimi per la vite, sia perché favoriscono la ricchezza zuccherina delle uve; sia perché facilitano la buona lignificazione dei tralci. Per lo più si usa solfato o cloruro potassico, in ragione di 2-3 quintali per ha. Infine nei terreni poveri di calce, e specialmente in quelli acidi, giova l'aggiunta di calce (calce spenta, 8-10 quintali, e anche assai più, per ha.). Buona anche la marna.
Nei vigneti di difficile accesso, dove sia opportuno provvedere a concimazioni organiche, e si voglia risparmiare la grave spesa delle letamazioni, può essere molto utile il sovescio di leguminose (ricorrendo alla veccia, o alla favetta, o al trifoglio incarnato o al lupino).
Lavorazione del terreno del vigneto. - Per quanto d'uso antichissimo, non sempre e non dappertutto essa viene regolarmente eseguita, ché in taluni casi, attraverso a una graduale riduzione dei lavori, si è giunti alla totale loro soppressione: ciò che impropriamente si è chiamato incoltura del vigneto. Essa però non ha trovato conveniente applicazione che in circostanze eccezionali. I lavori al terreno del vigneto si dividono in ordinarî e straordinarî. I primi normalmente si usano in tutti i paesi viticoli e in tutti gli anni. I secondi si usano solo in certe plaghe e a lunghi periodi o intervalli: tale l'arrotto, le circunfussure, lo scasso periodico, ecc. Il loro numero e le modalità d'esecuzione variano da luogo a luogo, ma dovendo ridurre le spese relative al minimo, i lavori normali al vigneto di solito non sono più di tre: uno relativamente più profondo, o invernale; uno di media profondità, o primaverile (che è bene fare prima della fioritura della vite); un terzo più superficiale, o estivo (che comunemente si fa in agosto). Nei climi molto piovosi, fra il 2° e il 3° per lo più è necessario intercalare qualche sarchiatura per distruggere le male erbe.
Nel vigneto tanto meno profondi dovranno essere i lavori, quanto più, per la freschezza dell'ambiente, le radici della vite tendono a mantenersi superficiali. In generale, la profondità dei lavori varia - a seconda della stagione - fra 5 e 20 cm.; raramente conviene spingerli a maggiore profondità: di 30 o più centimetri (lavori invernali nei climi caldo-aridi).
La lavorazione si può fare a mano, con animali o con motori inanimati. La lavorazione a mano (con la vanga, o con la zappa, o col bidente) riesce però molto costosa, e quindi poco conveniente. Perciò oggi in generale si cerca di sostituire ad essa quella meccanica, o con strumenti trainati da animali, o con motori. Ma questa lavorazione meccanica richiede particolari condizioni: e anzitutto, piantagioni regolari, a filari sufficientemente distanti fra di loro (in generale almeno due metri e per motori inanimati meglio anche tre). Occorre ancora che il terreno sia pianeggiante o in pendio non troppo accentuato; che non sia roccioso o intersecato da fossi profondi; che gli appezzamenti abbiano cappezzagne di sufficiente ampiezza.
Gli strumenti da usare per tale lavorazione meccanica, sono svariati. Il più diffuso e antico è l'aratro (naturalmente, esso deve essere per lo più di piccole dimensioni, atto a lavorare a poca profondità). Per i lavori primaverili-estivi piuttosto superficiali sono più indicati: le zappe-cavallo; i coltivatori, gli estirpatori, di cui alcuni costruiti appositamente per la cosiddetta coltura superficiale del vigneto: sistema questo di lavorazione del terreno che in talune regioni si va diffondendo in sostituzione di quella ordinaria, allo scopo di rispettare al massimo le radici più superficiali delle viti e di mantenere il terreno continuamente smosso, pulito e fresco. Per lavorare quella striscia di terreno che rimane sotto i ceppi, si sono ideati strumenti speciali detti aratri "infraceppi" (in francese, charrues décavailloneuses o interceps).
In molte località viticole si usano anche rincalzature e scalzature alle viti. Nei paesi freddi si suole rincalzare le viti prima dell'inverno con il lavoro più profondo, al fine di meglio proteggerle dai geli, e scalzarle a primavera perché più presto le radici godano del calore solare. Nei paesi caldo-aridi invece s'usa scalzare le viti prima dell'inverno per meglio accumulare l'acqua che cade durante detta stagione, e rincalzarle poi a primavera per conservare più a lungo l'umidità del terreno.
Impianto di nuovi vigneti. - È indubbiamente un problema arduo, oggi soprattutto, dal punto di vista economico, dato l'alto costo, specialmente in terreni collinari. Va quindi risolto con molta ponderazione, non dimenticando che la superficie coltivata a vite in Italia è già estesissima; e che la produzione del vigneto italiano in molti anni è in eccesso rispetto alle possibilità di consumo.
Sistemazione della superficie. - È fondamentale per l'avvenire del vigneto, tanto se si tratta di terreni in colle quanto in piano. In colle bisogna preoccuparsi soprattutto dei danni che possono produrre le acque meteoriche nella loro discesa da monte a valle, specialmente nei terreni argillosi, a elementi fini. In questi casi la migliore è la cosiddetta sistemazione a spina; buone anche quelle a girapoggio e a cavalpoggio; da evitare invece quella a rittochino. Se il pendio è molto accentuato, ottime sono le terrazze: ma queste in generale riescono eccessivamente costose, soprattutto se si devono sostenere con muri. In piano invece occorre cercare di allontanare più rapidamente che sia possibile le acque, evitando ogni ristagno delle medesime, pericolosissimo per le viti. A tal fine conviene che gli appezzamenti del vigneto abbiano opportuna pendenza, o una buona baulatura, che faccia defluire rapidamente le acque nei fossi di scolo periferici.
Scasso del terreno. - È il lavoro fondamentale preparatorio dell'impianto. Esso può essere totale o parziale. Il primo (detto anche reale) è quello preferibile nel caso d'impianto di vigneti specializzati molto fitti. Però è anche il più costoso. Perciò, quando si debbano piantare filari abbastanza distanti fra loro (più di 3 m.), si preferisce lo scasso parziale, a fosse o trincee, di una larghezza minima di i metro. Quanto alla profondità, questa deve variare a seconda della natura dei terreni. In quelli di piano freschi, non molto compatti, può bastare anche una profondità di 60 cm.; in quelli aridi, in climi caldi, bisogna arrivare anche a i metro e più. L'epoca d'esecuzione degli scassi può pure variare, ma essi devono farsi tanto più per tempo quanto più compatto è il terreno. Generalmente, per ragioni economiche, si fanno gli scassi durante l'inverno: in tal caso sarebbe preferibile fare l'impianto all'autunno seguente. Dato l'alto costo dei lavori fatti a mano, si cerca per quanto possibile di ricorrere a mezzi meccanici: trazione animale, possibilmente con argani o maneggi; o motori meccanici. In caso di terreni rocciosi, possono giovare anche gli esplosivi.
Quanto alla disposizione del piantamento, questa dovrà sempre essere più regolare che sia possibile, e adatta al sistema d'allevamento della vite che si vuole adottare. Per viti isolate, come alberelli, ecc., s'adotterà il piantamento in quadrato, o meglio in quinconce; per viti a spalliera (Guyot, Sylvoz, cordoni orizzontali, ecc.) il piantamento a filari.
Le distanze di piantamento hanno pure la loro importanza. In generale oggi conviene aumentare tali distanze in confronto del passato, sia perché le viti americane hanno una vigoria maggiore, sia per rendere possibile la lavorazione meccanica del vigneto.
Materiali e operazioni d'impianto. - L'impianto del vigneto può farsi con talee, con barbatelle selvatiche (americane) o con barbatelle bimembri (europee innestate su americane). L'uso delle talee è ormai quasi scomparso, perché in generale esso darebbe luogo a troppe fallanze. Quanto alla preferenza alle barbatelle selvatiche o a quelle innestate, basterà quì dire che entrambi i sistemi hanno pregi e inconvenienti. Usando barbatelle innestate, al momento dell'impianto, queste devono avere il punto d'innesto di 5-6 cm. più alto del livello generale del terreno, per evitar che, con l'assestarsi della terra, l'innesto finisca col rimanere interrato con grave pericolo di vedere affrancarsi la vite (per evitare questo pericolo, è perciò necessaria nei primi anni la sbarbettatura).
Scelta dei vitigni: Vitigni da vino. - È una delle questioni che dev'essere più attentamente meditata quando si deve procedere all'impianto d'un nuovo vigneto. Anzitutto bisogna decidere se coltivare vitigni da vino o da tavola. Incominciando dai vitigni da vino, è da ricordare come una delle più gravi cause di debolezza dell'industria vitivinicola in Italia risiede nella grande confusione, pressoché generale nei vecchi vigneti, in fatto di vitigni. Anche nelle regioni più progredite, si trovano spesso, accanto a vitigni di merito, una quantità di vitigni scadenti, o poco produttivi, o capaci di dare un frutto di mediocrissima qualità. Effetto ultimo di questo stato di cose è da un lato la produzione unitaria dei vigneti italiani molto più bassa di quella che le privilegiate condizioni dell'ambiente naturale e la secolare abilità dei coltivatori renderebbero lecito attendersi; dall'altro lato la grande prevalenza, che si constata nella massa complessiva della produzione enologica italiana, di vini che possono qualificarsi solamente da pasto comuni, mentre non mancherebbe la possibilità d'ottenere un'assai maggiore percentuale di vini fini, superiori e di lusso.
Anzitutto bisognerà decidere se attenersi a vitigni locali, o cercarne di altre regioni. Se in luogo vi sono buoni vitigni, questi saranno da preferire a quelli forestieri, perché, in generale, meglio acclimati. Ma se quelli locali sono poco consoni alle attuali esigenze della viticoltura, è meglio ricercarne qualcuno altrove. Bisognerà però essere molto prudenti in tale introduzione, tenendo ben conto delle condizioni di clima e di terreno. Bisognerà anche decidere se coltivare uno solo o più vitigni. Come norma generale, si può ritenere preferibile non limitarsi a un solo vitigno, ma ricorrere a 2 o 3, potendo in questo modo avere più probabilità di produzioni quantitativamente e qualitativamente costanti in ogni anno. Si tengano però bene distinti l'uno dall'altro, sì da evitare ogni confusione, sia nelle varie operazioni colturali, sia nella vendemmia.
Diamo qui un breve elenco di vitigni da vino, italiani e stranieri, particolarmente raccomandabili, sia per la bontà del prodotto, sia anche, entro giusti limiti, per l'abbondanza della produzione. Si sono esclusi da questo elenco molti vitigni, ancora abbastanza coltivati in Italia, ma che non sono degni d'essere incoraggiati, o per la mediocre qualità del prodotto, o per l'aleatorietà della produzione (es., molti Marzemini o Barzemini, Rossare, Uva d'oro, Negrettino, Aramon, ecc.). V. anche: barbera; cabernet; freisa; garganega; grignolino; lambausco; malvasia; nebbiolo; sangiovese; trebbiano; vernaccia).
Le uve da tavola. - Come già s'è detto, vanno sotto questo nome quelle uve che sono più propriamente destinate. a essere usate come frutto, anziché vinificate. La produzione di queste uve ha grande importanza per l'Italia, e più ne dovrà avere in avvenire, dato l'alto valore alimentare e igienico dell'uva, e la possibilità d'esportarne in altri stati. Attualmente l'Italia produce poco più di un milione di quintali d'uve da tavola propriamente dette, e consuma altri 2 a 3 milioni d'uve da vino come frutto. Annualmente ne esporta da 200 a 400 mila quintali (occupando il 2° posto - dopo la Spagna - fra i paesi esportatori d'uve da tavola). Ma è da auspicare che tale produzione raggiunga almeno i 5-6 milioni di quintali, a tutto vantaggio della salute del popolo e della bilancia commerciale. La produzione delle uve da tavola è però legata a particolari condizioni: ambientali e colturali: Per quanto l'Italia in generale presenti, come s'è visto, un ambiente naturale favorevolissimo alla vite, non si deve tacere che le uve da tavola hanno maggiori esigenze al riguardo, richiedendo, anche più di quelle da vino, buone esposizioni, soleggiate e arieggiate, terreni sani, ma non troppo aridi né troppo magri. Grande importanza ha poi la scelta delle varietà più adatte alle singole condizioni ambientali: così le uve precoci sono più indicate in generale per le zone litoranee del Mezzogiorno e per le isole; le uve tardive e da serbo preferiscono colline bene esposte e ben riparate dai venti, con clima temperato e asciutto anche d'inverno. Per quanto riguarda le varietà, esse sono numerosissime, e anzi ciò ha costituito una causa di debolezza per il grande commercio (specialmente con l'estero) delle uve da tavola italiane. Oggi però, grazie a recenti indagini e studî promossi soprattutto dalla Confederazione nazionale degli agricoltori, ci si va decisamente orientando verso poche, ma scelte varietà, distribuite in varie epoche di maturazione, sì da poter rifornire i mercati per circa sei mesi dell'anno. Le principali di esse sono le seguenti (v. anche: chasselas; frankenthal):
Uve precoci. - Accanto allo Chasselas dorato, varietà diffusissima in tutto il mondo, vanno oggi raccomandandosi in Italia specialmente la Panse precoce (da non confondersi con la Panse gialla, che è uva di media maturazione), e la Delizia di Vaprio (quest'ultima, creata per ibridazione da A. Pirovano). E, come varietà precocissime (che precedono d'una quindicina di giorni, e anche più, le suddette), oltre alla vecchia S. Anna (o Luglienga), la Perla di Csaba (incrocio d'origine ungherese) e il Primus (pure ottenuto da A. Pirovano).
Uve di media maturazione. - La varietà che merita più larga diffusione in questo gruppo è la Regina (antico vitigno d'origine orientale diffuso in molte zone italiane ed estere sotto nomi svariati: Pergolona di Pescara, Mennavacca di Puglia, Dattier di Beyrouth in Francia, Afouz-Aly in Bulgaria, Rozaki o Razaci in Grecia e in Oriente, ecc.). A essa molto simile, ma con sapore leggermente moscato, è l'Italia (altro incrocio di A. Pirovano). Buone inoltre: la Baresana (o Turchesca) delle Puglie; il Moscato di Terracina del Lazio; il Moscato d'Alessandria (o Zibibbo); il Moscato d'Amburgo (nero), ecc.
Uve tardive. - In questo gruppo, una delle varietà più pregiate è certo l'Ohanez, che in Spagna serve a produrre la cosiddetta "uva d'Almeria"; essa però trova limitate zone d'adattamento in Italia. Di più facile acclimazione si sono dimostrati alcuni vitigni francesi, e specialmente il Gros vert e il Servant (soprattutto in Liguria), che potranno utilmente essere diffusi accanto ad antiche varietà italiane di lunga conservazione, come il Pergolese di Tivoli, la Prunesta, la Ciminnita siciliana, ecc.
Per i mercati interni e per il consumo popolare potranno ancora essere conservate (limitatamente alle rispettive zone d'origine) alcuni vecchi vitigni, come la Verdea piacentina (o S. Colombana di Toscana), la Paradisa e l'Angela del Bolognese, la Dorona di Venezia, il Trebbiano dorato d'Abruzzo, ecc. Infine meritano particolare attenzione le uve apireni (senza semi), soprattutto per farne uve passe. Fra le principali varietà di esse ricordiamo le Sultanine, le Passoline (o Uva di Corinto), e alcuni recenti incroci di A. Pirovano.
Tecnica colturale. - Sostanzialmente la coltura delle uve da tavola non richiede una tecnica molto diversa da quella delle uve da vino. Tuttavia sono da preferire per esse i sistemi di allevamento e di potatura che consentono di compiere più agevolmente le varie operazioni colturali e i trattamenti antiparassitarî alla pianta e al suo frutto (escludere quindi le viti alberate, e altri sistemi di eccessiva espansione). Molta importanza hanno le operazioni d; potatura verde, sia alla pianta (scacchiatura, cimatura, sfemminellatura, sfogliatura), sia al grappolo (diradamento, impollinazione artificiale, ecc.).
Grande importanza hanno poi le operazioni relative alla vendemmia (scelta, trasporto, ecc.), nonché all'imballaggio e, eventualmente, alla conservazione del frutto. Numerosi sono i metodi di conservazione delle uve da tavola; alcuni si dicono a raspo secco (e sono i più comuni e antichi), perché con essi il raspo dei grappoli si dissecca, e gli acini più o meno presto avvizziscono; altri, a raspo verde, e sono i più perfezionati, ma anche complicati e costosi (da ricordare il cosiddetto sisteima di Thoméry, la conservazione in celle artificialmente refrigerate).
Né minore importanza, per incrementare il consumo delle uve da tavola, hanno i rapidi e razionali mezzi di trasporto (anche per essi viene oggi utilmente impiegata la refrigerazione), nonché una ben congegnata organizzazione del commercio, che elimini una quantità di dannosi intermediarî.
Anche in Italia, come in altri stati (Svizzera, Germania, Austria, Francia, ecc.) si va poi facendo un'attiva propaganda per la così detta ampeloterapia.
Una forma particolare di conservazione dell'uva, nota da tempo antichissimo, è quella dell'appassimento, che permette di ottenere le cosiddette uve passe o secche. Purtroppo però quest'industria non ha oggi in Italia lo sviluppo che le favorevoli sue condizioni di clima consentirebbero, tanto che l'Italia è importatrice di uve passe (nel quinquennio 1930-34 ne ha importato in media 25 mila quintali l'anno) mentre la Turchia ne esporta da 300 mila a 500 mila quintali l'anno, e la Grecia da 800 mila a 1 milione). La preparazione delle uve passe è attualmente soprattutto accentrata nelle Isole Eolie e in quella di Pantelleria; e un po' anche in Calabria. Nelle prime si usano all'uopo delle uve apireni (Passolina), nella seconda lo Zibibbo. L'appassimento si fa al sole, e viene affrettato per lo più con un bagno in liscivia bollente di cenere. Non sono finora adottati i metodi d'appassimento artificiale per mezzo d'essiccatori, come si usano altrove (California).
Le viti americane. - Già s'è visto che l'unica specie della famiglia delle Vitaceae (sottofam. Ampelideae) vivente allo stato spontaneo in Europa è la Vitis vinifera L. detta perciò "vite europea o nostrana". E per millennî essa fu l'unica che interessò la viticoltura. Sennonché, scopertasi nel 1863 la fillossera in Europa, e tentati invano i più svariati metodi di lotta contro il terribile afide (v. fillossera), si dovette ben presto riconoscere che l'unica via di salvezza della viticoltura europea consisteva nell'innestare le vecchie varietà indigene su altre specie del gen. Vitis, oriunde dell'America Settentrionale (come il parassita stesso), alcune delle quali aventi un sistema radicale praticamente indenne dagli attacchi della fillossera. L'innesto però di esse con le viti europee è una necessità, essendo tali specie americane resistenti, affatto infruttifere (avendo fiori maschili), o solo capaci di dare un prodotto del tutto inadatto all'uso, quale uva sia da mensa sia da vino.
Per avere un'idea precisa della distribuzione delle varie specie del gen. Vitis nel mondo, e della posizione delle specie americane nel complesso di dette specie, giova il seguente quadro sinottico, compilato sulla scorta degli studî di J. E. Planchon, G. Foëx e P. Viala:
Le specie della sezione 1ª (Muscadinia) non hanno alcun interesse per la viticoltura europea, perché non tollerano i freddi invernali dei nostri climi; sono difficilissime da moltiplicare per talea e sono refrattarie all'innesto.
Le vere viti sono quelle della sezione 2ª (Euvites): però anche di esse poche sono quelle che hanno importanza per la nostra viticoltura. Infatti la V. labrusca, benché sia la specie da tempo conosciuta e introdotta in Europa, ha una resistenza insufficiente alla fillossera, e venne piuttosto finora utilizzata per il suo prodotto, del resto assai scadente. Delle specie della serie della Labruscoideae americanae nessuna viene usata come tale e solo di qualcuna s'impiegano alcuni discendenti (ibridi portinnesti). E lo stesso può dirsi della serie delle Aestivales (da cui però uscirono numerosi ibridi produttori diretti).
Invece nella serie delle Cinerascentes troviamo una specie importantissima per la ricostituzione dei vigneti fillosserati: la V. Berlandieri. Essa infatti presenta un'elevata resistenza alla fillossera, una buona affinità d'innesto con le viti europee, e soprattutto - carattere prezioso per le viti americane - una notevole resistenza alla clorosi dei terreni calcari. Suo grave difetto però è la grande difficoltà di moltiplicazione per talea, che ne ha impedito l'utilizzazione come specie pura. Ma se ne sono ottenuti numerosi ibridi, di grande valore pratico. Caratteri ampelografici essenziali di questa specie sono le foglie pressoché intere, tondeggianti, per lo più molto tomentose, come i germogli e anche i tralci, i quali ultimi hanno sezione poligonale.
Nella serie della Rupestres si trova pure una delle specie più importanti per la viticoltura moderna: la V. rupestris, oriunda delle regioni meridionali degli Stati Uniti, dove predilige terreni alluvionali grossolani o colline sassose, avendo attitudine a tollerare la siccità degli strati superficiali del terreno; resiste invece mediocremente alla clorosi. Si moltiplica ottimamente per talea e per innesto e ha una resistenza praticamente assoluta alla fillossera. È pianta cespugliosa, con tralci corti e grossi, foglie piccole, spesse, lucide, glabre, che ricordano più quelle dell'albicocco o del pioppo che quelle della vite. Ne vennero selezionate numerose varietà, la più diffusa delle quali è la R. du Lot, caratterizzata dalle foglie con seno peziolare a graffa; pure assai nota la R. metallica, così detta per il riflesso metallico delle sue foglie. Anche la Rupestris è servita a dare numerosi ibridi.
Nella serie delle Ripariae importantissima è la specie V. riparia, con caratteristiche morfologiche e colturali del tutto differenti dalla precedente. Essa, originaria delle rive dei grandi laghi e fiumi degli Stati Uniti, vuole ambiente fresco, terreni soffici, fertili, ma non calcari, essendo assai sensibile alla clorosi. Resiste molto bene alla fillossera e si moltiplica facilmente per talea e per innesto. Ha portamento rampicante, tralci lunghi ed esili, foglie grandissime, sottili, più lunghe che larghe, con denti acuti, per lo più quasi glabre. Fra le varietà selezionate di questa specie la più diffusa è la R. gloire de Montpellier; pure apprezzata la R. grand glabre. Anche con la Riparia si sono creati numerosi ibridi.
Come già s'è accennato, con l'ibridazione fra le varie specie del genere Vitis s'è cercato d'ottenere tanto dei vitigni destinati a servire solo come portinnesti per le viti europee, quanto dei vitigni capaci di dare un buon prodotto senza bisogno dell'innesto (produttori diretti). Finora soltanto nel primo caso si possono annoverare dei vitigni veramente di pregio. I più importanti ibridi portinnesti sono i seguenti:
Ibridi di Riparia × Rupestris. - Destinati soprattutto a terreni intermedî fra quelli da Riparia e quelli da Rupestris: quindi terreni mezzani, non troppo umidi né troppo secchi né troppo calcari. Ebbero da principio grandissimo favore, ma oggi sono assai meno usati. I numeri più noti sono il 101-14 (Millardet-De Grasset), il 3309 e il 3306 (Couderc); di più recente introduzione, il R. × R. Schwarzmann.
Ibridi di Berlandieri × Riparia. - Senza dubbio costituiscono il gruppo più interessante (e che va sempre più diffondendosi) d'ibridi portinnesti perché adatti a svariatissimi terreni, compresi quelli clorosanti. Per lo più presentano qualche difficoltà di moltiplicazione per talea, ma in compenso hanno in generale un'ottima affinità d'innesto. I tipi più noti sono: il 420 A (Millardet-De Grasset), il 157-11 e il 161-49 (Couderc); il 34 (École Montpellier); e i cosiddetti ibridi Teleki, fra cui ottima la selezione Kober 5 BB, e il Teleki 8, specialmente adatti ai paesi settentrionali. Alcuni buoni tipi per i paesi meridionali sono stati creati anche dall'ibridatore italiano Antonio Ruggeri.
Ibridi di Berlandieri × Rupestris. - Dovrebbero essere anche più rustici (soprattutto nei riguardi della clorosi e della siccità) dei precedenti, ma si sono finora assai meno diffusi, fors'anche perché d'aspetto meno vigoroso e promettente. Oggi però alcuni nuovi tipi, specialmente di creazione italiana (F. Paulsen e A. Ruggeri) vanno incontrando sempre maggiori simpatie in Sicilia e nell'Italia meridionale in genere. I numeri più conosciuti sono: il 17-37, il 301 A, il 219 A (tutti di Millardet De Grasset); il 771, 775, 1103, 1447 (del Paulsen); il 42, 131 e 140 (del Ruggeri).
Altri ibridi portinnesti ottenuti fra specie americane sono il Riparia × Rolonis 16-16 (Couderc), figlio di Solonis, che a sua volta è un ibrido naturale di Riparia - Rupestris - Candicans, entrambi indicati per terreni umidi e salmastri. Il Riparia × Cordifolia × Rupestris 106-8 (Millardet-De Grasset), adatto a terreni compatti, argillosi, ma non clorosanti. L'Aestivalis × Monticola × Riparia × Rupestris 554-5 (Couderc), adatto a terreni siccitosi, anche se calcari.
Un'altra categoria d'ibridi portinnesti è stata ottenuta fra specie americane e la V. vinifera. Si riteneva d'ottenere mediante l'incrocio fra viti americane ed europee dei soggetti più adatti ai nostri ambienti, ma lo scopo è stato solo in parte raggiunto, mentre si è diminuita più o meno sensibilmente la resistenza di tali soggetti alla fillossera. Perciò il loro impiego è oggi limitato, e più d'uno di essi (soprattutto nel gruppo dei Vinifera × Rupestris, come l'Aramon × Rupestris Ganzin n.1, il Mourvèdre × Rupestris 1202 (Couderc), il Bourrisquou × Rupestris 93-5 (Couderc) ha dato luogo ad apprensioni in seguito a deperimenti per fillossera, specialmente in climi caldi.
Assai meglio si sono comportati invece quelli del gruppo Vinifera × × Berlandieri, e specialmente il Chasselas × Berlandieri 41 B, che ha dimostrato una notevole resistenza alla clorosi e alla siccità: e così pure il il Cabernet × Berlandieri 333 (Foëx), oltre a qualche ibrido ottenuto dal Paulsen (es., il Catarratto × Berlandieri 779) e dal Ruggeri (Albanello × Berlandieri 8 e 19).
Ibridi produttori diretti. - Come dice il loro stesso nome, essi dovrebbero rappresentare dei vitigni resistenti alla fillossera, e capaci di dare un buon frutto direttamente, senza bisogno dell'innesto con le viti europee. Alcuni di tali ibridi sono naturali e di antica data, e pressoché tutti discendono dalla V. labrusca, che ha impresso nel loro frutto il proprio carattere tipico: cioè il sapore di volpino (foxy), che ricorda la fragola. Prototipo di tali vecchi ibridi, e più di tutti diffuso, è il Clinton, ibrido di Labrusca × Riparia.
Ma la scadente qualità dei prodotti che possono dare tali vecchi ibridi incitò gl'ibridatori a ricercarne, attraverso un lungo, paziente lavoro, dei migliori, capaci di risolvere quasi integralmente il problema. In questo campo emersero specialmente gl'ibridatori G. Couderc, A. Seibel, F.C. Oberlin, ecc.: e i loro prodotti sono appunto contraddistinti dal nome dell'ibridatore e dal numero che l'ibrido portava nelle coltivazioni originarie. Purtroppo, la meta non è stata finora raggiunta, e fra le molte migliaia d'incroci ottenuti, solo pochissimi meritano qualche considerazione: non però per la loro resistenza alla fillossera, che in generale è insufficiente, ma piuttosto per la loro discreta, e talora buona, resistenza alle malattie crittogamiche. Tale resistenza potrebbe renderne conveniente la coltivazione, anche ricorrendo al loro innesto su portinnesti resistenti alla fillossera (il che però naturalmente fa loro perdere il carattere di "produttori diretti"). Ma il punto debole è la qualità del prodotto che essi sono in grado di dare: qualità in genere molto mediocre, e non di rado scadente. E poiché la loro diffusione potrebbe portare gravi perturbamenti all'economia viti-vinicola generale, ingombrando i mercati di prodotti volgari, che farebbero concorrenza per il basso costo ai buoni vini ottenuti dalle viti europee, pressoché tutti gli stati viticoli hanno dovuto adottare misure legislative severe per disciplinare, e talora proibire la coltura di detti ibridi. Anche l'Italia ne ha limitato strettamente la coltura (consentendola per soli scopi familiari) con la legge 23 marzo 1931, n. 376, modificata dalla legge 2 aprile 1936, n. 729. Naturalmente tali restrizioni, imposte dalle attuali critiche condizioni del mercato vinicolo mondiale, non impediscono che gli studî e le ricerche di genetica viticola continuino; né hanno spento la fede in una sia pure lontana, piena soluzione dell'arduo problema.
Malattie e nemici della vite. - V. antracnosi; apoplessia; clorosi; cocciniglie; fillossera; marciume; melanosi; oidio; peronospora; roncet).
Bibl.: Per la parte storica: A. Maresclachi-G. Dalmasso, Storia della vite e del vino in Italia, voll. 3, Milano 1931-37. - Trattati di viticoltura in generale: O. Ottavi, Viticoltura teorico-pratica, Casale Monferrato 1885 (numerose edizioni successive); A. Babo e E. Mach, Handbuch des Weinbaues und der Kellerwirtschaft, Berlino 1881; G. Foëx, Cours complet de viticulture, Parigi 1886; L. Portes e F. Ruyssen, Traité de la vigne et de ses produits, ivi 1886, 1889; P. Pacottet, Viticulture, ivi 1905; A. Marescalchi, Manuale del viticoltore, Casale Monferrato 1917; D. Cavazza, Viticoltura, Torino 1914 (ultima ediz., 1934); F. Carpentieri, Trattato di viticoltura moderna, Casale Monferrato 1930. - Trattati d'ampelografia europea e americana: A. Odart, Ampélographie universelle, Parigi 1849; G. Di Rovasenda, Saggio d'un'ampelografia universale, Torino 1877; V. Pulliat, Mille variétés de vignes, Montpellier 1888; L. Ravaz, Les vignes américaines. Portegreffes et producteurs directs, ivi 1902; P. Viala e V. Vermorel, Ampélographie, voll. 7, Parigi 1901-09; G. Molon, Ampelografia, voll. 2, Milano 1906; O. Olivieri, Vitigni portainnesti americani, ivi 1936. - Sui singoli argomenti si potranno consultare i volumi della Biblioteca agraria Ottavi di Casale Monferrato, e dei Manuali Marescalchi pure di Casale Monferrato.