D'ONDES REGGIO, Vito
Nacque a Palermo il 12 nov. 1811, dal barone Bartolomeo D'Ondes, procuratore nobile del Banco di Sicifia e sergente maggiore della milizia urbana, e da Gioachina Reggio, dei principi di Aci e Catena, primo di ventidue figli, di cui solo sette sopravvissero. Entrato a dieci anni nel collegio "Calasanzio" dei padri delle scuole pie, ebbe tra i suoi maestri il p. Michelangelo Monti, letterato, poeta e professore di eloquenza all'università di Palermo. A diciassette anni si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell'ateneo palermitano, ove, nel 1832, conseguì la laurea.
Nel 1833 pubblicò a Palermo il suo primo saggio, dal titolo Discorso politico sulla proprietà a fine di conoscere quella delle isole che nascono dal mare, dedicato al suo amico e compagno di studi Emerico Amari (di cui sposò la sorella Dorotea nel 1834) ed ispirato dal sorgere a circa 30 miglia dalla Sicilia di un'isola che prese il nome di Ferdinandea e che, secondo il D., apparteneva alla Sicilia per diritto di "accessione". Questa opera evidenziò la sua preparazione giuridica, tanto che Carlo Vecchioni, direttore di Grazia e Giustizia, lo volle in magistratura, come giudice di circondario a Novara Sicula. Successivamente passò alle preture di Collesano, di Piana dei Greci e, nel 1837, di Misilmeri. Nominato giudice di seconda classe, fu chiamato a reggere il tribunale di Catania e, successivamente, quelli di Palermo e di Trapani.
Nel suo ruolo di magistrato evidenziò un atteggiamento contrario a ogni forma di dispotismo, manifestando le sue simpatie per le correnti liberali. Nel 1840 divenne socio corrispondente del R. Istituto di incoraggiamento di Sicilia, ma fu denunciato, assieme ad E. Amari, F. Ferrara e M. Busacca, sotto l'accusa di aver propagato, accanto alle libertà economiche, anche quelle politiche. Nel 1844 le sue amicizie sospette e i suoi scritti gli costarono l'allontanamento dalla Sicilia e il trasferimento prima a Lucera, poi a Santa Maria Capua Vetere e a Chieti.
Scrisse in alcune note autobiografiche: "Io fui dalla mia Palermo allontanato il 1844per aver insistito colle parole e coi scritti che in ogni specie di industria la santa libertà regnasse; la denunzia non mancommi né l'ostracismo, avvegnacché con blanditivo aspetto. Nulladimeno non cessai di lavorare per la libertà della Patria, per la quale sin dal '35lavoravo; non ho cessato di pubblicare cose pregevoli, pei sensi della libertà e per l'affetto verso la Patria, quali allora erano sempre pericolo e assai spesso danno a chi le pubblicasse".
Intensa in questi anni la sua collaborazione a riviste e accademie scientifiche, ma il suo impegno maggiore lo dedicò al Giornale di statistica per la Sicilia, fondato nel 1836, da lui redatto assieme ad E. Amari e F. Ferrara. Si trattava di una rivista che si ispirava al liberismo classico di influenza inglese, e che aveva l'intento di promuovere lo'studio delle scienze statistiche, arricchendo il metodo di G. D. Romagnosi. Ma la rivista andò oltre, sviluppando una polemica culturale che aveva il fine di promuovere il superamento, nella società siciliana, di antiche sperequazioni sociali, di consuetudini vecchie e improduttive, di un sistema di rigida e astratta applicazione delle leggi, che impediva di realizzare una vera giustizia.
Sul piano politico, la figura del D. emerse soprattutto in occasione della rivoluzione siciliana del 1848. Allorché, il 9 genn. 1848, Palermo insorse, egli lasciò Chieti e tornò rapidamente in Sicilia, ove venne eletto membro della Camera dei comuni in rappresentanza di Castelvetrano e di Melillo. Proprio in occasione delle elezioni, scrisse, sotto forma di appello agli elettori, una professione di fede politica che G. De Rosa definisce "tra i testi più belli della pubblicistica patriottica, anche per il ritorno costante, scandito da un sentimento di adesione a un concetto della libertà di pretta e classica derivazione liberista" (Igesuiti in Sicilia..., p. 46).
Alla Camera dei comuni di Palermo entrò nella prima commissione che elaborò lo statuto del Regno di Sicilia, sulla base della costituzione del 1812. A lui venne anche affidato l'incarico di formulare e leggere in quell'assemblea il decreto che dichiarava decaduta la dinastia dei Borbone e l'altro che proclamava re di Sicilia Alberto Amedeo I di Savoia. Nel governo presieduto da V. Fardella marchese di Torrearsa (agosto-novembre 1848) al D. venne affidato il ministero dell'Interno, mentre nel successivo governo, guidato sempre dal Torrearsa (novembre 1848 febbraio 1849), ottenne il ministero dell'Istruzione. Fu attiva, in questo periodo, anche la collaborazione del D. al giornale L'Indipendenza e la lega, organo di stampa tra i più importanti nel periodo della rivoluzione siciliana, fondato e diretto da F. Ferrara.
Soffocata la rivoluzione nel maggio 1849, il D. si rifugiò a Malta insieme al presidente del Regno, Ruggero Settimo di Fitalia. Rientrato a Palermo, il capo della polizia, S. Maniscalco, lo invitò ad abbandonare immediatamente l'isola "se non avesse voluto il peggio". Cominciava per il D. un lungo esilio. Si recò dapprima a Genova, dove ritrovò i fratelli Giovanni e Andrea, anch'essi protagonisti della rivoluzione del '48, poi a Torino, ove con E. Amari, T. Mamiani e F. Cordova fondò IlGiornale dei pubblicisti, rivista di scienze morali, giuridiche, politiche ed economiche. In seguito, con lo stesso Amari e con il Ferrara, fondò La Croce di Savoia, di cui assunse, in un primo tempo, la direzione. Collaborò, inoltre, alla Rivista italiana e al Monitore dei Comuni italiani.
La permanenza a Torino, una città che era diventata punto di riferimento politico e culturale e verso la quale confluivano uomini di ogni regione italiana, apri al D. un panorama nuovo e stimolante e lo rese particolarmente attento alla politica moderata cavourriana, di cui subì una notevole influenza. Il suo pensiero politico perse alcuni aspetti di dottrinarismo rivoluzionario per acquistare un tono e un . atteggiamento misurati e meditati. Nel 1850 pubblicò a Torino un volume dal titolo Discorsi sulle presenti rivoluzioni in Europa e, nel 1856, a Genova l'Introduzione ai princìpi delle umane società, opere nelle quali si coglie, accanto alla delusione per il fallimento dei moti italiani ed europei e del sistema basato sulle insurrezioni popolari, la convinzione che occorresse mettere da parte le posizioni demagogiche e rivoluzionarie, ponendo l'attenzione al fatto che solo il Regno di Sardegna, sotto la dinastia sabauda, rappresentava un punto di riferimento costituzionale di fronte alla reazione europea. In altre parole, maturava nel D. l'accettazione del moderatismo, inteso come adesione ad un regime monarchico, temperato dalla rappresentanza popolare, in cui il potere fosse solo reale espressione della maggioranza.
Nel 1852 Cavour lo incaricò di tradurre dall'inglese la Storia costituzionale d'Inghilterra (4 voll., Torino 1854-55) di E. Hallam, alla quale il D. premise il Discorso sul reggimento politico in Europa dalla conquista barbarica allo stabilimento della feudalità, in cui fu celebrata la monarchia costituzionale come la mìgliore forma di governo. "Fuor di stagione - egli scrisse - vivono le monarchie assolute, come fuor di stagione nascerebbero le repubbliche democratiche" (I, p. 18).
Ottenuta la cittadinanza sarda, nel 1854 vinse, per concorso, la cattedra di diritto costituzionale pubblico e internazionale dell'università di Genova, dove insegnò per dodici anni, fino al 1866. Sono di questo periodo le sue importanti prolusioni ai corsi universitari dell'anno accademico 1857-58, dal titolo Sulla necessità della restaurazione dei princìpi filosofici in generale e dei morali e politici in particolare (Palermo 1860) e dell'anno accademico 1859-60, dal titolo Su un nuovo metodo d'investigare i veri morali e politici (Genova 1859).
Cominciava a maturare in questi anni anche il suo dissenso verso la politica ecclesiastica del Regno sardo, particolarmente aggressiva nei confronti della Chiesa cattolica. Né lo convinse pienamente il sistema delle annessioni attraverso il quale venne realizzata l'Unità nazionale tra il 1859 e il 1860. In particolare, il D., legato alla tradizione autonomistica siciliana, avrebbe desiderato che l'annessione dell'isola al nuovo Regno d'Italia avvenisse attraverso l'iniziativa di una rappresentanza politica siciliana o di una Assemblea popolare e non attraverso la sbrigativa procedura plebiscitaria, senza precise condizioni, che urtò i suoi sentimenti, tanto che rifiutò, dopo la conquista garibaldina, nel 1860, le cariche offertegli dal prodittatore Antonio Mordini, di procuratore generale della Gran Corte dei conti e di membro del Consiglio straordinario di Stato, per studiare i bisogni della Sicilia e le provvidenze da adottare nel nuovo quadro politico e amministrativo.
Partecipò, invece, alle elezioni politiche del 27 genn.-3 febbr. 1861, risultando eletto deputato per l'VIII legislatura nel collegio di Canicattì. Cominciava, così, un decennio di attività parlamentare che si doveva concludere nel 1870. Venne, infatti, rieletto, nel 1865, nel collegio di Canicattì, per la IX legislatura. Questa elezione fu impugnata, per vizio di "pressione clericale", dall'on. F. Venturelli, il quale propose un'inchiesta che venne, però, respinta. Sempre durante la IX legislatura, il 5 febbr. 1866, il D. fu escluso, per sorteggio, dalla Camera dei deputati, per eccedenza del numero dei professori deputati consentito dalla legge. Pur di mantenere la carica di deputato egli si dimise dalla cattedra dell'università di Genova e poche settimane dopo, il 24 marzo 1866, venne rieletto nel suo collegio e regolarmente convalidato. L'episodio venne interpretato da G. Galati Scuderi come un tentativo di far tacere la voce del barone siciliano nel Parlamento di Firenze. Nel 1867 venne rieletto deputato, per la X legislatura, nel quarto collegio di Palermo.
Deciso fu il suo impegno di parlamentare in difesa delle autonomie locali e del decentramento amministrativo contro l'emergere del nuovo Stato italiano accentrato. Non a caso nella lettera che aveva indirizzato ai suoi elettori nel 1861 aveva scritto: "Farò sempre per quanto in me sarà, che il reggimento centrale si abbia meno, che è possibile, potestà su di ogni obbietto. Farò che niuna parte d'Italia perda, quel che si ha di utili istituti" (Siciliani miei cari concittadini, Genova 1861, p. 14).
Altrettanto decisa fu in lui la difesa degli interessi della Chiesa cattolica contro la legislazione ecclesiastica dei governi liberali postunitari. A questo programma il D. "rimase ostinatamente fedele durante le tre legislature in cui fu deputato, badando a difenderlo con profonda convinzione, incurante della impopolarità che gliene potesse derivare, dell'avversione e delle facili ironie dei colleghi, dell'obbiettiva difficoltà della sua posizione, che lo poneva ad un tempo contro la destra ministeriale e contro la sinistra schierata all'opposizione" (E Frattini, p. 147).
Il 27 marzo 1861, con un discorso che venne appoggiato da E. Amari e C. Cantù, si oppose all'o.d.g. che proponeva la proclamazione di Roma capitale d'Italia.
Pur ritenendo il potere temporale non indispensabile all'esercizio del magistero pontificio e la sua perdita un bene per la Chiesa, il D. sostenne che la decisione doveva partire dall'interno della S. Sede e dal papa stesso, non da un ente estraneo, altrimenti si rischiava di urtare contro la forza morale della religione, scavando un solco profondo nella società civile tra credenti e cittadini. Aggiunse che non si poteva contrastare la "potestà morale dei papato" che "è la stessa del Cristianesimo, è infinita, durerà quanto il cielo e la terra, durerà finché verranno nuovi cieli e nuova terra. Io voglio - affermò - che si entri in Roma quando si vada tra le braccia del Sommo gerarca e l'Italia riceva le benedizioni del cielo" (Attiparlamentari, Camera, VIIIlegislatura, sessione 1861, 1º periodo, Torino 1861, p. 325). Il D. non volle, in seguito, pubblicare questo discorso, perché non conforme alle affermazioni di Pio IX, al concistoro del 9 genn. 1861 sulla necessità del potere temporale per la libertà della Chiesa.
Nel febbraio 1865 fu assai ferma la sua opposizione, insieme con C. Cantú, alla legge sul matrimonio civile, da lui definita "tirannide dello Stato". "Lo Stato - egli affermò - è venuto dopo la famiglia, e lo Stato non ha altro scopo e ragion d'essere se non di fare, che i diritti naturali, eterni ed immutabili dell'individui umani meglio si esercitino ... Se lo Stato deve inframmettersi quanto meno è possibile in tutte le faccende degli individui, molto di meno anco deve inframmettersi in questa dei matrimoni" (Discorsi... al Parlamento italiano, Firenze 1868, II, pp. 218 s.). Propose, senza successo, un emendamento che lasciasse liberi i cittadini di contrarre matrimonio secondo le norme e i riti della propria fede religiosa, lasciando allo Stato il compito di occuparsi esclusivamente di chi volesse contrarre il solo matrimonio civile.
Il 20 apr. 1866 intervenne per contestare l'opportunità della vigilanza da parte dello Stato sull'insegnamento impartito nei seminari. Tra il 1866 e il 1867, insieme con G. Bortolucci, sostenne alla Camera una dura battaglia contro la proposta di legge sulla liquidazione dell'asse ecclesiastico. Il 28 marzo 1870 difese alla Camera il concilio vaticano che aveva sanzionato l'infallibilità del papa ex cathedra. IlD. affermò che il concilio, come avvenimento religioso, non doveva essere giudicato da nessuna autorità civile. Rivolgendosi idealmente ai padri conciliari, affermò: "Voi, successori degli apostoli, eseguirete il mandato da Gesù Cristo dato agli apostoli, ed a voi d'insegnare alle genti le infallibili verità, mandato dato agli apostoli ed a voi, non a Re o ad Imperatori, né ad assemblee profane" (Discorso del barone V. D'Ondes Reggio sul concilio vaticano, Tornata alla Camera dei deputati, 28 marzo 1870, coll'aggiunta di alcune riflessioni sull'azione inciviltrice da' concili ecumenici, Firenze 1870, p. 12).
Il 9 nov. 1870, dopo l'ingresso delle truppe italiane a Roma e l'annessione dello Stato pontificio al Regno d'Italia, diede le dimissioni da deputato, prima della fine della legislatura. Nelle elezioni del novembre 1870 per l'XI legislatura il D. venne presentato candidato nel IV collegio di Palermo, probabilmente senza il suo consenso - come sostiene F. Meda - ma non risultò eletto. Del resto, ormai la sua posizione politica era chiaramente orientata a favore delle istanze del movimento cattolico intransigente, all'interno del quale divenne una tra le figure più rappresentative.
Il suo nome è legato al primo congresso cattolico svoltosi a Venezia dal 12 al 16 giugno 1874, durante il quale egli lesse la dichiarazione di principio che doveva definire il carattere dell'Opera dei congressi (la maggiore organizzazione del cattolicesimo intransigente), e che si stabilì dovesse essere pronunciata in apertura di ogni congresso.
"Il congresso - affermò il D. - è cattolico e non altro che cattolico. Imperocché il cattolicesimo è dottrina compiuta, la grande dottrina del genere umano. Il cattolicesimo perciò non è liberale, non è tirannico, non è d'altra qualità; qualunque qualità si aggiunga, da per sé è un gravissimo errore: supporre che il cattolicesimo o manchi di qualche cosa che è d'uopo dargli o contenga qualche cosa che è d'uopo levargli, è gravissimo errore che non può che partorire scismi ed eresie" (cfr. G. De Rosa, Storia del movim. catt., I, pp. 122 s.).
Nel corso di quel congresso egli trattò anche dei problemi dell'istruzione e dell'educazione dei giovani. Affermò che la Chiesa non poteva accettare il concetto di libertà configurato nello Stato borghese liberale, né una educazione al di fuori dai comandamenti divini e sulla base della cultura laicista. Fin quando lo Stato borghese avesse monopolizzato l'istruzione, i cattolici avrebbero osteggiato l'insegnamento obbligatorio, perché "contrario ai sacri doveri e ai diritti della patria potestà". In altre parole, il D. negava che lo Stato potesse educare la gioventù se non sotto i dettami della Chiesa (cfr. Dichiarazioni e discorsi... al primo congresso cattolico italiano tenutosi in Venezia nel giugno 1874, Firenze 1874).
L'anno successivo, nel 1875, al congresso cattolico di Firenze attaccò duramente le istanze del cattolicesimo liberale: "Respingete lungi da voi - affermò - le funestissime insidie del cattolicesimo liberale, che o renderebbe inutile il vostro zelo e le vostre fatiche, o ne scemerebbe il vigore, o le renderebbe sterili". Ribadì questi concetti nel 1877 al congresso di Bergamo, evidenziando la sua opposizione non ai valori del liberalismo e della libertà, quanto all'atteggiamento concreto dello Stato liberale che intendeva piegare la Chiesa ai suoi fini, spogliandola dei suoi beni e dei suoi diritti (cfr. Proposta di professione di cattolicismo e Discorsi al congresso cattolico italiano in Bergamo nell'ottobre 1877..., Milano s.d.).
Negli anni che seguirono si mantenne rigido sostenitore della intransigenza cattolica e fedele assertore del non expedit, tanto che, quando nel 1879 sembrò maturare in alcuni ambienti conciliatoristi la possibilità di dar vita a un partito conservatore nazionale cattolico, il D., al congresso di Modena (ottobre 1879), respinse con fermezza qualsiasi ipotesi di accettazione cattolica dei "fatti compiuti". "I "fatti compiuti" - affermò - sono principio così nefasto e abominevole, che contiene in se stesso la cagione della distruzione di ciò che genera, Saturno non favoloso che divora i suoi figli" (cfr. G. De Rosa, Storia del movim...., I, p. 230).
Il D. morì a Firenze il 24febbr. 1885.
Dalla prima moglie (morta nel 1844) aveva avuto un figlio, Pietro Bartolomeo (nato nel 1839). Nel 1867 aveva sposato, in seconde nozze, Ida Crippa, da cui aveva avuto due figli, Gioachina, nata nel 1868, e Pio Maria, nato nel 1878.
Fonti e Bibl.: Le carte e i documenti del D., conservati a lungo presso la figlia Gioachina Spinola, a Genova, sono stati successivamente divisi in due fondi, depositati presso l'Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia a Milano e presso l'Archivio della Civiltà cattolica a Roma. Il fondo di Milano si riferisce principalmente all'ultimo periodo e in particolare alla partecipazione del D. al movimento cattolico. Il fondo di Roma, assai più voluminoso, contiene numerose lettere di vari personaggi ecclesiastici e laici, pubblicazioni, articoli, appunti di filosofia, storia, diritto, economia, nonché minute di lezioni universitarie. Queste carte abbracciano l'intero arco della vita del D'Ondes Reggio.
Lettere e appunti del D. possono trovarsi anche tra le carte di Silvio Spaventa (Biblioteca civica A. Mai a Bergamo), del marchese di Roccaforte (Biblioteca della Società italiana di storia patria, Palermo), di E. Amari (Biblioteca comunale di Palermo) e presso l'Archivio degli eredi di Vito Beltrame, a Palermo.
Fonti importanti sono anche gli articoli sul Giornale di statistica, raccolti nel volume Memorie legislative ed economiche, Palermo 1874, e sugli altri periodici ai quali collaborò. Fondamentali i discorsi tenuti alla Camera dei comuni di Palermo nel 1848-49, ora in Atti delle Assemblee del Risorgimento. Sicilia, Roma 1911; i Discorsi del barone D. al Parlamento italiano, 2 voll., Firenze 1868, e gli Atti parlamentari. Camera dei deputati, legislature VIII-X, ad Indices.
Gli studi più significativi sulla figura e sul pensiero del D. sono: F. Meda, V. D., Firenze 1928; E. Di Carlo, Operosità scientifica e politica di V. D. (con lettere inedite), Palermo 1963; E. Frattini, Il pensiero politico di V. D., Brescia 1964; M. Vituzzo Accardo, Lattività politica e il pensiero di V. D. nel Risorgimento della Sicilia, Firenze 1966.
Numerosi le brevi biografie, le commemorazioni, i necrologi e gli articoli su alcuni aspetti del pensiero e dell'opera del D.: R. U. Montini, V. D., in Enc. catt., Roma 1950, IV, coll. 1859 s.; G. Galati Scuderi, Vita ed opere del barone V. D. Discorso letto nella tornata dell'Accademia cattolica di Palermo a' 12 apr. 1885, Palermo 1885; G. Sacchetti, Commemorazione al Circolo S. Luigi di Bergamo, Bergamo 1887; T. Sarti, Il Parlamento subalpino e nazionale, Terni 1890, pp. 417 s.; In memoria di V. D., in La Civiltà cattolica, LXI (1910), I, pp. 385-97; A. Boggiano, V. D., Pavia 1910; A. Pecoraro, La commemorazione del barone V. D., in Studium, V (1910), 3.4, pp. 109-21; G. B. Mondada, Il Montalembert d'Italia, in Associazione giovani studenti S. Stanislao, X (1919), 7, pp. 248-52; V. Rallo, Il barone V. D., in Vita e Pensiero, IX (1923), pp. 742-50; L. Alpino, V. D., in Profili e ricordi, Milano 1933, pp. 109-14; E. Di Carlo, V. D., in L'Osservatore romano, 13 marzo 1943; F. Rossi, V. D., ibid., 14 maggio 1948; F. Petruccelli della Gattina, I moribondi di palazzo Carignano, Roma 1960, p. 194; E. Di Carlo, V. D., in Voce cattolica, 17 dic. 1961; Dizionario dei siciliani illustri, Palermo 1939, p. 196.
Riferimenti sulla figura e sull'opera del D. sono rintracciabili in numerose storie della Sicilia. Ricordiamo tra le altre: F. De Stefano, Storia della Sicilia dal sec. XI al XIX, Bari 1948, ad Indicem; P. Alatri, Lotte politiche in Sicilia sotto il governo della Destra, Torino 1954, passim; F. De Stefano-F. L. Oddo, Storia della Sicilia dal 1860 al 1910, Bari 1963, pp. 29 s., 73, 188, 260; F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, I, I caratteri originari e gli anni dell'unificazione italiana, Palermo 1984, ad Indicem.
Sull'attività culturale e politica del D. nel periodo siciliano, fino al 1849 ed in particolare sul suo ruolo nella rivoluzione del '48, cfr. G. La Farina, Istoria documentata della rivoluzione siciliana e delle relazioni coi governi italiani e stranieri (1848-1849). Documenti della guerra santa d'Italia, Capolago 1851; P. Calvi, Memorie storiche e critiche della rivoluzione siciliana del 1848, Londra 1851, passim; C. Gemelli, Storia della siciliana rivoluzione del 1848-49, Bologna 1867-68, passim; V. Fardella di Torrearsa, Ricordi sulla rivoluzione siciliana del 1848-49, Palermo 1887, passim; V. Finocchiaro, La rivoluzione siciliana del 1848-49, Catania 1906, passim; F. Guardione, La rivoluzione siciliana negli anni 1848-49, Milano 1927, passim; E. Di Carlo, Una lettera di V. D. a G. D. Romagnosi, Palermo 1935; F. Brancato, L'Assemblea siciliana del 1848-49, Firenze 1946, passim; E. Di Carlo, Prodromi del '48. La lettera di Malta, in Atti del Congresso di studi storici sul '48 siciliano, Palermo 1950, pp. 59-69; S. F. Romano, Momentidel Risorgimento in Sicilia, Messina-Firenze 1952, ad Ind.; G. De Rosa, Gli scritti di F. Ferrara, in Rassegna di politica e di storia, II (1955), 11, pp. 27-32; Id., V. D. e il Giornale di statistica, ibid, nn. 14 e 15, dicembre 1955 e gennaio 1956, Id., I gesuiti in Sicilia e la rivoluzione del '48, Roma 1963, pp. 15 s., 46-50, 224; E. Guccione, Ideologia e politica dei cattolici siciliani (da V. D. a Luigi Sturzo), Palermo 1974; A. Sindoni, Chiesa e società in Sicilia e nel Mezzogiorno, secoli XVIIIXX, Reggio Calabria 1984, ad Ind.; Id., Dal riformismo assolutistico al cattolicesimo sociale, Roma 1984, ad Ind.
Sull'attività svolta dal D. nel Regno sardo e sulle sue battaglie nel Parlamento italiano fino al 1870, cfr. S. Jacini, La crisi religiosa del Risorgimento. La politica ecclesiastica italiana da Villafranca a Porta Pia, Bari 1938, passim; E. Di Carlo, V. D. e la libertà d'insegnamento, in Sicilia del popolo, 14 maggio 1947; F. Olgiati, Da V. D., all'art. 27 della nuova Costituzione, in Vita e pensiero, XXXIII (1947), 6, pp. 325-32; G. D'Amelio, Stato e Chiesa. La legislazione ecclesiastica fino al 1867, Milano 1961, ad Indicem; A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 1963, pp. 82, 252, 254 s., 329; R. Mori, La questione romana. 1861-1865, Firenze 1963, ad Indicem; R. De Mattei, Tre cattolici siciliani al primo Parlamento italiano, in I cattolici e il Risorgimento, Roma 1963.
Sul ruolo svolto dal D. nel movimento cattolico intransigente e nell'Opera dei congressi, cfr. G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Roma 1953, ad Indicem; G. Spadolini, L'opposizione cattolica da Porta Pia al '98, Firenze 1954, ad Indicem; G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, I, Dalla Restaurazione all'età giolittiana, Bari 1966, ad Indicem.