Vito Volterra
Fino agli anni Settanta del secolo scorso, le tracce di Vito Volterra nel mondo matematico italiano sono rimaste piuttosto deboli. La maturazione di una diversa sensibilità e la disponibilità dell’imponente carteggio di 16.000 lettere scambiate con 1500 corrispondenti, donato dagli eredi all’Accademia dei Lincei, hanno in seguito suscitato studi con l’effetto di riproporre l’originalità delle sue ricerche e l’importanza della sua figura. I motivi del parziale oblio in cui Volterra sembrava essere caduto sono molteplici: il matematico non aveva avuto allievi diretti, e il modo in cui concepiva la matematica e ne sviluppava le ricerche non era sempre in perfetta sintonia con il mainstream dei decenni successivi alla fine della Seconda guerra mondiale. Egli è stato tuttavia il più importante matematico italiano nei decenni a cavallo tra Otto e Novecento, con una modernità indiscutibilmente riemersa in seguito agli studi più recenti.
Vito Volterra, nato ad Ancona il 3 maggio 1860 da famiglia ebraica, trascorse la sua giovinezza a Firenze, dove la madre si era trasferita, aiutata da un fratello a superare le difficoltà finanziarie in cui la famiglia si era trovata dopo la morte del capofamiglia. Gli anni scolastici del giovane Vito, fino alla licenza conseguita presso un istituto tecnico, furono vissuti dando prove di grande intelligenza e impegno, ma nel timore che l’anno passato a scuola fosse sempre l’ultimo per la necessità di entrare nel mondo del lavoro e poter in tal modo contribuire al mantenimento della famiglia. Di rinvio in rinvio di un tale momento, Vito riuscì ad arrivare all’Università e a Pisa fu ammesso alla Scuola Normale Superiore.
Cominciò così la sua avventura scientifica, di studente e di studioso, prima sotto l’influsso prevalente di un analista quale Ulisse Dini (1845-1918) e poi a più stretto contatto con il fisico matematico Enrico Betti. La carriera di Volterra, una volta laureato in fisica nel 1882, fu particolarmente rapida. Fu assistente di Betti per un anno, poi vinse subito la cattedra di meccanica razionale in quella stessa Università di Pisa in cui si era laureato solo pochi mesi prima. Per motivi che non sono del tutto chiari – forse il desiderio di una maggiore autonomia nei confronti di una presenza a Pisa particolarmente ingombrante, quale soprattutto quella costituita da Dini – Volterra nel 1893 si trasferì a Torino. Da qui si sarebbe spostato, alla fine del secolo, a Roma.
Dopo il 1870, le politiche dei vari governi erano state concordi nel tentativo di trasformare Roma nella vera capitale della nazione, aumentandone l’autorevolezza non solo a livello istituzionale. Era una politica perseguita anche a livello culturale e universitario. Si volevano portare a Roma i migliori nomi dell’intellettualità italiana per trasformare l’Università romana in un prestigioso centro di eccellenza. Così, la ‘chiamata’ nella capitale finiva con il rappresentare per molti docenti il prestigioso punto di arrivo della propria carriera. A Volterra l’opportunità si presentò in quel 1900 che rimane nella sua biografia un anno molto significativo. Il trasferimento a Roma fu accompagnato pressoché simultaneamente dal matrimonio con la lontana cugina Virginia, dalla plenary lecture tenuta al Congresso internazionale dei matematici di Parigi su invito di Jules-Henri Poincaré (1854-1912) – il Congresso dove David Hilbert (1862-1943) indicò 23 problemi per la ricerca del secolo che stava per cominciare – e dall’invito della Regia Università di Roma a tenere la prolusione del successivo anno accademico 1901-1902.
All’inizio del secolo, Volterra era dunque già uno scienziato molto stimato in patria e all’estero. A questa autorevolezza scientifica, cui contribuirono nuove ricerche in tema di teoria dell’elasticità e di equazioni integro-differenziali, si aggiunse a Roma anche una dimensione pubblica. Nel 1904 ricevette l’incarico di far parte di una ristretta Commissione che doveva riorganizzare il Politecnico di Torino. Assolse l’impegno visitando altri Paesi e i principali politecnici europei, con una determinazione che venne riconosciuta e premiata dalla nomina a senatore nel 1905 su proposta del governo presieduto da Giovanni Giolitti. La sua statura politica emerse però maggiormente con la proposta, avanzata nel 1906 e realizzata l’anno successivo, della fondazione della Società italiana per il progresso delle scienze (SIPS). Qualche anno dopo, scoppiava la Prima guerra mondiale e Volterra – acceso patriota e interventista, a fianco delle potenze occidentali – si arruolò volontario, all’età di 55 anni. Fu durante la guerra, con i contatti internazionali che prese con i colleghi delle potenze alleate, che Volterra maturò il progetto che avrebbe portato alla costituzione del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche), un anello essenziale per una nazione moderna al fine di collegare il mondo scientifico, quello dell’industria e il potere politico. L’incubazione del CNR sarebbe stata particolarmente lunga e l’istituzione avrebbe visto la luce solo nel 1923, già sotto il regime fascista. Volterra fu riconosciuto unanimemente come l’ideatore del progetto e la più affidabile personalità scientifica che potesse dirigerlo nei primi anni della sua realizzazione; come tale fu eletto primo presidente del CNR, carica che avrebbe mantenuto fino al 1926.
Di giovanili ideali monarchici e di tendenze comunque moderate, vicino poi all’area giolittiana, il matematico non ebbe esitazione alcuna a schierarsi in modo esplicito tra gli oppositori del regime fascista. Fu in virtù di questa sua collocazione politica (che nel 1925 lo portò a sottoscrivere il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce, in contrapposizione all’appello di Giovanni Gentile perché gli intellettuali si avvicinassero al Partito nazionale fascista) che nel 1926, alla scadenza dei mandati, non venne più rinnovato nella carica di presidente del CNR e neppure di quella al vertice dell’Accademia dei Lincei. Il redde rationem arrivò nel 1931, quando il regime obbligò i docenti universitari a firmare il nuovo giuramento di fedeltà al fascismo con l’impegno di «formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria ed al Regime Fascista». Volterra si rifiutò di sottoscrivere il giuramento e il 31 dicembre dello stesso anno venne dispensato dal servizio e invitato a chiedere la pensione. Ma non era finita. Con la riforma delle Accademie e degli Istituti di cultura, varata nel 1933 per completarne il processo di fascistizzazione, l’obbligo del giuramento di fedeltà al regime fu esteso ai soci di tutte le Accademie del Regno. Nel giugno 1934, Volterra fu ancora una volta invitato a giurare; ancora una volta si rifiutò e venne dichiarato decaduto da tutte le Accademie italiane, compresa quell’Accademia dei Lincei di cui era stato presidente. Morì a Roma, in un isolamento pressoché totale, l’11 ottobre 1940.
Uno degli elementi che maggiormente contribuiscono a caratterizzare la modernità di Volterra è la difficoltà che si incontra, analizzando la sua opera scientifica, nel distinguere i contributi dovuti a una ricerca più teorica da quelli maggiormente ispirati dalle applicazioni. Volterra nacque come matematico ‘puro’ sotto il prevalente magistero di Dini, il suo iniziale e principale punto di riferimento. Ancora studente del secondo anno della Normale, partecipò subito da protagonista al progetto di importare in Italia il rigore e i temi di ricerca degli analisti tedeschi e fu autore di due importanti Note sul tema dell’integrazione secondo Bernhard Riemann (1826-1866) di una funzione reale di variabile reale. Dimostrò in particolare che derivazione e integrazione non sono sempre l’una l’operazione inversa dell’altra: ci sono funzioni derivabili, la cui derivata (pur limitata) non è integrabile.
Queste Note del 1881 rappresentano il momento di maggior vicinanza del giovane studente della Normale all’analisi reale di Dini; poi gli interessi scientifici di Volterra, complice anche una certa difficoltà di incontrare regolarmente Dini che era spesso a Roma per i suoi incarichi politici, si orientarono verso la fisica matematica di Betti, con un passaggio oltremodo significativo del suo modo di concepire la ricerca matematica. È con Betti, come ricordato, che Volterra si laureò in fisica nel 1882.
Con una serie di Note redatte attorno al 1887, Volterra può poi essere considerato uno dei fondatori dell’analisi funzionale. La sua matrice fisico-matematica gli fece cogliere l’importante convergenza tra alcuni sviluppi del calcolo – legati a quelli dell’analisi complessa e alle equazioni differenziali alle derivate parziali – e «molte esperienze di fisica e di meccanica» che portano a sottolineare la presenza di quantità variabili assunte da diversi valori reali, non già in funzione di un altro numero reale bensì di una curva. È il concetto di funzionale, secondo la terminologia che il matematico francese Jacques Hadamard (1865-1963) avrebbe introdotto all’inizio del Novecento. Volterra per il momento usò il termine di funzione di funzione (da non confondersi con il concetto di funzione composta) o di funzione di linea: è appunto una corrispondenza che a una curva associa un numero reale. Si tratta di un’evidente generalizzazione del concetto di funzione, che suggerisce quasi immediatamente il tentativo di riprodurre per i funzionali, nozioni e risultati ormai acquisiti per le funzioni di una o più variabili reali.
Con questi studi Volterra ribadì di essersi posto lungo un crinale quanto mai significativo tra matematica ‘pura’ e ‘applicata’. Anche la polemica con Giuseppe Peano, negli anni in cui Volterra fu docente a Torino, mette in luce come la sua raffinatezza di matematico ‘puro’ non sia mai disgiunta da una costante attenzione alle applicazioni fisiche. La contesa, scaturita quasi paradossalmente dalla ricerca dei motivi per cui un gatto cade sempre sulle zampe e degli eventuali legami tra un simile atterraggio e i problemi connessi con la rotazione della Terra, coinvolgeva in realtà il modo di condurre le ricerche matematiche, il valore da attribuire alla logica e a una sempre maggiore generalità dei risultati da perseguire.
Il tema della generalità dei concetti matematici – della loro estensione e dei limiti che bisogna invece aver presente – si ritrova nel garbato scambio polemico con Maurice-René Fréchet (1878-1973), a proposito della nozione di derivata di un funzionale e della generalità che una tale definizione deve garantire. Al matematico francese che criticava la scarsa estensione della sua definizione, Volterra replicò (in una lettera datata 17 novembre 1913 e conservata presso l’Académie des sciences di Parigi):
come può ben capire, io avevo da affrontare in quel 1887 un tale numero di problemi (equazioni integrali, equazioni alle derivate funzionali ecc.) che non potevo permettermi di soffermarmi su questioni secondarie almeno rispetto al mio punto di vista che era quello delle applicazioni dei concetti generali che avevo introdotto.
La prolusione dell’anno accademico 1901-1902 all’Università di Roma lo obbligò in qualche modo a scegliere un argomento interdisciplinare che potesse interessare i colleghi delle altre facoltà. È ugualmente significativo che la scelta cadde Sui tentativi di applicazione delle matematiche alle scienze biologiche e sociali tema per il quale Volterra si era consultato con il suo ‘vecchio’ assistente torinese Giovanni Vailati (1863-1909) per ricevere prime indicazioni bibliografiche.
Per quanto riguarda l’economia matematica, bisogna ricordare che la disciplina viveva allora la sua prima stagione moderna con la diffusione delle opere di Léon Walras, William Stanley Jevons, Carl Menger e il magistero di Vilfredo Pareto a Losanna dalla stessa cattedra che era stata precedentemente di Walras. Volterra fu quindi pronto nella prolusione a cogliere la novità di questa applicazione in un campo insolito per la matematica quale poteva essere quello costituito da una scienza morale. Nel giudicare l’importanza di questa nuova applicazione, fu sufficientemente equilibrato: da una parte, pensava che la matematica non fosse altro che la traduzione in un diverso linguaggio di dati e osservazioni già avviate su un terreno non formalizzato; dall’altra, sottolineò la sua importanza per il rigore che permette di raggiungere e la possibilità di intravedere nuove e inaspettate conclusioni: «nessuno può quindi dire al geometra a quali ampi orizzonti condurrà lo stretto e spinoso sentiero che il calcolo gli fa seguire».
L’obiettivo è praticabile grazie a quel concetto di modello matematico che Volterra, tra i primi, descrisse con precisione e con eleganza di termini. Un modello è una rappresentazione semplificata della realtà, per potervi introdurre il formalismo matematico e avvalersi della sua potenza. La semplificazione operata, con la sottolineatura di determinate proprietà e la sordina applicata ad altri caratteri, dipende dalla lettura soggettiva del fenomeno in questione e dalle indicazioni che provengono dal formalismo prescelto:
plasmare dunque concetti in modo da poter introdurre la misura; misurare quindi dedurre poi delle leggi; risalire da esse ad ipotesi; dedurre da queste, mercé l’analisi, una scienza di enti ideali sì, ma rigorosamente logica; confrontare poscia colla realtà; rigettare o trasformare, man mano che nascono contraddizioni fra i risultati del calcolo ed il mondo reale, le ipotesi fondamentali che han già servito; e giungere così a divinare fatti ed analogie nuove, o dallo stato presente arrivare ad argomentare qual fu il passato e che cosa sarà l’avvenire; ecco, nei più brevi termini possibili, riassunto il nascere e l’evolversi di una scienza avente carattere matematico.
Volterra sviluppò ricerche di alto livello in tema di analisi funzionale, di equazioni integrali (ancor oggi in alcuni casi chiamate equazioni di Volterra), di elasticità, di equazioni integro-differenziali anche nei primi decenni del Novecento, quando pure gli incarichi politici diventano davvero pesanti. A metà degli anni Venti, su sollecitazione del genero, lo zoologo Umberto D’Ancona (1896-1964), Volterra elaborò il modello preda-predatore (detto anche modello di Lotka-Volterra) pervenendo a un sistema di due equazioni differenziali del primo ordine:
Formula 1
dove x=x(t) rappresenta nel tempo la popolazione delle prede e y=y(t) quella dei predatori, mentre a, b, c, d sono coefficienti positivi. In particolare, le costanti a e −c rappresentano i coefficienti di accrescimento delle due specie, in assenza di qualsiasi interazione; i coefficienti −b e d misurano invece l’influenza di ciascuna specie sul tasso di crescita dell’altra.
Con questo sistema, e la sua soluzione, riuscì pertanto a descrivere la dinamica di due popolazioni che convivono in modo conflittuale in una stessa nicchia ecologica e a spiegarne l’andamento ciclico motivandolo solo con ragioni endogene. Dalla sua, la soluzione matematica ha anche l’interpretazione biologica: all’inizio, quando possiamo supporre che i livelli siano bassi per entrambe le popolazioni, il numero dei predatori è talmente ridotto da favorire lo sviluppo delle prede; i predatori continuano a diminuire, vista la scarsità degli incontri, anche se a ritmi progressivamente più lenti fino al raggiungimento di un minimo che segna l’inversione di tendenza; da questo momento, riprendono a crescere in virtù di un numero di incontri sufficientemente elevato mentre le prede crescono con un’intensità via via minore fino al raggiungimento di un massimo che segna una nuova inversione di tendenza. A questo punto, si riparte e così via.
L’inserimento nell’originario sistema di equazioni differenziali di un parametro che riflette l’intensità della pesca permette infine di rispondere al quesito posto inizialmente da D’Ancona e di spiegare perché negli anni della guerra e in quelli immediatamente successivi, quando l’intensità della pesca era minore, si era registrata nel pescato una minor presenza percentuale delle prede.
Con l’inizio del secolo, Volterra fu nominato senatore del Regno. Ma il suo gesto di maggiore significato politico rimase la fondazione della SIPS. Si trattava di realizzare un punto di incontro democratico – profondamente diverso dalle pur nobili Accademie che esistevano nel nostro Paese – dove tutti gli uomini di scienza e anche delle altre culture potessero tra loro confrontarsi. Nelle intenzioni di Volterra, la SIPS non era un ‘salotto’, ma un modo per sollecitare gli uomini di scienza a diventare più consapevoli della propria dimensione culturale, al di là dei pur necessari specialismi, e dell’importanza che il loro lavoro poteva rivestire per la modernizzazione del Paese. Le forze politiche dovevano riconoscere tale ruolo ed era questo il secondo obiettivo che la SIPS intendeva perseguire: fare pressione sul potere politico perché si rendesse conto che esisteva una comunità scientifica ormai pronta a rivestire incarichi di responsabilità e la cui emarginazione avrebbe invece fatto pagare all’Italia un prezzo molto alto in termini di sviluppo e di democrazia.
È la stessa idea che mutatis mutandis – in mezzo c’era stata la Prima guerra mondiale che aveva sovvertito molti scenari – portò all’istituzione del CNR. Il Paese e i suoi governi devono riconoscere l’importanza socioeconomica della ricerca (oltre naturalmente quella più strettamente culturale) e istituire precise forme organizzative che rafforzassero la presenza della ricerca applicata predisponendo al contempo canali di comunicazione dedicati specificamente al mondo produttivo.
La permanenza di Volterra alla guida del CNR fu particolarmente breve a causa del mutato clima politico. La sua scelta antifascista fu principalmente etica e si espresse chiaramente con l’episodio del giuramento dei professori universitari del 1931. L’obiettivo del provvedimento era duplice e articolato: da una parte, intendeva introdurre, in un momento di crescente consenso verso il nuovo regime, una sanatoria che portasse a dimenticare la precedente divisione tra intellettuali fascisti e antifascisti; c’era insomma per i docenti universitari la possibilità di essere ‘perdonati’ e di salire tutti insieme, cittadini della nuova Italia, sul carro del vincitore. D’altra parte, l’imposizione del giuramento di fedeltà si poneva l’obiettivo di smascherare gli irriducibili antifascisti, obbligandoli ad autodenunciarsi e ad andare incontro all’inevitabile allontanamento dalla cattedra e da ogni ruolo nell’università.
Da questo punto di vista, il giuramento del 1931 ottenne un indubbio successo: quasi tutti i docenti universitari – chi volentieri, chi per opportunismo, chi tra mille dubbi e resistenze – piegarono la testa e sottoscrissero la loro adesione al regime. Furono dodici i professori che rifiutarono il giuramento. Volterra fu tra questi, unico matematico del gruppo. Non era mosso dalla segreta speranza che, con il suo gesto, la situazione politica si orientasse verso l’auspicato cambiamento; sapeva che nell’immediato stava andando incontro a una sconfitta e all’ostracismo sociale e che il suo gesto era ‘inutile’, se letto alla luce del comune e diffuso realismo politico. Semplicemente non ce la fece a mettere il suo nome sotto una dichiarazione che gli sembrava vergognosa e inaccettabile. Il tono della sua risposta al rettore dell’Università di Roma, che lo invitava a giurare secondo la formula prescritta, è asciutto e non rivela nessuna particolare protesta e nessun proclama se non quello di una dignità calpestata:
Ill.mo signor rettore, sono note le mie idee politiche per quanto esse risultino esclusivamente dalla mia condotta nell’ambito parlamentare, la quale non è tuttavia sindacabile in forza dell’art. 51 dello Statuto fondamentale del Regno. La S.V. comprenderà quindi come io non possa in coscienza aderire all’invito da lei rivoltomi con lettera 18 corrente relativa al giuramento dei professori (testo conservato nelle Carte Volterra presso l’Accademia dei Lincei di Roma).
Le Memorie scientifiche di Volterra sono raccolte nei cinque volumi delle Opere matematiche, pubblicati dall’Accademia dei Lincei, Roma 1956-1962.
M. Galuzzi, A. Guerraggio, Volterra e l’economia matematica, «Giornale degli economisti», 1980, 1, pp. 803-14.
A. Guerraggio, Le memorie di Volterra e Peano sul movimento dei poli, «Archive for history of exact sciences», 1984, 2, pp. 97-126.
G. Israel, A. Millan Gasca, The biology of numbers. The correspondence of Vito Volterra on mathematical biology, Basel 2002.
A. Guerraggio, prefazione e aggiornamenti a C.B. Boyer, Storia del calcolo e del suo sviluppo concettuale, Milano 2007.
A. Guerraggio, G. Paoloni, Vito Volterra, Roma 2008.