VITRUVIO (Vitruvius Pollio)
La fama di V. è quasi unicamente affidata al suo trattato (i Dieci Libri di Architettura), che, ove se ne eccettuino alcune epitomi da esso derivate (Faventino, Gargilio Marziale, Palladio), alcune operette di architettura idraulica (Frontino) e militare (Filone di Bisanzio, Vegezio, Igino), nonché alcuni passi in testi di storia, di agricoltura, di scienze naturali, di meccanica e di gromatica, è il solo trattato di architettura che l'antichità ci abbia tramandato.
Sappiamo, per la stessa testimonianza di V. (prefazione lib. VII) che molti trattati di architettura furono scritti prima di lui nella Grecia e in Roma, a partire da quello di Agatarco e da quelli che sulle leggi della prospettiva lineare, rivelate già dai vasi attici del sec. V, scrissero Anassagora e Democrito. Dopo i quali, V. ricorda tutta la tradizione letteraria nel campo degli studî architettonici, in Grecia e a Roma, sino al tempo suo, confessando di avere raccolto dai predecessori tutto quanto di utile poté trovare al proprio intento, ma (pref. libro IV) di avere per primo raccolto in un ordine sistematico quei precetti che i suoi predecessori avevano lasciati non ordinati o incompiuti o saltuariamente disposti.
Della biografia di V. pochissimo mnosciamo: tutto quindi è rimasto sino ad oggi argomento di discussione: il suo nome, il suo luogo di nascita e il tempo in cui visse, operò e scrisse.
Il prenome, infatti, è variamente determinato in Lucio, in Aulo e in Marco; ma nella maggioranza dei codici figura come Marco. Quanto al cognome di Pollione, che per molto tempo si è creduto una tarda aggiunta, può ora essere accettato con maggiore fiducia, nonostante qualche incertezza. Per quanto riguarda il luogo di nascita, Roma e Formia, Verona e Ravenna, Fano, Piacenza e la Numidia hanno di volta in volta preteso di avere dato i natali a V., ed è solo possibile affermare che il nome di V ricorre il più spesso nelle iscrizioni della Campania (Miseno, Baia, Pozzuoli) e dell'Agro Formiano. Ma ciò che per la retta interpretazione del testo occorreva principalmente determinare era la data della sua composizione. Contro l'opinione tradizionale, che faceva di Vitruvio un contemporaneo di Augusto, G. Perrault, nel '600, accennò per il primo all'opinione, che ravvisava invece in Tito l'imperatore al quale Vitruvio dedicò la sua opera: ma fu soprattutto W. Newton a sostenere quella tesi seguito poi da V. Mortet e da altri. Più innanzi su questa strada è andato C. F. L. Schultz, considerando dapprima (1829) V. come un falsario del sec. X e poi (1856) assegnando la composizione del trattato al sec. IV. Infine F. L. Ussing (1896) volle ravvisare in Vitruvio un grammatico ravennate del sec. III. Oggi tuttavia la teoria tradizionale è tornata ad avere il sopravvento, e si è giunti anzi a determinare con una certa approssimazione la data di composizione del trattato verso il 27 a. C.
Del fisico di Vitruvio altro non sappiamo se non quello che egli stesso dice di sé nel libro II, cioè che era piccolo di statura e, quando scriveva il trattato, vecchio e infermo. Né, a parte il trattato, sappiamo gran che intorno alla sua attività: dalla quale certo non accumulò ricchezze, perché egli stesso (pref. lib. VI) asserisce che, restio a procacciarsi incarichi, pochi ne ebbe, e poco profitto ne trasse, tanto che dovette chiedere e ottenere dall'imperatore, per intercessione della sorella di lui, una pensione vitalizia (pref. lib. I), ma che, per le cure dei genitori e per l'insegnamento dei maestri avendo appreso una nobile arte con largo corredo di cognizioni letterarie e scientifiche, sperava ottenere col suo trattato presso i posteri quella notorietà che in vita non aveva saputo conquistare.
È certo che egli dovette recarsi a Fano per costruirvi la sua celebre basilica (lib. V, cap.1), ove non si accetti l'opinione (W. Schmidt e F. Krohn) che la descrizione della basilica di Fano che si trova nel trattato sia una posteriore interpolazione. Ma, nella sua attività pratica, egli dovette essere soprattutto specializzato nell'architettura militare e nell'idraulica: ricevette incarico da Augusto di presiedere con altri alla preparazione di baliste, scorpioni e altre macchine di guerra. Come idraulico egli è ricordato da Frontino (De aquis et aquaeduct., I, 25), che accenna essere stato lui o Agrippa il probabile introduttore del modulo della fistula quinaria. Non è qui il caso nemmeno di ricordare la ipotesi del Mortet che, per salvare la sua tesi sull'età del trattato, vuole vedere nel Vitruvius architectus di Frontino un ingegnere del servizio delle acque pubbliche distinto e cronologicamente anteriore all'autore del trattato. Taluno, infine, per la larga parte che si fa nel libro VIII alla gnomonica, ha voluto vedere in V. particolarmente un costruttore di orologi, e per il fatto che, a proposito degli gnomoni equinoziali, egli cita, con quelli di Alessandria, Atene e Roma, quello di Piacenza, ha voluto attiibuire a lui la costruzione di quest'ultimo e finanche attribuire a lui una cittadinanza piacentina o quanto meno un lungo soggiorno in quella città.
Sebbene i contemporanei di V. potessero usare i libri di Varrone e i trattati architettonici greci e latini, che avevano preceduto l'opera vitruviana, certo è che questa dovette essere la più letta dai Romani e la più seguita.
Pur tuttavia il ricordo di V. e del suo trattato è rarissimo in tutti gli scrittori dell'età classica. Nella prima metà del sec. III V. trova il suo abbreviatore in Cezio Faventino, autore di un compendio del De Architectura, in 28 capitoli (con l'aggiunta di un 29° capitolo di altra derivazione e di un 30° che è opera di un più tardo trascrittore). Nel sec. IV, oltre Palladio, soltanto Servio fa un accenno a V. (ad Aen., VI, 43), ma col sec. V la fama di V. prende a giganteggiare. È però una fortuna soltanto apparente e nominale, perché in sostanza il trattato è quasi del tutto trascurato; il testo di V., già difficile in sé stesso, diventava sempre più oscuro man mano che si chiudevano le scuole dei grammatici e dei retori, e del . resto un architetto del sec. V e di quelli successivi avrebbe potuto trarre dai Dieci Libri poco più che qualche norma generale, mentre a lui poteva meglio bastare uno dei compendî che allora circolavano numerosi. Più tardi Eginardo si sforza di interpretare il grande trattato nei suoi passi meno intelligibili. Nei secoli X - XIII i Dieci Libri dovettero essere letti, studiati e trascritti. Lettura però di monaci e di studiosi che non ha esercitato alcuna azione sulla formazione del pensiero artistico di quei tempi e sulla pratica delle costruzioni. La vera fortuna di V. sotto questo aspetto non ricomincia anzi nemmeno con il primo Rinascimento. È bensì vero che, contrariamente a ciò che fin quasi a oggi si è creduto, il trattato, che mai si era perduto, non fu quindi "ritrovato" da Cencio Rustici nel monastero di S. Gallo al tempo del concilio di Costanza. Il Petrarca lo possedette, e Giovanni Boccaccio ne fece trascrivere per suo conto una copia da un codice di Montecassino.
Ma gli architetti che, nella prima metà del '400, sentirono il bisogno di rifarsi alle forme della Romanità sembrano ancora ignorare l'opera e i precetti di Vitruvio. La tradizione vitruviana si riaffaccia nei dominî dell'arte soltanto con Leon Battista Alberti, che della teoria e della pratica vitruviana si è giovato a un tempo nella ideazione delle sue opere architettoniche e nella composizione dei suoi trattati. Anche i trattati architettonici di Francesco di Giorgio, del Filarete, di Luca Pacioli, di Francesco Colonna, del Taccola e del Valturio, rivelano tutti a chiare note l'influenza di V. Col Bramante e con i suoi continuatori, come con tutti gli architetti del '500, l'azione dottrinale e pratica di V. si accresce e si estende: il Palladio, il Serlio, il Vignola, il Bertano, lo Scamozzi si sforzano di strappare al trattato di V. ogni più riposto segreto dell'antica architettura, e ne cavano nuove leggi e nuove norme, arrivando non di rado a un superamento del pensiero stesso dell'autore. Ma se i canoni vitruviani del Vignola, del Palladio e del Serlio fissano le proporzioni o quanto meno il metodo di esse, nelle opere create da questi e dagli altri grandi architetti del '500 il sentimento e l'ispirazione sanno riprendere i loro diritti di fronte alla formula e alla rigida norma, e anche nel ritrovato spirito dell'antica architettura quegli artisti non spezzano mai il contatto con le esigenze proprie all'ambiente storico e artistico del tempo loro.
Il "De Architectura". - Raccogliendo e riassumendo le norme e le notizie che i suoi predecessori avevano tramandate, V. costituì quasi un corpus dell'architettura, per giovare non solo ai professionisti ma anche ai cittadini che volessero curare da loro stessi le proprie costruzioni. Egli dunque fece per l'architettura ciò che più tardi faranno per altri campi Plinio, Frontino, Columella, Balbo, ecc. come i trattati di Frontino, di Columella, di Quintiliano, quello di V. appartiene al genere cosiddetto isagogico, che mira a divulgare i risultati acquisiti alla scienza per mezzo di un'esposizione facile, accessibile ai più e non di rado per domanda e risposta: ed è propria del genere la solenne dedicazione dell'opera. Occorre qui subito precisare che V. dava alla parola architectura un senso più ristretto di quanto oggi essa non abbia, e cioè, al pari di Quintiliano, egli la intese come aedificatio, avente per oggetto la costruzione degli edifici pubblici e privati, escludendo quindi tutte quelle altre opere d'arte (strade, ponti, viadotti, ecc.) che rientrano piuttosto nel campo dell'ingegneria. Nel libro I, dopo la solenne dedicazione ad Augusto, unita a una dichiarazione di riconoscenza per i compensi ricevuti prima da Cesare, poi da Augusto stesso per intercessione di Ottavia, V. tratta dell'architettura in generale, segnando il cammino dell'arte, delineando le qualità necessarie all'architetto e i compiti che deve assolvere, e definendo la natura i limiti e il fondamento dell'architettura, intesa come arte e come scienza; tratta poi delle sue origini dalla fabrica e dalla ratiocinatio, delle parti di cui essa si compone, delle norme che la reggono. L'esame dell'estetica vitruviana ha dato luogo a molti studî (cfr. J. A. Iolles, Vitruvs Ästhetik, Friburgo 1906): importa qui notare che in questa estetica domina il concetto della triade e della decade, razionalismo aritmetico che, nato o perfezionato dalla scuola pitagorica, penetrò poi largamente nelle arti figurative con Policleto e nell'ingegneria militare con Filone. È infine da aggiungere che V., nelle sue divisioni e suddivisioni dell'architettura, ha derivato da Posidonio, per il tramite di Varrone, un sistema che porta chiaro in sé l'impronta della Stoà, e che teneva il campo nell'età alessandrina. E del resto, anche nella pratica costruttiva, il trattato di V., anziché riflettere la nuova architettura di Augusto e di Agrippa, offre il ricordo dei procedimenti che erano in uso e che l'autore stesso aveva applicati nell'ultimo secolo della repubblica. Nel capitolo terzo del libro I, V. divide l'architettura in tre parti: aedificatio, gnomonica e machinatio, e a queste sole parti, come si disse, egli limita la sua opera. Dopo avere distinto nella aedificatio gli edifici privati da quelli pubblici e avere tripartito questi ultimi secondo che servono alla defensio, alla religio e alla opportunitas, V. tratta, sempre nel libro primo, della scelta dei luoghi dove far sorgere le città, della costruzione delle mura e delle torri e della distribuzione delle fabbriche dentro le mura. Nel libro II, dopo avere discorso della prima origine e dello sviluppo delle fabbriche dagli albori dell'umanità (e questo capitolo primo potrebbe considerarsi come il primo rudimentale trattato di paletnologia), egli espone i vari materiali di cui si formano gli edifici, la loro natura e i caratteri delle diverse strutture. Col libro III, cominciando a trattare delle singole fabbriche et de earum symmetriis et proportionibus, prende le mosse dai templi, descrivendone le varie forme, specie ed ordini e le loro strutture, e soffermandosi poi su quelli di ordine ionico. Nel libro IV tratta invece di quelli dorici e corinzî, nonché dei templi rotondi e degli altari degli dei. Col libro V comincia a trattare dei luoghi pubblici e particolarmente del foro, delle basiliche, dell'erario, del carcere, della curia, dei teatri, dei portici, dei bagni, delle palestre e dei porti. Particolarmente importanti sono i capitoli che trattano dei teatri, delle costruzioni marittime e soprattutto delle basiliche, perché queste costruzioni sono state per la prima volta codificate da V., il quale poi avrebbe eretto una basilica in Fano, che egli stesso descrive come un tipo a sé, con sostanziali varianti sul tipo da lui considerato come normale. I capitoli relativi al teatro sono di grandissima importanza, perché su essi si è negli ultimi decennî impostata la grave questione dell'evoluzione del teatro antico rispetto alla scena e al pulpito. (Per quanto riguarda il capitolo dedicato alle fondazioni marittime, cfr. lo studio di Ch. Dubois in Mélanges d'archéol. et d'histoire 1902, fasc. 4-5).
Col libro VI, V. prende a trattare deglì edifici privati, della loro situazione secondo la natura dei luoghi, delle loro parti e delle loro proporzioni, delle case di città e di campagna. Nel libro VII si occupa delle rifiniture atte a dare agli edifici venustatem et firmitatem: ihtonachi, pavimenti, stucchi, marmi, musaici, pitture, a proposito delle quali ci dà un piccolo trattato sull'uso e la preparazione dei colori. Con questo libro VII, il trattato di architettura potrebbe dirsi compiuto. Nel libro VIII si ha una trattazione alquanto incompleta di idraulica, a proposito delle acque, della loro natura, del modo di ritrovarle, di provarle, di condurle e di conservarle. Il IX e il X sono due brevi trattati a sé, l'uno di gnomonica e l'altro di machinatio: a proposito della gnomonica e delle varie specie e cimposizioni degli orologi, V. divaga a sommarie osservazioni di geometria e di astronomia; nel libro X egli si occupa così delle macchine di pace come, soprattutto, di quelle di guerra. Del trattato disgraziatamente mancano per intero le illustrazionì che lo corredavano, e che già nei più antichi manoscritti erano andate perdute: gravissima lacuna che tanto ha contribuito ad aumentare l'oscurità e le difficoltà d'interpretazione del testo.
Edizioni: L'edizione principe del De Architectura è quella apparsa in Roma nel 1486, probabilmente per i tipi dell'Herolt (ma senza indicazioni di data e di luogo), a cura di Giovanni Sulpicio da Veroli e di Pomponio Leto. Contrariamente a quanto fin quasi ad oggi si è creduto, è questa, fra le antiche edizioni, la più attendibile e la più fedele. Seguono l'edizione fiorentina del 1496 e quella veneta del 1497, e, nel 1511, quella veneta di Fra Giocondo, grandemente superiore alle precedenti per bellezza tipografica e accompagnata da ben 140 gustose figure, con le quali l'umanista veronese ha tentato di ricostituire le perdute illustrazioni originarie, ma assai inferiore a quella sulpiciana per fedeltà al testo originario, avendo Fra Giocondo corretto e completato ad arbitrio i passi tiscuri e lacunosi. Tra le edizioni più vicine a noi ricordiamo quelle del Rode (Berlino 1800), della Società Bipontina (Strasburgo 1807), dello Schneider (Lipsia 1807-1808; questa può considerarsi come la prima edizione critica del trattato, riprodotta poi nella collezione Antonelli di Venezia, 1854), dello Stratico (Udine 1825-30), del Marini (Roma 1830), del Lorentzen (Lipsia 1857), di Rose e Müller-Strubing (Lipsia 1867; ripubblicata dal solo Rose nel 1899), del Krohn (Lipsia 1912), dello Choisy (Parigi 1909) e del Granger (Londra 1931).
Fra le traduzioni italiane tiene un posto cospicuo la prima, uscita in Como nel 1521 ad opera di Cesare Cesariano, allievo di Bramante, completata da Benedetto Giovio e Bono Mauro, magnifica per abbondanza di documentazione critica ed esegetica, per correttezza e ricchezza tipografica e per bellezza di figure: la prima edita, ma non la prima eseguita, poiché prima che dal Cesariano Vitruvio fu tradotto da Fabio Calvo (il manoscritto é nella Biblioteca di Monaco) e da Silvano Morosini (il manoscritto è nel codice Ottoboniano 1653 della Vaticana). Tra le altre versioni, oltre quella del 1524, detta del Durantino ma che è una replica di quella del Cesariano, basterà ricordare quelle di G. B. Caporali (incompleta; Perugia 1536), del Barbaro (Venezia 1556, 1567, 1584, 1629, 1854) del Rusconi (Veneiia 1590, 1660, con 160 nuove interessanti figure), del Galiani (Napoli 1758, Siena 1790 e ancora 1832, 1844, 1854), di B. Orsini (Perugia 1802), di L. Amati (Milano 1829-1832), tli Q. Viviani) (Udine 1830-32), di L. Marini (Roma 1836), di Ugo Fleres (Milano 1933)
Delle tante versioni straniere ci limiteremo a ricordare quelle francesi di J. Martin (1547), di L. Perrault (1673), di M. de Bioul (1861), di C. Maufras (1847), di A. Choisy (1909); quelle tedesche di W. Ryff o Rivius (1548), di A. Rode (1796), di F. Reber (1865), di J. Prestel (1912); quelle inglesi di R. Castcll (1730), di. W. Newton (1771), di W. Wilkins (1812), di J. Gwilt (1825), di M. Morgan (1914), di F. Granger (1931); quelle spagnole di M. Urrea (1587), di J. Ortiz y Sanz (1787); quella polacca di E. Raczynskiego (1840); quella danese di J. L. Ussing (1914).
Bibl.: I. Poleni, Exercitationes vitruvianae, I-III, Padova 1739-41; V. Mortet, Recherches critiques sur V. et son oeuvre, in Rev. archéol., 1902-07; L. Sontheimer, V. und seine Zeit, Tubinga 1908; A. Birnbaum, V. und die griech. Architektur, Vienna 1914; B. Ebhardt, Die Zehn Bücher d. Architektur, Berlino 1916; W. Sackur, V. Technik und des V. Literatur, ivi s. a.; F. Pellati, V. e la fortuna del suo trattato nel mondo antico, in Riv. di filologia, XLIX (1921), p. 305 segg.; id., V. nel Rinascimento, in Boll. del R. Ist. di arch. e st. dell'arte, IV-VI (1932); id., Nuovi elementi per la dataz. del trattato di V., in Atti del III Congr. Naz. di studi rom., Bologna 1935; C. Watzinger, Studien zu V., in Rhein. Museum, II (1909); G. K. Lukomski, I maestri dell'architett. classica, Milano 1933; M. Borissalievitch, Les théories de l'architecture, Parigi 1926.