Abstract
Il processo penale può essere fonte di grave pregiudizio per l’imputato. In caso di assoluzione il principio di solidarietà (art. 2 Cost.) impone di individuare strumenti riparatori dei danni da processo.
Prendendo l’avvio dalle nozioni atecniche di ‘colpevole’ e di ‘innocente’, è sorta l’idea di verificare quale tutela l’ordinamento assicuri a colui che il sistema processuale ha riconosciuto – a vario titolo – estraneo alla vicenda processuale. Inoltre, riflettendo sul fatto che il processo penale, anche a prescindere dal suo esito e considerando anche le sue vicende ‘interne’, ha sicuramente ricadute fortemente negative sotto una varietà di profili, si è pensato di considerare quello che può essere definito come il danno da attività giudiziaria lecita.
Si è, così, pensato di verificare la condizione di colui che può essere in termini plastici definito come ‘la vittima del processo’.
Il riferimento, cioè, non vuole affrontare la questione della responsabilità del giudice, sotto le sue diverse declinazioni, ma la possibilità che l’ordinamento risarcisca, indennizzi, ripari, tuteli l’indagato e l’imputato che risulti aver subito un pregiudizio – ingiusto o illegale – dal processo per effetto di una attività processuale condotta nel rispetto delle regole.
Il dato non può naturalmente escludere del tutto anche le situazioni conseguenti alla violazione delle norme nella misura in cui siano autonomamente valutabili e non siano già rifluite nel favorevole esito del processo.
Va subito sottolineato che nel codice di procedura penale – e nella legislazione ordinaria – non mancano alcuni strumenti destinati, in attuazione a quanto previsto dall’art. 24, co. 4, Cost., a tutelare il soggetto vittima di alcuni esiti processuali e procedurali: il riferimento va alla riparazione per ingiusta detenzione (artt. 314 – 315 c.p.p.) ed alla riparazione dell’errore giudiziario (artt. 643 – 647 c.p.p.), nonché alla condanna a favore dell’imputato del querelante in relazione delle sue colpevoli iniziative processuali (artt. 427 e 542 c.p.p.).
Devono ritenersi, invece, estranee al perimetro qui tracciato quelle previsioni endoprocedimentali seppur finalizzate a tutelare, anche significativamente, particolari condizioni soggettive, come quelle relative ai soggetti deboli, ai minori, e come quelle che tengono conto di variegate esigenze personali (arresti domiciliari, tenuità del fatto).
La riflessione non può prescindere dal riferimento al principio di solidarietà (art. 2) e alle ulteriori potenzialità della previsione di cui all’art. 24 Cost. al fine di assicurare una copertura alla ‘vittima del processo’ che peraltro trova riferimenti anche a livello sovranazionale come è chiaramente emerso nella vicenda delle condizioni disumane e degradanti della condizione penitenziaria dei ristretti nelle carceri italiane.
Sono sicuramente, quindi, molteplici gli aspetti che potrebbero essere considerati ma uno si impone su tutti gli altri.
Pur nella consapevolezza che un reato è stato commesso – oppure potrebbe essere stato commesso – il processo penale dovrebbe essere uno strumento di accertamento per verificare altresì se una persona ne sia oppure non ne sia responsabile.
Il diritto penale serve a definire non solo ciò che è illecito, ma anche a delineare ciò che è lecito. Il processo penale serve a stabilire se una persona possa aver commesso un fatto illecito ovvero se non lo abbia commesso. Le due questioni inoltre si compongono nelle loro variabili.
Il processo penale, né per chi sarà dichiarato colpevole, che tale sarà solo con la sentenza definitiva, né per chi sarà dichiarato innocente, non dovrebbe implicare una ‘sofferenza’, al di là di ciò che non sia ineludibile per il solo fatto in sé del processo, e non sia strettamente conseguenza di questo dato che inevitabilmente ha molteplici implicazioni. Come già più volte indicato, non è necessario un grande clamore attorno alla vicenda. Come riconosciuto dalla Cassazione, anche l’iscrizione nel registro delle notizie di reato, ancorché configurabile come atto dovuto, può determinare un danno nei confronti di un pubblico ufficiale, risarcibile da chi ha segnalato il fatto (Cass., sez. VI, 8.2.2016, n. 4973, M.A.). Si tratta spesso di una linea molto sottile di demarcazione tra il minor sacrificio possibile ed il suo superamento variamente motivato.
Ciò posto, spesso si superano i limiti di questa zona grigia, di questa terra di nessuno, come nel caso dell’esercizio dell’azione penale per un reato prescritto: Cass. pen., S.U., 11.3.2013 – 12.2.2012, n. 5948, I.G. Anche se l’esito del processo, per alcune situazioni potrebbe far ritenere giustificati questi ‘sconfinamenti’ – ma il dato appare controverso e controvertibile, e comunque precisabile in relazione alla diversità dei profili coinvolti – un ragionamento omologo non può essere sviluppato per colui che sarà riconosciuto estraneo ai fatti oggetto di accertamento.
Indubbiamente sono molte le situazioni di ‘pregiudizio’ alle quali un soggetto sottoposto a processo penale (imputato e indagato) va incontro prima della sentenza irrevocabile, al di là del fatto ‘in se’ della sottoposizione al giudizio penale (misure cautelari coercitive e interdittive; sequestri cautelari e probatori; richieste risarcitorie e provvisionali; sospensioni o perdite del lavoro; procedimenti disciplinari; diffusione di atti probatori non pertinenti o irrilevanti; ricadute politiche; immagine pubblica e privata deturpata o sfregiata).
Alcune di queste situazioni si correlano alle decisioni ‘intermedie’, assunte nei vari gradi di giudizio. A queste ‘patologie’, in qualche modo fisiologiche, ma a volte patologiche, sono assicurati dall’ordinamento alcuni rimedi e si può ipotizzare di assicurarne altri, così da ridurre ‘i danni’ che dovessero essersi determinati. Appare, tuttavia, ancora più necessario ristorare il soggetto nell’eventualità in cui l’esito processuale si risolva favorevolmente.
Anche in questo caso, alcuni strumenti di tutela sono ipotizzabili. Il panorama va sicuramente integrato con significative previsioni normative, capaci di superare i meri riferimenti a profili deontologici dei diversi attori delle vicende giudiziarie (p.g., p.m., giudici) e degli operatori dell’informazione, che seppur necessari non possono essere risolutivi.
La consapevolezza del problema e del suo impatto sociale – accentuatosi in seguito ad esiti processuali che hanno interessato la ‘politica’ – ha spinto il legislatore, rectius, alcuni parlamentari a predisporre una norma che assicuri tutela al soggetto prosciolto.
Tuttavia, i citati episodi, succedutisi in rapida sequenza, non hanno non potuto evidenziare una situazione ‘abnorme’. Non è la sede per sviluppare in questa occasione critiche agli investigatori, ai pubblici accusatori (dapprima zelanti e rigorosi, dopo impossibilitati ad indagare per tutti gli inquisiti raggiunti magari soltanto da soglie marginali di responsabilità), ovvero alla diversa valutazione dei fatti da parte dei giudici, anche alla luce dell’apporto della difesa. Certo è che l’enfatizzazione ‘mediatica’ (inevitabile in vicende di questa natura) ha danneggiato questi soggetti, alcuni dei quali hanno dovuto abbandonare la scena politica conquistata con il sostegno elettorale, altri hanno visto la loro immagine professionale deturpata, altri ancora la vita devastata. Peraltro, in vicende come queste – anche per effetto del fuoco sia nemico, sia amico – l’informazione – corretta o distorta – è inevitabile.
Va subito detto – per evitare inutili equivoci – che il discorso non muta se non in termini ‘quantitativi’ e non qualitativi, se il soggetto sia un ‘privato’ cittadino.
Si è così previsto di introdurre nell’art. 530, dopo il comma 2, un comma 2-bis così formulato: «se il fatto non sussiste, se l’imputato non lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice, nel pronunciare la sentenza, condanna lo Stato a rimborsare tutte le spese di giudizio, che sono contestualmente liquidate. Se ricorrono giusti motivi il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti. Nel caso di dolo o di colpa grave da parte del pubblico ministero che ha esercitato l’azione penale, lo Stato può rivalersi per il rimborso delle spese sullo stesso magistrato che ha esercitato l’azione penale».
La previsione suscita non poche perplessità. Invero, in primo luogo, va tenuto conto – peraltro positivamente – che la decisione verrebbe pronunciata dal giudice al termine di ogni singola fase, ma – negativamente – che la decisione sarebbe suscettibile non solo di impugnazione (non è previsto peraltro chi ne sia legittimato) ma anche ad essere travolta o modificata dalla decisione successiva se dovesse essere negativa o parzialmente negativa per l’imputato, ovvero modificata o aggravata se conseguente al gravame (rigettato) dal p.m. Inoltre, in secondo luogo, suscita riserve il conferimento al giudice del procedimento di un potere – non meglio definito – di compensazione. Infine, la previsione inserisce un profilo che appare estraneo al tema, come quello della rivalsa delle spese sul pubblico ministero che è ancorata alla presenza di dolo o colpa grave da parte della procura.
Una diversa soluzione potrebbe essere quella di applicare – al caso qui considerato – i moduli procedurali della riparazione per l’errore giudiziario e per l’ingiusta detenzione. Si potrebbe così prevedere che l’assolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non ha commesso il fatto – salvo estendere il diritto pure al prosciolto – anche se condannato nei gradi precedenti, ha diritto alla rifusione di quanto sostenuto per l’esercizio del diritto di difesa. Si tratterebbe di qualcosa di più ampio rispetto alla sole spese dell’avvocato, ricomprendendosi pure quelle della consulenza o delle indagini private. In luogo della rifusione potrebbero essere previste detrazioni fiscali, anche spalmate in più anni.
Naturalmente, lo stesso diritto spetterebbe, sulla base degli stessi esiti processuali, al soggetto prosciolto con sentenza di non luogo, non più soggetta ad impugnazione e al soggetto nei cui confronti sia stato disposto il provvedimento di archiviazione. In caso di morte dell’imputato dopo la decisione favorevole, il diritto spetterebbe agli eredi. Dal punto di vista procedurale, come anticipato, potrebbero trovare operatività le disposizioni di cui agli artt. 643-647 c.p.p. nei limiti delle compatibilità.
Ci si potrebbe chiedere la ragione del ricorso a questa procedura in presenza di un possibile meccanismo sostanzialmente ‘automatico’ di rifusione. Andrebbe considerato che il richiamo si renda necessario sia per il riferimento ad un più ampio orizzonte relativo alle attività inerenti all’esercizio del diritto di difesa, suscettibile di andare oltre la sola ‘parcella’ del legale, nonché per prevedere – da subito – uno strumento processuale attraverso il quale canalizzare anche la possibile corresponsione di risarcimenti o indennizzi per gli ulteriori ‘danni da processo’.
Il meccanismo, inoltre, potrebbe rendersi necessario – anche in questo caso – per escludere le eventuali situazioni connesse ad atteggiamenti dolosi o gravemente colposi dell’assolto (o del prosciolto o archiviato), ove ritenute necessarie in relazione a possibili patologie intervenute nella procedura di accertamento dei fatti e della responsabilità.
Il sistema dovrebbe, altresì, prevedere la creazione di un fondo di solidarietà, di agevolazioni fiscali e di credito per l’avvio di attività commerciali, nonché priorità nelle assunzioni e nelle varie graduatorie della rete assistenziale.
Si tratta di proposte ‘aperte’ al confronto delle varie opinioni e sensibilità. L’importante è porre un problema di solidarietà, che nasca dal riconoscimento d’una questione seria e fondata che può coinvolgere ognuno di noi. Può non essere inopportuno ricordare che l’art. 4 della l. 20.11.2006, n. 281 di conversione del d.l. 22.9.2006, n. 259 dello stesso anno ha previsto una riparazione – non simbolica – in caso di atti e documenti di cui al comma 2 dell’art. 240 c.p.p. relativamente alle intercettazioni illegalmente fornite o acquisite.
Resta confermato che il maggior contributo alle patologie più volte segnalate sconta la professionalità e l’integrità dei soggetti pubblici chiamati a gestire quella delicata funzione che è il processo penale, evitando che da mezzo, diventi il fine.
Fonti normative
Artt. 2 e 24 Cost.; artt. 240, 314 – 315, 643 – 647, 427 e 542 c.p.p.; l. 20.11.2006, n. 281.
Bibliografia essenziale
Spangher, G., La vittima del processo. I danni da attività processuale penale, 2017, Torino.