SORANZO, Vittore
– Figlio primogenito del patrizio Alvise (di Vittore di Giovanni) e di Lucia Cappello, nacque a Venezia, nella contrada di San Moisè (sestiere di San Marco), nei primi anni del Cinquecento, secondo l’argomentata ipotesi di Massimo Firpo (2006, p. 23), il quale ha rilevato che sia Vittore sia il fratello secondogenito Girolamo non compaiono nel Libro d’oro nascite, istituito a Venezia nel 1506, nel quale furono invece regolarmente registrati i loro fratelli minori: il terzogenito Benetto, nato nel 1508, Giovanni e Francesco. Vittore ebbe anche due sorelle, una legittima, Isabetta, che sposò Alvise Bembo, cugino del celebre letterato Pietro Bembo; mentre l’altra sorella Cecilia, illegittima, sposò Anzolo Malipero.
Il casato dei Soranzo figurava tra i più illustri della nobiltà veneziana e anche il ramo di Vittore poteva contare su parentele importanti (lo zio Giovanni aveva sposato una Caterina Cornaro, nipote dell’omonima regina di Cipro), e su entrate relativamente consistenti. Il padre Alvise presentò nel 1514-15 la dichiarazione di decima da cui emerge che la famiglia possedeva, oltre a case e terreni edificabili a Venezia, varie possessioni in terraferma, a Sant’Andrea e Treville presso Castelfranco, le cui rendite erano però scemate a causa delle guerre. Nel corso della sua giovinezza Vittore si lamentò ripetutamente dell’avarizia del padre, che però doveva curare gli interessi di tutti i figli a causa del sistema successorio veneziano, basato sulla divisione dell’eredità in parti eguali fra i figli maschi. Si pose quindi presto per Soranzo il problema della scelta di una carriera che gli fornisse entrate supplementari.
Non siamo informati sui primi studi, compiuti probabilmente con precettori privati. A partire dal 1520 è documentata la sua presenza a Padova, dove coltivò, accanto agli studi giuridici mai completati, quelli filosofici e letterari. In quella sede conobbe personaggi di cui in seguito avrebbe condiviso le inquietudini religiose, come Giovanni Morone e altri. Ma veramente decisivo fu, in quegli anni, l’incontro con Pietro Bembo e Trifone Gabriele, sotto la cui guida Soranzo si avviò verso la pratica letteraria in volgare, avendo come compagni di studi Alvise Priuli, Iacopo Bonfadio, Apollonio Merenda. Bembo apprezzò i suoi sonetti ed ebbe a definirlo «così gentile e costumato giovane e dato alle buone lettere e buone arti, e di singolare ingegno» (Bembo, 1990, II, p. 431); cercò anche di aiutarlo nella gestione di qualche rendita ecclesiastica. Soranzo aveva infatti ottenuto nel 1519 la tesoreria del Capitolo di Verona, su presentazione del canonico veronese Giovanni Emigli. Era però insorta una disputa legale con Emigli sulla spartizione dei frutti, e il canonico aveva vinto una causa a Roma nel 1525. Nel 1527 Bembo insistette per un accordo amichevole tra le parti.
Un’occasione importante di promozione sociale fu rappresentata per Soranzo dal celebre viaggio di papa Clemente VII a Bologna nel 1529-30, culminato nell’incoronazione di Carlo V. Presente a Bologna dall’ottobre del 1529, egli poté informare la famiglia e i veneziani su quei grandi avvenimenti e ottenne, certamente per l’intercessione di Bembo, la nomina a cameriere segreto del pontefice.
Soranzo arrivò a Roma nell’aprile del 1530. Oltre a espletare i suoi compiti ufficiali, che lo ponevano a diretto contatto con il papa, egli doveva curare gli interessi curiali dei Bembo: trovò comunque il tempo di visitare le antichità romane, incontrare letterati ed eruditi e comporre sonetti, che sottopose al giudizio del maestro. Anche la sua situazione economica parve migliorare, quando nel 1533 ottenne una nuova rendita ecclesiastica, la commenda del priorato di Sant’Antonio abate a Brescia.
Dal settembre al novembre del 1533 accompagnò Clemente VII nel suo viaggio a Marsiglia per incontrare Francesco I, rientrando a Roma (dopo una tappa veneziana) nel gennaio del 1534. Accanto a questa missione, nel suo carteggio con Bembo sono ricordati altri fra i maggiori problemi diplomatici del tempo, come la questione luterana e le trattative per il concilio; ma non si può dire che in questo periodo i temi religiosi si collochino al centro degli interessi di Soranzo; pure se risalgono a questo periodo incontri importanti, come quello con il fiorentino Pietro Carnesecchi, segretario del papa dal settembre del 1533, e con Juan de Valdés, a proposito del quale, però, egli ebbe poi a dichiarare davanti al S. Uffizio che «a Roma non sapevo che attendesse al studio delle lettere sacre, ma solo lo cognoscevo per cortigiano modesto et ben creato» (Firpo - Pagano, 2004, II, p. 143). Più tardi, ripensando alla propria vita di quegli anni, Soranzo si descrisse come «cortesano et allevato dalli primi anni nelli studii di humanità, [...] più immerso nel mondo che nell’altre cose» (ibid., I, p. 330).
Con la morte di Clemente VII, nel settembre del 1534, si concluse il primo soggiorno di Soranzo alla corte di Roma. Non avendo nulla da sperare dal nuovo pontefice Paolo III, rientrò nella Repubblica di Venezia alla fine di quell’anno. Dimorando più spesso a Padova, ma anche a Venezia, a Brescia e nella sua villa presso Castelfranco, poté così tornare a incontrare, oltre a Bembo, i vecchi amici Alvise Priuli e Ludovico Beccadelli, e con loro il giovane Cosimo Gheri, vescovo di Fano. Ebbe anche modo di incontrare a Treville, presso Priuli, il cardinale Reginald Pole (Querini, 1745, pp. CLXXXIII-CLXXXV). Ma la svolta della sua vita coincise con la nomina di Bembo a cardinale, decisa nel dicembre del 1538 e resa pubblica nel 1539. Si aprì allora per Soranzo la possibilità di un secondo soggiorno in Curia: giunto a Roma nell’ottobre del 1539, funse da maestro di casa di Bembo, avendo però davanti a sé più lusinghiere prospettive di carriera, data la stima in cui era tenuto dal neocardinale.
Secondo la testimonianza del gesuita Alfonso Salmerón, si intensificarono in quel periodo le frequentazioni da parte di Soranzo di uomini e ambienti che il tribunale del S. Uffizio avrebbe più tardi condannato come eterodossi (Firpo - Pagano, 2004, I, pp. 112 s.). Lo stesso Soranzo avrebbe poi ammesso i propri incontri napoletani con Valdés e il fatto di aver ricevuto e diffuso suoi scritti (pp. 333 s.). Il viaggio a Napoli, ricordato da Pietro Carnesecchi che accompagnò Soranzo, dovette svolgersi agli inizi del 1540 e offrì l’occasione di ascoltare anche la predicazione quaresimale di fra Bernardino Ochino. Soranzo divenne allora una dei più convinti discepoli di Valdés, accanto a Marcantonio Flaminio e a Giulia Gonzaga (ibid., I, p. 29) e fu in seguito accusato di avere introdotto alle nuove dottrine anche il vescovo di Cava dei Tirreni Giovanni Tommaso Sanfelice, che già aveva conosciuto a Roma.
Ma nel 1541-42, dopo la morte di Valdés, l’attenzione di Soranzo e Carnesecchi si volse verso il nuovo circolo che si stava allora formando, a Viterbo, attorno al cardinale Reginald Pole, legato del Patrimonio. Soranzo frequentò, nel tempo concessogli dal servizio presso Bembo, quegli incontri in cui si leggeva la Bibbia e si discuteva sulla dottrina della giustificazione, presenti, oltre al cardinale e a Flaminio, Donato Rullo e Apollonio Merenda. Era loro vicina Vittoria Colonna, ospitata in un monastero viterbese, e il gruppo si teneva in contatto con i valdesiani di Napoli, a cominciare da Giulia Gonzaga.
Soranzo, che aveva interamente aderito alle dottrine di questi ‘spirituali’, continuò a frequentarli anche a Roma negli anni seguenti: il 19 aprile 1544, scrivendo all’eterodosso bolognese Giovan Battista Scotti, si rallegrò con i compagni di fede residenti a Bologna, avendo appreso che stava per essere inviato loro come legato il cardinale Giovanni Morone, anch’egli conquistato alle idee di Pole e Flaminio. Le sue convinzioni religiose furono altresì alimentate dalla lettura delle opere di Valdés, e inoltre del Beneficio di Cristo, del Sommario della Sacra Scrittura, del Pasquino in estasi di Celio Secondo Curione, della Tragedia del libero arbitrio di Francesco Negri, e ancora delle opere di Martino Lutero, Filippo Melantone, Martin Butzer e Ochino. Nel 1548-49 Soranzo avrebbe prestato all’agostiniano Giuliano Brigantino o Giuliano del Colle la copia in suo possesso della Institutio Christiane religionis di Giovanni Calvino.
Quando Bembo fu nominato da Paolo III vescovo di Bergamo (18 febbraio 1544), il dotto cardinale, che apprezzava il crescente impegno religioso di Soranzo, lo fece designare nel concistoro del 12 luglio come proprio coadiutore con diritto di successione. Divenuto vescovo di Bergamo dopo la morte di Bembo nel gennaio del 1547, Soranzo si distinse – sul modello del vescovo di Verona Giberti – per l’assidua residenza nella diocesi e per l’intensa attività di visita e di predicazione. Prese anche parte, tra il febbraio e l’aprile del 1547, al dibattito svoltosi al Concilio di Trento intorno alla Sacra Scrittura, proponendo che le tradizioni apostoliche non fossero poste sullo stesso piano della Scrittura. Ma sia su questo punto, sia ancor prima sul cruciale tema della dottrina della giustificazione, il Concilio, dove pure il cardinale Pole faceva parte del collegio dei legati, si era pronunciato in maniera del tutto discordante rispetto alle convinzioni di Soranzo.
Intanto, a Bergamo la sua attività pastorale aveva raccolto significative adesioni da parte delle autorità cittadine e dei rettori veneti, ma anche le forti critiche di una parte del clero e dei fedeli, che si manifestarono clamorosamente nel 1548 con l’esposizione di libelli contro il vescovo nei luoghi pubblici della città. Infatti, Soranzo si era impegnato in un sistematico tentativo di applicazione pratica delle nuove dottrine religiose, cercando di giustificare i propri interventi con le esigenze della lotta, da più parti auspicata, contro gli abusi del clero e le credenze superstiziose dei fedeli.
Non a caso, le più gravi accuse che gli furono rivolte riguardarono gli spinosi problemi della pietà popolare. Gli interventi disciplinari del vescovo intorno al culto di alcuni santi particolarmente venerati a Bergamo, come il protovescovo s. Narno, suscitarono stupore e proteste; la proibizione, analogamente motivata, di mediocri libretti di devozione fu accompagnata dalla diffusione di libri già sospetti, come il Beneficio di Cristo; si osservò in generale che il vescovo sceglieva per la predicazione frati già noti per la loro adesione alle dottrine degli spirituali, mentre allontanava i predicatori che insistevano sulla necessità delle opere per la salvezza. Analogamente, nella nomina dei parroci, colpì il suo favore per sacerdoti sospetti di eresia, come don Omobono Asperti da Cremona. Aderivano a dottrine eterodosse anche i più stretti collaboratori di Soranzo: il suo vicario, Carlo Franchino, detto lo Spoletino, il segretario Cesare Flaminio (nipote di Marcantonio), il maestro di casa Pasino Ferrari da Carpenedolo e il suo confessore, don Parisotto Faceti, sposatosi clandestinamente con una monaca e molto blandamente punito da Soranzo. Anche i frequenti interventi nei monasteri femminili per regolarne la disciplina e le pratiche di pietà suscitarono scandalo, sopratutto per l’intensa azione di propaganda religiosa compiuta dal vescovo.
Il mancato adeguamento di Soranzo alle decisioni dottrinali del Concilio di Trento, i suoi ricorrenti conflitti con esponenti del clero, i sospetti di eresia diffusisi sul suo conto anche oltre i confini della Repubblica veneta e l’opinione negativa sulla sua ortodossia concepita da autorevoli ecclesiastici, come i gesuiti Diego Laínez e Salmerón e il commissario inquisitoriale Annibale Gisonio indussero la congregazione del S. Uffizio ad aprire un’inchiesta sul suo conto: decisione alla cui tempistica non fu estraneo il viaggio romano dell’inquisitore di Bergamo, Domenico Adelasio, nella primavera del 1550.
Una lettera della Sacra Congregazione del 23 luglio 1550 impose ad Adelasio l’avvio di un processo informativo. L’inquisitore raccolse e verbalizzò fra il 28 agosto e il 19 dicembre una trentina di deposizioni, inviate a Roma tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio del 1551. Ma già la Repubblica di Venezia si era mobilitata per cercare di proteggere Soranzo: l’ambasciatore Matteo Dandolo concordò con papa Giulio III che il vescovo si sarebbe recato a Roma come per un’ordinaria visita ad limina: sarebbe stato ricevuto dal papa e gli avrebbe reso conto delle proprie opinioni religiose. Tuttavia, l’effettiva libertà di manovra del papa in materia inquisitoriale era condizionata da una fortissima resistenza dei cardinali del S. Uffizio. A causa del rilevante materiale probatorio già raccolto, quando Soranzo si portò a Roma nel febbraio del 1551 la sua causa volse rapidamente al peggio: il 24 marzo, presente il pontefice, la congregazione del S. Uffizio decretò il suo arresto e la detenzione in Castel Sant’Angelo.
Giulio III non rinunciò però alla sua posizione di mediatore: informò il governo veneziano sui capi d’accusa contro Soranzo e impose al S. Uffizio che i costituti dell’imputato venissero raccolti da Girolamo Muzzarelli, maestro del Sacro Palazzo, e dal vescovo di Penne Lionello Cibo, considerati meno ostili a Soranzo rispetto ai più stretti collaboratori dei cardinali Gianpietro Carafa e Juan Álvarez de Toledo. Alla metà di maggio, quando già Soranzo aveva redatto una prima risposta ai capi d’accusa, la Confessio, in cui ammetteva alcune incertezze dottrinali ma respingeva la maggior parte delle accuse come calunnie, gli fu contestato il continuato possesso di un gran numero di libri proibiti, che erano stati sepolti – per suo ordine – in due casse nel terreno di un contadino bergamasco, ma erano stati ritrovati dallo zelante commissario del S. Uffizio fra Michele Ghislieri (il futuro Pio V), incaricato di una delicata missione a Bergamo fin dall’aprile di quell’anno.
A ciò si aggiunsero nuove imbarazzanti deposizioni di collaboratori e corrispondenti di Soranzo finiti anch’essi sotto processo, come Pasino da Carpenedolo, Carlo Franchino, Cesare Flaminio, Giuliano Brigantino del Colle, Apollonio Merenda, e di delatori come Giovan Battista Scotti. Il 20 maggio 1551 l’ambasciatore veneto Niccolò da Ponte dovette avvisare la Serenissima che il vescovo si era appellato alla clemenza di Giulio III, vedendo che la sua posizione era ormai indifendibile. Soranzo fu obbligato a una seconda Confessio al pontefice, il 26 maggio, in cui ammise di aver perseverato nei suoi errori anche dopo la nomina episcopale. Frattanto, a Bergamo, si era consumato un duro scontro fra i rettori veneti e fra Michele Ghislieri, accusato di aver proceduto arbitrariamente nell’inchiesta contro Soranzo e precipitosamente rientrato a Roma, dopo che gli erano state rivolte gravi minacce. Finalmente, il 28 giugno Soranzo redasse una terza Confessio (Firpo - Pagano, 2004, I, pp. 391-393) in cui riconobbe di avere errato su varie materie: vi si poteva leggere, come ha osservato Massimo Firpo (2006), «un compiuto catalogo di eresie sull’autorità della Chiesa e del papa, il purgatorio, il celibato ecclesiastico, i miracoli, l’invocazione dei santi, il culto delle immagini, le indulgenze, la giustificazione [...], il valore meritorio delle opere, la certezza della grazia, i sacramenti, le messe per i defunti, la transustanziazione» (p. 462). Queste ammissioni, subito integrate da una quarta e da una quinta Confessio, aprirono la strada all’abiura, pronunciata il 9 settembre 1551 davanti al papa e ai cardinali inquisitori. A Soranzo fu ingiunto di recarsi a Padova e di risedervi per un tempo imprecisato. Fu quindi sospeso, ma non privato del vescovado di Bergamo: gli fu affiancato come vescovo suffraganeo il domenicano Tommaso Stella, vescovo di Capodistria, che però non si recò mai a Bergamo, perché gli subentrò, con il titolo di vicario, Niccolò Durante da Camerino, nominato da Giulio III il 22 giugno 1552.
Una volta rientrato nel Dominio veneto, Soranzo condusse vita molto ritirata; nel 1552 il vescovo di Trieste Antonio Paragües Castillejo trasmise alla nunziatura di Venezia una relazione favorevole circa il suo totale ravvedimento. Nel 1553 Soranzo si impegnò a comporre i contrasti economici tra i fratelli, che avevano portato la ‘fraterna’ dei Soranzo sull’orlo della divisione. Finalmente, con due brevi del febbraio-maggio del 1554, Giulio III lo restituì al governo della sua diocesi, affiancandogli però come coadiutore e vicario il bergamasco Giulio Agresti. Soranzo si recò quindi a Bergamo nel 1555 e vi compì una visita pastorale.
Ma dopo l’elezione di Paolo IV Carafa in quello stesso anno, l’attenzione ostile dell’Inquisizione si rivolse nuovamente al vescovo di Bergamo, nel contesto di un vasto disegno repressivo volto a colpire principalmente i cardinali Morone e Pole (i cui legami con Soranzo non erano stati approfonditi nel processo del 1550-51, non certo per carenza di documentazione, ma per i limiti allora posti da Giulio III alle indagini del S. Uffizio). Si cominciò con il colpire il vicario Giulio Agosti, citato a Roma il 20 dicembre 1555, scomunicato e sollevato dall’incarico il 7 maggio 1556 e immediatamente sostituito da un ecclesiastico di fiducia dell’Inquisizione, Giovan Battista Brugnatelli. Frattanto, il 6 maggio 1557 era stato indirizzato a Soranzo il breve che gli intimava di presentarsi a Roma. La Serenissima, tramite l’ambasciatore Bernardo Navagero, procurò a Soranzo prolungate proroghe (anche perché il vescovo era veramente in pessime condizioni di salute). Ma Paolo IV volle a tutti i costi venire alla sentenza di scomunica e privazione della diocesi, pronunciata finalmente il 20 aprile 1558.
Morì a Venezia il 15 maggio 1558. Nel settembre del 1554 aveva redatto un testamento che implicitamente ribadiva le sue convinzioni eterodosse sulla dottrina della giustificazione.
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