COLONNA, Vittoria
COLONNA, Vittoria. - Nacque a Marino nell'anno 1490 da Fabrizio e Agnese di Montefeltro, figlia di Federico, duca di Urbino. Fabrizio, allora il maggiore rappresentante della potente famiglia romana, aveva partecipato con Carlo VIII alla conquista del Regno di Napoli ma poi, per l'ingratitudine del re, era passato con gli Aragonesi. A sancire questo spostamento di campo i Colonna cercano l'alleanza della famiglia Avalos, partigiana degli Spagnoli e, a soli sette anni, la C. è fidanzata con Ferdinando (Ferrante) Francesco d'Avalos, marchese di Pescara. Quando nel 1501 il generale francese Aubigny saccheggia le terre dei Colonna e papa Alessandro VI Borgia, dopo il patto filofrancese, decide la confisca dei loro possedimenti, la famiglia della C. si trovava ad Ischia, presso gli Avalos, dove soggiornerà a lungo.
Il 27 dic. 1509, la diciannovenne C. si sposa con l'Avalos, con grandi, sontuosi festeggiamenti presso la zia di questo, Costanza d'Avalos. Ma la vita coniugale è presto interrotta dalla vocazione guerriera di Ferrante: nel 1511 è promossa, da Giulio II, una lega antifrancese, cui aderisce il re di Napoli. Fabrizio Colonna, con il Pescara, si arma contro i Francesi e tutti e due partecipano alla rotta di Ravenna, del 1512, cadendo entrambi prigionieri. A questa circostanza è legato uno dei primi componimenti poetici della C. che si conoscano, l'Epistola in versi, in cui per la prima volta troviamo il tema, tipico, del compianto per l'amato lontano. Ferrante, prigioniero, è portato prima a Ferrara, poi a Milano dove è liberato grazie a Gian Giacomo Trivulzio, suo parente.
Durante questi anni la C., ossessivamente legata all'immagine eroica del marito, frequenta le occasioni mondane della corte aragonese, ed i circoli culturali di Napoli e di Ischia: conosce Sannazaro, Cariteo, Galeazzo di Tarsia, che le testimonia ripetutamente, nelle lettere, la propria devozione, Britonio e Capanio.
Nel 1516 inizia una serie di lutti familiari che graveranno la già accesa sensibilità della C.: muore il fratello minore Federico; farà seguito, nel '20, la morte del padre e, nel '22, quella della madre, la cinquantenne Agnese.
La C. comincia a lasciare la familiare corte di Ischia: nel '20 è a Roma, per rendere omaggio a papa Leone X che aveva creato cardinale suo cugino Pompeo Colonna. A Roma conosce Castiglione, Pietro Bembo e Iacopo Sadoleto, allora segretari di Leone X. Intanto ad Ischia la C. provvedeva all'educazione dei giovane Alfonso del Vasto, cugino di Ferrante, che ella aveva deciso di allevare come fosse suo figlio, non potendo averne di propri.
Nel 1521 riprendono le ostilità tra Carlo V e Francesco I; per il Pescara è il momento dell'apice della sua gloria. Richiesto personalmente da Carlo V, parte per la Lombardia con Alfonso del Vasto per unirsi agli Imperiali e partecipa a vari fatti d'armi fino a guidare l'esercito contro i Francesi nella vittoriosa battaglia di Pavia, nel 1525. La C. è nell'isola di Ischia: il 26 marzo del 1525, da Madrid, le scrive Carlo V per elogiare il comportamento del marito e la fedeltà di entrambi all'imperatore. La C. risponde, il 1o maggio da Ischia, affermando di aver riportato una vittoria su se stessa, per non aver cercato di impedire al marito di partire per la guerra.
Nell'estate del '25 la C. è a Marino, nel castello paterno: il clima è nocivo alla sua salute e presto si ammala di febbre, di cui soffrirà anche in seguito, costantemente. Ha con sé, in questo periodo, una copia manoscritta del Cortegiano che Castiglione le aveva inviato in visione, forse tramite il Bembo, dopo averlo annunciato in una lettera del 21 marzo '25, in cui afferma che l'idea dell'opera gli era stata suggerita dalla C. stessa. Castiglione scrive il 21 settembre, lamentandosi per aver saputo che la C. aveva fatto circolare, contro la volontà dell'autore, la copia del libro a Napoli, facendone addirittura trascrivere una parte del testo. Questa circostanza avrebbe spinto Castiglione ad affrettare la pubblicazione del libro.
Nel novembre '25, il Pescara si ammala a Milano: per un peggioramento delle ferite riportate a Pavia, ma forse anche vittima di un avvelenamento, esito di una congiura simile a quella che lui stesso aveva fatto sventare. La C. si muove da Roma per raggiungerlo, ma viene fermata sulla strada, a Viterbo, dalla notizia della morte di Ferrante, il 3 dicembre. È un avvenimento che trasformerà completamente la vita di lei; la prima reazione è la decisione di entrare in convento, non attuata solo per l'immediata opposizione del fratello Ascanio, l'unico dei parenti rimastole, che ben conosceva quanto fosse utile alla propria famiglia il crescente prestigio della C., e del papa Clemente VII che le scrive ricordando l'utilità di una vita esemplare cristiana vissuta al di fuori del convento. Alla C. si riconosce il governo di Benevento, lasciatole dal Pescara, cui era stato affidato da Clemente VII, quando questi era partito per la guerra.
In questi anni i rapporti tra i Colonnesi e il papa via via divengono molto tesi, a causa dell'insofferenza dei primi, a cominciare da Ascanio, all'obbedienza verso il pontefice, fino ad arrivare all'aperto conflitto. La C. scrive ripetutamente al datario Giberti, protonotario apostolico, a cui era legata da una lunga amicizia, affinché componesse le ostilità ma con scarsi risultati.
Nel '27 il sacco di Roma dà l'occasione alla C. di accattivarsi le simpatie del papa per l'opera di soccorso data alla popolazione romana, anche grazie all'aiuto del cugino Alfonso d'Avalos marchese del Vasto. Quando un esercito francese attaccherà Napoli, tutta la casa Avalos, che là risiedeva, si rifugerà nell'isola d'Ischia. La C. fa pressioni presso Filippino Doria, vicino al papa, affinché questi sia clemente con i suoi parenti, dimostrando così la propria riconoscenza per l'operato della C. a Roma. Intanto cerca anche, quanto può, di riparare i torti commessi dal marito. Con una serie di lettere, del '29, sostiene l'obbligo che la casa Avalos ha di restituire all'abbazia di Montecassino un terreno di cui, a torto, si era impadronito il Pescara.
Nel '30 la C. è nuovamente a Napoli dove comincia a frequentare un circolo formatosi attorno alla predicazione di G. Valdés, in cui si riunivano tutte le personalità più sensibili alla spiritualità valdesiana, dal Flaminio a Piero Vermigli, Isabella Breseña, Giulia Gonzaga. Proprio questo primo cenacolo la spingerà ad approfondire i temi della fede, secondo la nuova lezione che l'evangelismo valdesiano andava elaborando.
Nel '31 a causa della peste scoppiata ad Ischia, dove la C. ora di nuovo risiedeva, deve spostarsi prima ad Arpino e poi a Roma, dove soggiornerà per un periodo più lungo dei precedenti. E proprio a Roma, nel '32, nasce la polemica sui cappuccini che le permette di prendere apertamente posizione in favore di quella nuova religiosità che esprimeva le ansie di rinnovamento all'interno del mondo cattolico.
Il 18 maggio 1526, grazie ad un diploma pontificio, Ludovico da Bassio e Ludovico Raffaele da Fossombrone diedero vita, nella Marca di Ancona, ai cappuccini. L'Ordine si riproponeva un ritorno all'originaria povertà francescana e alla predicazione evangelica. Nel '29 Clemente VII aveva esteso ai cappuccini gli stessi privilegi e indulti dei camaldolesi. Ma questa posizione di favore durò poco perché una bolla papale del 7 aprile del '34 costringeva i cappuccini a rientrare tra gli osservanti e il 25 aprile essi erano addirittura scacciati da Roma, tra l'indignazione dei loro proseliti. La C., le cui lettere ci mostrano come già da tempo avesse individuato nei cappuccini un'occasione di rinnovamento religioso e di dibattito sulla decadenza di alcune manifestazioni di fede, interviene immediatamente presso il papa in difesa dell'Ordine, assieme a Caterina Cibo e a Camillo Orsini, che pure testimoniano la vasta risonanza che andavano acquistando le istanze riformatrici. In una lettera del '36 a Gasparo Contarini, la C. difende l'alto valore morale e religioso dell'esempio di vita dato dai cappuccini e l'esigenza che venga raccolto dall'intera Chiesa cattolica il loro messaggio di carità e di umiltà. L'intervento raggiunge il suo scopo: nonostante la dura opposizione di Quiñones, cardinale di S. Croce, uno dei più convinti oppositori di ogni esigenza di riforma, Paolo III conferma la bolla di Clemente VII che scioglieva i cappuccini dall'obbedienza agli osservanti. Tuttavia Quiñones non rinuncerà alla sua opposizione intransigente e in un secondo tempo riuscirà a far porre un divieto ai cappuccini di accogliere altri frati nel loro Ordine. Poiché la Cibo, in rotta con i Farnese (famiglia cui apparteneva Paolo III), non poteva intervenire, questa volta la C. fu sola a difendere il nuovo Ordine. Quiñones che, come consigliere di Carlo V, aveva negoziato la liberazione di Clemente VII durante il sacco di Roma, tentò di usare tutta la sua autorità per raggiungere il proprio scopo. Prima spinse Carlo V a mandare una lettera al papa in cui si criticasse l'operato e il modo di vivere dei frati, poi provocò, studiatamente, l'ambizione di Ludovico di Fossombrone, generale dell'Ordine, per mettere questo in cattiva luce. Ludovico cominciò a rifiutarsi di convocare il capitolo da cui temeva di veder discussa la propria autorità. La C. lo denunziò al papa, fece pressioni perché venisse arrestato e, quando il capitolo fu finalmente convocato, Ludovico perse ogni carica.
La difesa dei cappuccini fu per la C. l'occasione per sostenere una reale proposta di rinnovamento della vita religiosa, all'interno della fedeltà al papa e alle gerarchie cattoliche. Ma fu anche un'occasione per saggiare il reale potere che corrispondeva al proprio prestigio, aumentando la propria fama di protettrice degli oppressi.
Nell'aprile del 1537 la C. decide di partire per Ferrara, seguita da alcune dame di compagnia. Nella città estense esistevano numerosi fermenti di riforma e Calvino stesso vi aveva soggiornato nella primavera del '36. Renata di Francia, moglie del duca Ercole II d'Este, aveva decisamente abbracciato le dottrine riformate della salvezza per fede e del ritorno alla lettera dei Vangeli, attirando nella propria città gli intellettuali di maggior spicco che si muovessero nella medesima prospettiva di rinnovamento. Tutto ciò metteva in difficoltà le relazioni diplomatiche di Ercole col papa e probabilmente questi favorì l'incontro della moglie con la C. affinché le posizioni di questa, certo più moderate quanto a polemica antiromana, influenzassero quelle più pericolose di Renata. Ma l'intenzione della C. è, stando a quanto scrive, un'altra: Ferrara è solo una tappa per arrivare a Venezia e di qui imbarcarsi per la Terrasanta. L'idea del viaggio verso il S. Sepolcro assume, nelle parole della C., quasi la veste mitica di una crociata redentrice di donne, che osasse quanto non avevano prima osato né il Pescara né Carlo V, in cui pure la C. aveva riposto le proprie speranze. Dunque una risposta di esaltazione religiosa femminile alla prudenza dei calcoli politici e dell'opportunità militari. Ma all'improbabile viaggio della C., che ricordava, nelle lettere, come anche s. Caterina l'avesse progettato, si opponevano i preoccupati interventi di Paolo III e del marchese del Vasto che premevano anche sugli Estensi affinché ostacolassero il progetto. Presto la C. smette di parlare della sua crociata, probabilmente perché coinvolta dal clima riformato ed intellettualmente vivace di Ferrara. Qui predicavano, nel '37 e nel '38. Claudio Jaio e Simone Rodriguez che auspicavano un rinnovamento della religione attraverso un modo più profondo di sentire la fede. La C., arrivata nella città estense l'8 maggio, fu insieme con Ottaviano del Castello, vescovo suffraganeo di Ferrara, tra i più assidui ascoltatori di quelle prediche. Ebbe scambi d'opinioni con Renata e probabilmente a Ferrara conobbe Margherita di Navarra, sorella di Francesco I, anche essa conquistata alle idee della Riforma, con cui la C. continuerà ad avere contatti epistolari.
A Ferrara, in quegli anni, è anche Bernardino Ochino, altro elemento centrale della diffusione della Riforma in Italia, che la C. aveva conosciuto a Roma, nel '34, quando aveva difeso i cappuccini. I rapporti tra i due divengono più stretti e la C. assiste alle prediche di Ochino sull'umiltà francescana.
La fama della marchesa di Pescara a Ferrara intanto cresceva: nell'edizione di E. Saltini delle Rime della C., del 1860, si racconta che il furore popolare scacciò un messo del vescovo Giberti che invitava la C. a Verona. Tuttavia il clima insalubre di Ferrara si dimostra dannoso per la già precaria salute della C. che decide di partire, salutata dal duca Ercole con un fastoso ricevimento nel corso del quale vengono letti sonetti in onore di lei. Il 26 febbr. 1538 è a Bologna, poi a Pisa, per seguire le prediche dell'Ochino, chiamatovi dalla vedova di Alessandro de' Medici, Margherita d'Austria. Poi è a Lucca dove incontra un cenacolo di riformati creatosi anche là, ancora con Ochino, con Vermigli e Carnesecchi. Nel '38 venne pubblicata a Parma la prima edizione di centocinquantatré sonetti della Colonna. Inizia così una serie di numerose edizioni delle liriche della C., che sembrano sempre contravvenire la sua volontà.
Lo testimonia anche una lettera al Molza del '37 di B. Varchi, il quale, dopo aver visitato a Ferrara la marchesa di Pescara, riportava il deciso rifiuto di questa a pubblicare. Seguiranno altre numerose edizioni, ben dieci tra il '38 e il '48, mentre la C. era ancora viva. Una delle prime edizioni viene inviata da Carlo Gualterazzi, segretario della C., a Margherita di Navarra, con la quale la C. aveva mantenuto contatti epistolari. Le rime vengono intercettate dal potente connestabile di Montmorency, molto vicino al re, che sospettava Margherita d'eresia e denuncia la C. a Francesco I, affermando che nei sonetti era possibile ravvisare idee contrarie alla fede. Ma l'accusa cade nel vuoto grazie al prestigio che la marchesa di Pescara aveva conquistato anche dinanzi al re di Francia.
Nel frattempo si erano ulteriormente deteriorati i rapporti tra il papa e i Colonna. I Farnese erano su posizioni di grande rivalità con la famiglia della C., soprattutto ora che si rimproverava ai Colonnesi di essere tra i fautori del sacco di Roma. La C., dati i buoni rapporti con il papa, tenta più volte una conciliazione, anche favorendo il matrimonio tra il nipote Fabrizio e Vittoria, figlia di Pier Luigi Farnese. Ma la tensione non diminuisce, sia per l'intransigenza di Paolo III, che mirava ad accrescere la potenza del figlio Pierluigi, sia per quella di Ascanio, fratello della C., di carattere fiero e rissoso. Promulgata da Paolo III una tassa sul sale, prima Perugia che insorge nel febbraio del 1540, poi Ascanio, per le terre che erano in suo potere, rifiutano la tassa: in favore di Ascanio c'era un vecchio privilegio concessogli da Martino V. Anche la C. si era messa in contrasto con i Farnese: nella discordia matrimoniale tra il nipote del papa, Ottavio, e la sposa Margherita, figlia di Carlo V, la C. si schierò con quest'ultima e appoggiò le accuse di questa rivolte al marito presso l'imperatore. Il fiduciario dei Farnese si lamentò di questo comportamento con Carlo V, sostenendo che la stessa C. dettava le lettere dì Margherita al padre. L'imperatore non respinse queste accuse, ma costrinse, alla fine, la figlia a cedere e il prestigio della C. non fu più indiscusso come era prima.
Il 25 febbr. 1541 il papa ordina ad Ascanio di presentarsi a Roma, ma questi si rifiuta. Gli interventi della C., di Carlo V (di cui abbiamo una lettera del 17 marzo alla C. in cui la invita a convincere il fratello) e del viceré di Napoli su Ascanio per farlo recedere dalla sua posizione, non impedirono che si arrivasse allo scontro armato. La stessa C., dopo tutti i tentativi, autorizza i sudditi delle proprie terre ad armarsi.
Nel marzo Ascanio raduna le sue truppe a Genazzano e di lì inizia una guerra che dura due mesi, fino al 26 maggio, giorno in cui cade la rocca di Paliano, ultima difesa dei Colonna. Sconfitti, ai Colonnesi vengono confiscati tutti i loro possedimenti nello Stato pontificio.
All'inizio della guerra, il 17 marzo 1541 la C. si era rifugiata in Orvieto, per evitare le tensioni che poteva far nascere la propria presenza a Roma, alloggiando presso il convento domenicano di S. Paolo. Di lì scrive un sonetto a Paolo III sui danni prodotti dalla guerra invitando ad una pace tra le due famiglie. Ritorna nell'agosto a Roma, avendo saputo di un incontro del papa con Carlo V: vuole chiedere clemenza verso i familiari in esilio. Le fa visita, in questo breve periodo romano, Luca Contile che lascia una testimonianza dell'incontro.
Ma a Roma l'atmosfera è ancora molto tesa e la C. abbandona di nuovo, nell'ottobre, la città per trasferirsi a Viterbo presso il convento di S. Caterina.
Viterbo era divenuta, in quegli anni, punto d'incontro di personaggi molto vicini alla Riforma come il Pole, Flaminio, Carnesecchi (dagli atti dell'interrogatorio dell'Inquisizione a quest'ultimo ricaviamo le notizie per ricostruire l'ambiente di quegli anni) e il Valdés.
La C. è soprattutto legata al cardinale inglese Reginald Pole. Questi si era trasferito in Italia a causa della sua opposizione allo scisma di Enrico VIII: era stato creato cardinale da Paolo III e aveva goduto della protezione dei Contarini che, col cardinal di Verona, Giberti, aveva dato vita ad uno dei primi circoli riformatori. La C. mostra di conoscere, almeno fuggevolmente, il Pole fin dal '36, quando prega il Contarini (lettera del 22 dic. 1536) di congratularsi con l'inglese per l'elezione a cardinale. A partire da quell'anno, in una serie di lettere a diversi destinatari, la C. dichiara spesso l'ammirazione per l'opera e la personalità del cardinale che da un lato combatteva lo scisma anglicano, dall'altro auspicava un profondo rinnovamento della Chiesa cattolica. E certo proprio l'opera del Pole fu quella che influenzò maggiormente la fede della Colonna. Nel '41, a Ratisbona, si era tenuta la Dieta imperiale per tentare di comporre la rottura tra cattolici e protestanti. Contarini vi è mandato come legato pontificio e giunge ad un accordo con i teologi tedeschi sulla dottrina della giustificazione. A Roma però la formula dell'accordo non è gradita: sembra ambigua nell'accettare parimenti la tesi luterana della salvezza per mezzo della sola fede in Cristo e quella cattolica della salvezza per mezzo delle opere umane, attraverso la formula della "lustitia Christi donata" (cioè le opere salvano solo in quanto derivano da Cristo). Per spiegare questa formula il Contarini mandò una Epistula de iustificazione al Bembo che, a sua volta, la fece conoscere al Pole e alla C. (lettera di Bembo a Contarini dell'11 giugno 1541). Il 12 ag. 1541, Pole è nominato legato a Viterbo; attorno a lui si forma presto un cenacolo riformato, di cui anche la C. è attivamente partecipe. Si fanno letture comuni dei testi sacri e si dibatte l'interpretazione della lettera di questi.
L'8 dicembre dello stesso anno, la C. scrive a Giulia Gonzaga affermando di dovere al Pole la salute dell'anima e del corpo perché egli l'aveva liberata dalla "superstizione" e dal "malgoverno". Quando, nel '67 molti del gruppo di riformati di Viterbo furono processati e inquisiti, fu chiesto al Carnesecchi dall'inquisitore se tali parole della C. non dovessero intendersi come liberazione dalla dottrina delle opere buone, in modo tale da far cadere anche sulla C. i sospetti d'eresia. Il Carnesecchi respinse queste accuse precisando che piuttosto la C. voleva alludere a certe pratiche penitenziali a cui sottoponeva il proprio corpo e che erano troppo pesanti per la sua già incerta salute.
Tra i primi, fra i personaggi vicini alla C., ad essere colpiti dalla condanna di eresia fu Bernardino Ochino, a cui già da tempo la Chiesa romana guardava con sospetto. È chiamato a render conto del proprio pensiero ereticale proprio in un momento in cui la sua predicazione andava accrescendo la sua fama e il suo prestigio. Nel '39 Ochino era stato richiesto da Bembo perché andasse a predicare a Venezia: ma già avvertendo il pericolo che lo minacciava, non rispose all'invito e andò prima a Milano e poi a Chiavenna, e a Zurigo, nel '42. Scrive, il 22 ag. 1542, alla C.: è costretto a lasciare l'Italia per salvarsi la vita, "perché non potrei se non negar Christo o esser crucifisso". Ochino afferma anche di aver cercato un consiglio dalla C. e dal Pole, ma di non aver ricevuto nessuna lettera di risposta. Probabilmente ci fu un irrigidimento della C. verso Ochino, dovuto agli esiti pericolosi delle idee di questo. Dietro consiglio di Pole, il dicembre del '42, la C. consegna al cardinale Cervini, membro dell'Inquisizione romana, un libro (probabilmente le Prediche) che Ochino le aveva inviato da Ginevra.
A poco a poco il cenacolo viterbese si smembra, dietro le pressioni, a diversi livelli, del Vaticano. Pole, assieme al cardinale Giovanni Morone (anch'egli processato sotto Paolo IV, per eterodossia), è nominato legato a Trento per il concilio convocato il 22 maggio 1542. Mentre Pole è a Trento, la C. continua a scrivere di lui al Morone, al Cervini; continua ad intrattenersi con alti personaggi, ma con lettere il cui tono appare inconsuetamente dimesso, oscillante tra l'ufficialità delle dichiarazioni d'affetto e di stima e un'umiltà malinconica che può trovare le motivazioni esterne nel clima di sospetto che già da tempo cominciava a circolare attorno a lei e ai suoi amici.
Il 15 luglio la C. scrive al Pole una lettera in cui lo ringrazia per averle fatto comprendere il dovere di seguire i consigli del medico per la propria cattiva salute, nonostante il suo desiderio di andare a Dio. Ella afferma di trovare in Pole un "ordine di spirito" capace di sollevarla dalla propria miseria.
Il medico che aveva consigliato la C. era Girolamo Fracastoro, legato anch'egli al gruppo religioso del Contarini e del Giberti, che la rivedrà ancora in questo periodo e che scriverà al comune amico Carlo Gualteruzzi (nel luglio del '44) di essere preoccupato per la salute della C. che andava via via peggiorando.
Nell'estate del '44 la C. lascia Viterbo e torna a Roma, dove alloggia presso il convento di S. Anna: è una donna provata nel fisico e nel morale. Gli ultimi due anni della sua vita sono riempiti dalla nuova amicizia con Michelangelo, che diviene la persona più vicina alla marchesa di Pescara. Questa aveva conosciuto il Buonarroti nel '34, nella chiesa di S. Silvestro: da allora uno scambio di rare lettere ci testimonia un rapporto molto intenso, anche se estremamente cauto nelle sue manifestazioni. Delle lunghe conversazioni che caratterizzarono la ripresa del rapporto fra i due, a Roma nel '45 e '46, si ha testimonianza dal pittore Francisco de Hollanda, che fu nella città dal '39 al '48, su incarico di Carlo per relazionare sugli avvenimenti romani.
Nei Dialoghi di Francisco, in cui si dibattono problemi della pittura e del suo valore pedagogico e parenetico, la C. e Michelangelo sono due interlocutori obbligati e alla marchesa di Pescara viene attribuito un prestigio quasi regale. Michelangelo donò, molto probabilmente, alla C. tre disegni: una Crocefissione, inviatale nel '36, una Pietà e una Maddalena. Insieme, la marchesa di Pescara e il Buonarroti progettavano la costruzione di un monastero alle pendici del Quirinale, ascoltavano il commento ai testi sacri di A. Catarino Politi, in S. Silvestro, si scambiavano, anche epistolarmente, riflessioni sul modo di vivere la fede cristiana.
Anche se non le mancano le prove di stima (nel '46 Paolo III richiede il parere della C. sul suo eventuale successore), la conclusione della vita della C. è accompagnata dai segni di una dimessa solitudine. Scrive a Michelangelo, nel '46: "cognoscerete che de' miei quasi già morti scritti ringratio solamente il Signore, perché l'offendeva meno scrivendoli, che con l'otio hora non fo". Ammalatasi ancora più gravemente all'inizio del '47, la C. lascia il convento per esser portata nella casa romana di Giuliano Cesarini, marito di Giulia Colonna, e qui muore il 25 febbr. 1547.
In morte della C., Michelangelo scriverà numerosi sonetti, in cui piangerà la perdita di una vera guida spirituale; nella lettera a G. F. Fattucci, del '49, la famosa, eloquente, espressione di rimpianto: "morte mi tolse un grande amico".
Ma la fama pubblica della C. era ormai stata intaccata dai sospetti di eresia. L'Inquisizione andava raccogliendo prove contro di essa e forse la morte la salvò da un processo simile a quello che dovettero subire molti compagni dei cenacoli di un tempo. La C. aveva fatto testamento fin dal gennaio del '47, ma alla sua morte la badessa del convento di S. Anna rinunciò a far da esecutrice testamentaria e fu difficile trovarle un sostituto. La C. lasciò 10.000 ducati al Pole che, in seguito, li restituirà alla nipote della C., Vittoria.
La C. è uno dei personaggi più tipicamente rappresentativi di quel nodo di cultura, potere e religione che stringe le fila della vita di quasi tutti gli intellettuali rinascimentali. La sua vita è caratterizzata da una popolarità eccezionale che forse nessun'altra donna del suo secolo conosce. A parte le relazioni personali che ce l'hanno mostrata in rapporti di stima e amicizia con i personaggi più potenti dell'epoca (da Carlo V ai pontefici), troviamo il suo nome nei testi di moltissimi scrittori a lei contemporanei, che le hanno inviato espressioni di amicizia, stima, ammirazione.
A lei dedica numerosi sonetti il Britonio, le proprie Rime (Venezia 1570) Gabriel Fiamma, Ludovico Ariosto ne celebra le virtù nel canto XXXVII dell'Orlando furioso, e, ancora, L. Dolce la ricorda come esempio di educazione morale nel Dialogo della instituzione delle donne (Venezia 1547, p. 16); il Molza, a cui la C. aveva fatto ottenere dal papa una licenza per il matrimonio del figlio, le dedica numerose rime. Col Bembo, che sembra dovette alla C. un interessamento perché venisse creato cardinale, la marchesa di Pescara aveva uno scambio di sonetti, ma, una volta, anche di due medaglie con i ritratti di entrambi (lettera del Bembo del 25 luglio 1532).
Pietro Aretino, che nelle sue lettere dichiara sempre grande devozione per la C., le mandò in visione i versi della Marfisa che il marchese del Vasto aveva deciso di finanziare dopo la rottura dell'autore con i Gonzaga (a tale finanziamento allude probabilmente l'Aretino quando ricorda alla C. il debito di 60 scudi che questa aveva con lui: lettera del novembre 1537).
E ancora ricordano la C. nelle loro rime V. Gambara, A. Allegretti, B. Tasso, G. di Tarsia. G. Guidiccioni e A. Caro le chiedevano pareri e correzioni alle proprie rime.
Attorno alla figura della C. si raccolgono via via alcuni gruppi intellettuali, diversamente caratterizzati, ma tutti ugualmente espressione delle tendenze più importanti della cultura italiana del tempo: dal gruppo dei poeti di Ischia che connotavano come tardoumanista quella cultura napoletana-aragonese che doveva caratterizzare il tirocinio, intellettuale della C., ancora tutto da analizzare nelle sue componenti di fondo, all'ambito romano, della nuova cultura accademica in volgare, con Bembo, Molza, Tebaldeo, Accolti, ai circoli riformisti di Napolì dopo il '30, con Valdés, Flaminio, Vermigli, Giulia Gonzaga, di Ferrara e di Lucca (nel '38) con Ochino, Carnesecchi, fino a quello di Viterbo col Pole e ancora Carnesecchi, Fiaminio, Valdés, a cui la C. partecipò con maggiore assiduità.
Dunque un personaggio di livello culturale di primo piano, che riunisce in sé alcune delle problematiche più vive del dibattito intellettuale del suo tempo. Eppure la cultura della C., gli strumenti con cui interviene sui temi tipici della sua epoca, non sempre appaiono ben definiti, o riconoscibili all'interno della lezione della cultura umanistica. A ragione Dionisotti (Geogr. e st. della letterat. ital., Torino 1967) indica proprio nel fenomeno dell'irruzione della figura della poetessa, della donna di cultura, negli ambienti intellettuali, maschili per tradizione classica, il segno della svolta operata nei primi trent'anni del secolo dalla cultura italiana. E proprio grazie a questo nuovo corso, dagli esiti imprevedibili, si dà la possibilità di una presa di potere da parte di intellettuali che non erano passati attraverso il tirocinio etico oltreché culturale del classicismo, ma che potevano rielaborare una visione del mondo letterario completamente nuova, più libera e disinibita rispetto alla soggezione alla centralità della tradizione classica.
Movendo da una cultura più intuitiva che sistematica, costruendo la propria visione del mondo più attraverso processi di simpatia o di idiosincrasia, all'interno dei parametri rassicuranti della fede vissuta come contemptus mundi, che attraverso procedimenti razionali, la C. ci offre l'esempio di un sistema di pensiero e di affetti improntato ad un modello retorico ben collaudato e plasmato secondo certe figure chiave della religione e della letteratura. La C. organizza il suo discorso letterario e quello religioso secondo categorie retoriche capaci di dare ad esso cadenze e toni costanti, di costante ricerca del sublime.
Ci si è posti, a più riprese, il problema della possibile eresia della C., cioè della possibilità di assimilarla o meno alla dottrina riformista che fu propria dei circoli religiosi a cui la marchesa di Pescara fu vicina. Tale dottrina non è lontana, nelle caratteristiche fondamentali, all'evangelismo teorizzato dall'oratorio romano del "Divino Amore", che riuniva Iacopo Sadoleto, G. M. Giberti, Gaetano di Thiene, G. P. Carafa, G. Contarini, R. Pole. Si trattava di un movimento che teorizzava la semplificazione della vita religiosa, con l'abbandono della speculazione filosofica più astratta e il ritorno alla morale evangelica, ad una interpretazione cioè più vicina ai testi sacri. Si tratta di un movimento, che risente, più che di Calvino e di Lutero, dell'umanesimo ficiniano, con un'eco della predicazione di Savonarola. I motivi però tipici della riforma luterana affioravano nell'accentuazione di certi temi del messaggio di s. Paolo (anche se è possibile riconoscere una maggiore vicinanza della C. alla mistica giovannea): la svalutazione della ragione e delle azioni umane e il pessimismo sulle capacità dell'uomo di raggiungere la salvezza. La critica alla Chiesa di Roma, riconosciuta nella predicazione di Ochino, come la fonte di tutti i mali, veniva condotta, negli evangelisti, fino ai limiti di rottura, che si cercava però di non superare, magari con l'affermazione che la Riforma doveva essere in primo luogo interiore e che dunque esteriormente potevano essere seguite le leggi romane.
Della C. possediamo alcuni scritti di argomento morale e religioso. Di due testi ci dà notizia B. Fontang (Nuovi documenti vaticani, Roma 1888): furono ritrovati nel secolo scorso in un codice manoscritto nella Biblioteca comunale di Camerino, città in cui nacque l'Ordine dei cappuccini. Di difficile datazione, uno è una riflessione sul Benefizio di Cristo crocefisso, l'altro è una celebrazione della Croce come unica bussola adatta alla navigazione nelle acque della vita terrena: con un'evidente ripresa, in chiave cristiana, della metafora petrarchesca dell'esistenza umana come lungo viaggio in nave.
Assieme al motivo tipicamente riformistico dell'esaltazione del Cristo come momento centrale e irrinunciabile della salvezza umana, la C. pone la difesa del libero arbitrio come momento decisivo per orientare l'esistenza religiosa verso i beni spirituali piuttosto che quelli terreni.
Nel '56 Aldo Manuzio pubblica a Venezia il Pianto sulla passione di Cristo e l'Orazione sull'Ave Maria della Colonna. Il Pianto, sicuramente opera molto tarda della C. (la Mazzetti la riferisce agli anni '39-40), appare interessante perché offre una rappresentazione della Crocifissione di tono "spiccatamente barocco, con dilatazioni di affetti sentimentali, figurazioni sovrabbondanti e tormentate" (Mazzetti), dunque ancora una lettura di un episodio evangelico filtrato attraverso la retorica dell'esaltazione mistica, alla ricerca di un'espressione ossessivamente tesa, con una esaltazione del dolore di Maria dinanzi al Cristo in croce, tema ricorrente nelle Rime della marchesa di Pescara e leggibile come proiezione di un ideale maternità santificata e sublimata. L'opera, fu vista con sospetto dalle gerarchie cattoliche, centrata com'era sulla dimensione dolorosa e tragica della Crocifissione. In difesa di essa fu scritto un Discorso del carmelitano Niccolò Aurifico de' Bonfigli, pubblicato a Venezia nel 1567. Tutto il pensiero della C. è ricco di riferimenti alla problematica del peccato e della salvezza. Nelle sue rime possiamo trovare continuamente affermazioni che risentono della problematica riformista: sulla completa corruzione della natura umana, sulla fede come sola vera fonte di salvezza, sulle responsabilità della Chiesa romana nel decadimento della religione, sulla "giustitia imputata". Rimangono però costanti le dichiarazioni sulla sua devozione alla Chiesa e al papa e la stessa ripetuta enunciazione della vanità delle opere umane è sottratta alle motivazioni ideologiche della Riforma, per acquistare riflessi eminentemente etici, di umile considerazione della fragilità umana. Non è possibile quindi definire con esattezza la portata del pensiero eretico della C., né i termini del suo accostamento alla Riforma.
Circola, in tutti gli scritti della C., accanto ai temi che abbiamo enumerato, una tensione a distaccarsi dal mondo terreno e un'esaltazione della dimensione tutta spirituale, mistica, ascetica dell'esistenza che fa risuonare una sola, ossessiva corda dell'intero sistema intellettuale della Colonna.
Allora anche la sua partecipazione, attivissima sul piano pratico (valendosi in modo autoritario del proprio prestigio e della propria collocazione sociale) come dimostra la difesa dei cappuccini, l'amicizia col Pole, la partecipazione al cenacolo di Viterbo, alle occasioni di rinnovamento del mondo religioso; sembra improntata a quello stesso modello retorico (di ricerca del sublime) che fornisce la struttura portante di ogni discorso della Colonna. L'insieme dei testi della marchesa di Pescara appare insomma un complesso estremamente omogeneo e coerente.
Anche il carteggio si rivela attentamente costruito a partire dai canoni di una oratoria ostinatamente tesa verso toni "alti", d'esaltazione dei personaggi cui erano destinate le lettere o delle situazioni nelle quali le comunicazioni epistolari si svolgevano.
Quello che colpisce ad una prima lettura dell'epistolario della C., magari notando le differenze con quello di altre intellettuali del Cinquecento, è innanzi tutto il rango dei destinatari che annovera tutti i protagonisti del mondo politico-religioso dell'epoca, tutti i rappresentanti di un'élite intellettuale che stava contribuendo ad una riflessione decisiva per il pensiero europeo e di un'élite politica (da Carlo V ai papi) che andava rielaborando formule di potere e di rapporti politici che poi risulteranno decisive almeno per due secoli successivi della storia italiana. E in mezzo a questa aristocrazia, la C. si ritaglia, con caparbietà e convinzione, un ruolo preciso, di rinunzia a caratteristiche femminili, pure riconoscibili in altre poetesse o donne di cultura, per assimilare le tecniche di inserimento in un gruppo di potere e di celebrazione di questo gruppo, tecniche tipiche di una tradizione politica maschile e autoritaria, rigidamente aristocratica.
Tutta la vita della C. scorre lungo questo binario, lungo questi due canali di ascesa a un ruolo del massimo prestigio intellettuale e politico.
Fino ai trentacinque anni, cioè alla morte del marito, l'esistenza della C. appare totalmente priva di elementi propri di risonanza, legata o al cerimoniale della vita della corte aragonese, scandito dai suoi riti e dalle sue celebrazioni, o al riflesso delle imprese militari del Pescara, di cui la C. sembra votarsi a fare da cassa di risonanza, da puro strumento di amplificazione. Anche le notizie che vogliono Ferrante cattivo esempio di fedeltà coniugale e accenni a una sua lunga relazione con una Delia, damigella al seguito di Isabella d'Aragona (Luzio), registrano solo reazioni contenute della C. - come il motto allusivo che invia al Pescara il quale, nel '12, da Milano le aveva proposto di assumere come motto "que peperit virtus, prudentia servet amorem". La C. risponde di preferire il motto "conantia frangere frangunt".
C'è una ripetuta affermazione di fedeltà al vincolo matrimoniale che equivale poi all'esaltazione di una castità virginea, di cui si cercherà la sanzione ufficiale nell'entrata in convento, desiderata dalla C., dopo la morte del marito e non avvenuta solamente per le pressioni contrarie del papa e della famiglia.
Dalla prigionia del marito sconfitto a Ravenna alle oscure vicende della congiura dei Morone, fino alla morte del Pescara, la C. attraverso le lettere e le rime si ritaglia via via un ruolo nettamente individuato che, quanto più celebra la sua dipendenza dal marito (presto assunto, dopo la morte, a puro ideale: "Nel mio pensier di lunge avanza il sole"), tanto più ritrova una propria autonomia espressiva, una personale via di partecipazione ai fatti e alle cose, un modo peculiare di vivere la realtà.
Dopo Ravenna, scrive a Ferrante l'Epistola, con i famosi versi in cui si rivendica, in una pluralità di ruoli femminili di cui farsi carico, un primo momento di autoindividuazione sociale: "Ma io, misera, cerco e sposo e padre: / E frate e figlio: sono in questo loco / Sposa figlia sorella e vecchia madre". Qui si riconosce un procedimento tipico della C., basato sull'opposizione dicotomica di poli concettuali via via diversi: si realizza una drammatizzazione del discorso lirico, teso tra figure contrapposte (bene / male, luce / ombra, pace / guerra) e articolato attraverso le variazioni espressive realizzate dal ritmo.
All'ambiente aragonese è attribuibile la formazione di una vena epico-elegiaca che trova poi specificamente nelle rime del Cariteo la fonte per certe soluzioni stilistiche e lessicali.
Il procedimento di stilizzazione del Pescara come eroico carismatico, elevato a ideale aristocratico di condizione privilegiata dello spirito, sembra precorrere uno dei movimenti più tipici della letteratura manieristica, che G. Weise (L'ideale eroico nel Rinascimento, Napoli 1964) riconosceva proprio dei primi del Cinquecento. La ricerca di un "decoro" eroico implica il senso del distacco dalla natura e del dominio delle passioni e dei desideri terreni che ritroviamo nella Colonna. Ecco allora la funzione di autoesaltazione che ha nella C. la stilizzazione eroica: il Pescara, eroe ideale, è la proiezione di una propria ricerca di liberazione dal mondo e di raggiungimento di un'esistenza totalmente spirituale.
Ma Ferrante è anche la sorgente vitale, la fonte di calore e di luce che permette alla C. di innalzarsi ("Questo è quel laccio, ond'io mi pregio e lodo / che mi trae fuori d'ogni mondano errore, / Ove de' miei desir cangianti godo"); è insomma figura del Cristo che redime, di cui la C. è ancora madre, straziata dal dolore per la perdita dell'amato, e figlia che guarda al padre per essere sollevata, proprio grazie al sacrificio, dalla vita terrena a quella celeste. "Questo nodo gentil che l'alma stringe / poiché l'alta cagion fatta è immortale, / discaccia dal mio cor tutto quel male / che gli amanti a furor spesso costringe": la morte dell'oggetto del proprio amore è al tempo stesso punizione per la dimensione tutta umana del sentimento (una lettura rigorosamente riformata del "giovanile errore" petrarchesco) e amplificazione di questo in una prospettiva ultraterrena.
La morte del Pescara è allora, nelle rime profane, l'avvenimento centrale specularmente identico a quello che, nelle rime sacre, è rappresentato dalla crocifissione di Cristo. E su di un piano metaletterario, di analisi dell'espressione lirica, la C. poetessa trova il proprio ruolo, all'interno del genere petrarchista ipercodificato, solo a partire da un evento esterno alla propria esistenza che la subordina e la, emargina in un ruolo di "santa" (moglie/madre/figlia) addolorato, dunque diversa, dunque capace, secondo una tradizione critica che arriva fino ai giorni nostri, di una riscrittura del petrarchismo più autentica e "vissuta". ("Foschi sospiri, e non voce serena / di stil no, ma di duol mi danno il vanto"). In questa collocazione, va letta tutta la storia interna del canzoniere della Colonna.
Dalla morte di Ferrante, i temi delle rime della C. ruotano attorno al motivo centrale della purificazione dalla contingenza della materia, per attingere ad una dimensione spirituale, ossessivamente mistica. Il tema della morte (e in particolare, si è detto, quella del marito) si presenta con il valore di un reale momento di liberazione: è l'origine di un vero dolore che, via via, entra in una sfera mitica fino ad assumere la dimensione di una categoria esistenziale tragica, dunque "alta", momento di esaltazione della sofferenza come dimensione autentica dell'esistenza. E proprio da questo nucleo centrale di dolore redentore si irradia la tematica della salvazione per fede.
Decantato il proprio linguaggio poetico nel lungo silenzio tra il 16 e il '26 (appunto tra la prigionia e la morte del Pescara), la C. fissa la propria scrittura in una "cristallina razionalità metafisica", preparando l'incontro con la spiritualità valdesiana (Mazzetti). Una volta che la C. avrà iniziato la stesura delle Rimesacre e morali, troverà il registro più efficace per la sua tensione al sublime in un linguaggio che nasce dalla fusione tra quello petrarchesco e quello biblico, magari attraverso un'articolazione di tipo dantesco, sia nelle descrizioni delle luminosità dei mondi celesti, sia in quelle di cupi stati di peccato.
Il corpus delle rime della C. si può dividere in due raccolte distinte. Le Rime profane che contengono centodiciassette sonetti per la morte del Pescara, un madrigale e una canzone molto lunga, in endecasillabi e sette settenari, più altri diciassette sonetti di vari argomenti. Le Rime sacre e morali contengono centonovantacinque sonetti e un capitolo di argomento ascetico-religioso e ventitré sonetti che trattano vari temi morali.
Possiamo inoltre suddividere l'intera opera della C. in tre periodi fondamentali. Il primo è quello dell'Epistola per la sconfitta di Ravenna; il secondo comprende tutte le rime della prima raccolta, scritte tra il 1526 e il '33, e il terzo tutte le rime sacre scritte tra il '33 e la metà del 1546.
C'è una forte presenza, nelle scelte stilistiche della C., degli autori classici studiati nell'adolescenza, soprattutto Tibullo e Virgilio, mentre le Heroides di Ovidio forniscono il modello per l'Epistola. Il passaggio, successivo, a fonti bibliche e giovannee dà una impronta particolare al petrarchismo di fondo, tanto da renderlo completamente diverso da quello tipico di tanti poeti contemporanei. Proprio da tale diversità l'equivoco di una maggiore immediatezza del sentimento nelle rime della Colonna.
Accanto a questa ascetica presentazione di sé, mossa da un movimento tra il disprezzo per la vita terrena e il desiderio della vita celeste, che è la lettura evangelica del neoplatonismo, magari nell'ultima codificazione degli Asolani del Bembo, la C. offre l'altra sua faccia nel Carteggio. Qui scopriamo, come si è detto, un personaggio ben istallato in una élite di potere che stringe, mantiene e promuove relazioni tra potenti, dà e riceve favori, usa la propria riconosciuta autorità per intervenire in difesa di nobili cause (come per i cappuccini perseguitati) o per portare la propria ideale maternità (la salute impediva alla C. di avere figli) al Pole, dopo la decapitazione, voluta da Enrico VIII, della vecchia madre di questo: ancora una volta vivendo in modo totalmente sublimato un ruolo femminile che era in realtà impotente a ricoprire. Insomma una donna, la C., assurta al rango di potente con l'assunzione di tutte le componenti del rango: che da un lato costruisce il suo prestigio proprio a partire dalla impossibilità a vivere tradizionali ruoli femminili (moglie e madre), dall'altra finalizza l'emotività acuta ed esasperata da alcuni eventi di una vita certamente non serena, a delineare un disegno irrazionale, di ossessiva tensione all' "alto", alla santità.
E proprio tale "santità", tale "altezza" di sentimenti è la chiave secondo cui risuona ogni suo gesto, giustificazione irrazionale del proprio potere, modo peculiare, e forse peculiare a una donna del sec. XVI, di detenere e vivere l'autorità.
Si ricordano qui le prime edizioni delle principali opere della C.: Rime, Parma 1538; Le rime spirituali non più stampate, Venezia 1546.
Fonti e Bibliografia
Per una bibliografia completa delle opere della C., delle loro edizioni e della critica fino al 1947, rimandiamo al vasto repertorio pubblicato su Italia francescana, XXII (1947), 1-2, dedicato monograficamente al Centenario della più grande poetessa d'Italia.
Tra le fonti più importanti vanno ricordate: A. Condivi, Vita di M. Buonarroti, Roma 1533; P. Giovio, Vita del Marchese di Pescara, Firenze 1551; L. Contile, Lettere, Venezia 1564, cc. 19-20; B. Fontana, Nuovi doc. vat. di V. C., in Arch. della R. Soc.. rom. di storia patria, I (1881), pp. 595-628; vedi inoltre G. M. Crescimbeni, Istoria della volgare poesia, Roma 1698, II, pp. 101-102; G. Tiraboboschi, Storia della lett. ital., Milano 1833, IV, pp. 152 s.; A. Reumont, V. C., Torino 1883; A. Luzio, V. C., in Riv. stor. mantovana, I (1885), pp. 1-52; A. Giorgetti, V. C. e la sua fede, in Arch. stor. ital., s. 4, X (1892), p. 242; E. Rodocanachi, V. C. et la Réforme en Italie, Versailles 1892; R. Mazzone, V. C. marchesa di Pescara e il suo Canzoniere, Marsala 1897; R. Mazzone, Le rime profane di V. C., Giarre 1900; D. Tordi, Il codice delle rime di V. C., Pistoia 1900; P. Tacchi Venturi, V. C. fautrice della Riforma cattolica, in Studi e doc. di storia del dir., XXII (1901), pp. 149-179, 307-314; E. Tordi, Agnesina Montefeltro..., Firenze 1908; P. De Bouchaud, Les poésies de Michel-Ange Buonarroti et de V. C., Paris 1912; A. M. Bessoni Ameli, I dialoghi michelangioleschi di Francisco de Hollanda, Roma 1924; A. Bernardi Amy, La vita e l'opera di V. C., Firenze 1947.
Tra gli interventi critici sulla C. di maggior rilievo si segnalano: L. Settembrini, Lezioni di letter. ital., II, Napoli 1869, pp. 102-105; B. Zumbini, V. C., in Atti della R. Acc. di arch. lett. e belle arti di Napoli, XVI (1891-93), pp. 1-31; F. Galdi, V. C. dal lato della neuro-psicopatologia, Portici 1898; B. Croce, Poesia popolare, poesia d'arte, Bari 1933, pp. 479 ss.; G. Toffanin, Petrarchiste del '500, in Annali della cattedra petrarchesca, VIII (1938), pp. 145-49; R. Bainton, B. Ochino, Firenze 1940, passim; G. Toffanin, Il Cinquecento, Milano 1941, pp. 375-378; E. M. Jung, L'atteggiamento religioso di V. C., in Convivium, I (1949), pp. 110-118; B. Nicolini, Sulla religiosità di V. C., in Studi e materiali di storia della religione, XXII (1949), pp. 110-15; A. Greco, V. C., in Letteratura ital. I minori, Milano 1961, pp. 977 ss.; F. Flora, Gaspara Stampa ed altre poetesse del '500, Milano 1962, pp. 180-198; R. Pedicini, Michelangelo e V. C., in Studi in mem. di C. Sgroi, Torino 1965, pp. 177-199; A. Bullock, A hitherto unexplored manuscript of 100 poems by V. C. ..., in Italian Studies, XXI (1966), pp. 42-56; M. Inguanti, Le donne della Riforma in Italia, Roma 1968, pp. 11-22; D. E. Rhodes, The Library of V. C. in Book Collector, XVIII (1969), p. 93; M. Jerrold, V. C., Freeport 1969; R. Bainton, V. C. e Michelangelo, in Forum, IX (1971), 4, p. 34; M. Mazzetti, La poesia come vocazione morale: V. C., in Rassegna della lett. ital., s. 7, LXXVII (1973), pp. 58 ss.; A. Bullock, Veronica o Vittoria ?..., in Studi eproblemi di critica testuale, aprile 1973, pp. 115-31; Id., V. C. and F. M. Molza: Conflict in Communication, in Italian Studies, XXXII (1977), pp. 41-51.