Alfieri, Vittorio
D. fu tra i primi autori sui quali l'A. iniziò la sua rieducazione linguistica e letteraria (Vita, Episodio IV 1, anno 1775), sebbene ne avesse acquistato l'opera con quella di altri classici fin dal '71 (Vita III 12; e v. il sonetto Quattro gran vati); e al Petrarca lo associa consigliandone la lettura ancora nel 1787, non solo perché " tutta la lingua sta in loro ", ma perché, assimilati, danno " eleganza, brevità e forza " anche nella prosa (lettera a O. Falletti di Barolo, 12 ott. 1787). Del primo studio " senza commenti " restò traccia nel D. postillato di trattini in margine, di cui diede notizia V. Cian, e nell'Estratto di D., cioè della Commedia (non ad altra opera dantesca sembra si sia interessato), in cui l'A. dichiarava di trascrivere i versi " belli per armonia, o per l'espressione, o per il pensiero, o per la stravaganza ". Nel 1790 aggiunse sullo stesso manoscritto che avrebbe potuto ricopiare senza lasciarne " uno iota ", perché " più s'impara negli errori di questo che nelle bellezze degli altri ". Di tale Estratto, che giunse sino al XIX canto del Paradiso, rimasto a Parigi coi libri del poeta, diede notizia verso per verso il Biagioli nel suo commento al poema.
L'attenzione dell'A. sembra appuntarsi sulle invettive, sulle sentenze morali, sui dialoghi, sulle notazioni psicologiche, sull'evidenza delle scene umane e naturali, sulla creatività linguistica. Dell'Inferno predilige gli episodi che saranno cari al gusto romantico (per intero quelli di Francesca e di Ugolino), tuttavia inclina talora ad apprezzare più i toni delicati, malinconici, elegiaci che quelli fortemente passionali (per es. di Farinata segna le note intimamente dolorose, anziché le battute taglienti, e per intero trascrive solo la scena di Cavalcante). Significativa del resto la prevalenza del Purgatorio sulle altre due cantiche: se dunque l'A. nelle liriche definisce D. come poeta che " scolpì " l'Inferno, ciò non indica unilaterale orientamento di gusto. Del Paradiso non attirano integralmente la sua attenzione le disquisizioni teologiche, ma anche in queste nota le immagini dense di significato morale e religioso in cui il pensiero s'incarna, i movimenti psicologici dell'intelligenza che apprende.
A D. ritorna come ispiratore di poesia sua nel 1790 a Parigi, l'anno in cui si ravviva il genio satirico, ma l'ideato " dramma misto " sul conte Ugolino non giunse alla stesura (Vita IV 20). Ciò attesta come tornasse a sentirlo particolarmente vicino nei momenti di amarezza e di sdegno civile: espliciti avvii prende soprattutto nelle satire (v. La plebe, cui appone a epigrafe il passo di Pd XVI 115-117 a suo modo rifatto, e l'inizio delle Leggi, per tacere delle non rare reminiscenze implicite; nel Misogallo il sonetto del '90 Gente più vana assai). Nel sonetto O gran padre Alighier (1783) aveva immaginato che il poeta stesso l'ammonisse a non dar fama ai vili, neppure guardandoli: " senza mirar, sovr'essi passa ".
Questo suo modo di sentir D. emerge particolarmente nel trattato Del principe e delle lettere, in cui D. è più volte richiamato come esempio di poeta grandissimo perché libero, insieme col Petrarca e in antitesi con l'Ariosto e il Tasso " cortigiani ".
Si veda soprattutto in III 2, dove progressivamente si attenua anche la figura del Petrarca e lo stesso motivo esterno della corte per lasciar campeggiare soltanto lui col suo genio (" L'Ariosto e il Tasso, o sia per l'essere stati protetti, o per l'essere nati minori, non avrebbero mai potuto eseguire molte canzoni, trionfi, e squarci liberi e forti del Petrarca, e nulla quasi del maschio e feroce poema di Dante "). Se Petrarca è avvicinato ai cortigiani Virgilio e Orazio per i pregi, senza i difetti, D. è accostato ai grandi liberi " del secolo primo di Atene " (probabilmente i tragici, che rimpiange tuttavia di non poter leggere nella loro lingua), grandi che " non sempre agguaglia nell'eleganza e delicatezza, o sia che nol voglia, o che nol creda necessario, o che inventando egli stesso la propria lingua nol possa ", ma " non resta certamente egli mai indietro di loro nella profondità, nell'ardire, nell'imitazione, evidenza, brevità, libertà, energia ". Precipuo merito che nasce dalla sua condizione di libero è il " far pensare ", il colpire i vizi con " vere e libere terzine ". Merito che non appare scisso dalla valutazione estetica là dove in II 5, a dimostrare che le lettere abbisognano di libertà più che le arti figurative, pone un confronto fra D. e Michelangelo fondato sulla convinzione che a quelle occorre " lo sviluppo intero della facoltà pensatrice ", mentre in queste prevale " l'esercizio della potenza degli occhi e delle mani ", sì che D. può fare " quadri maravigliosi con poche righe d'inchiostro, ma non si può essere Michelangelo, senza avere in molti Danti imparato a pensare, inventare, comporre ".
Traspare da queste parole come l'A. patisse in una certa misura uno dei limiti settecenteschi alla comprensione di D., il difetto di " grazia " o di " eleganza ", ma altresì balena l'intuizione che quel che pareva difetto era un tratto costitutivo della sua personalità storica di poeta (" o che nol voglia, o che nol creda necessario, o che... nol possa "), sì che, eliminato quel " difetto ", la sua stessa grandezza si dissolverebbe, mentre nei suoi " errori " " s'impara ". Così, rispondendo al Calzabigi (6 sett. 1783), che gli appuntava espressioni non eleganti di sapore dantesco, si difendeva dichiarando di non lodare versi come If XIX 120 ( forte spingava..., ma nell'Estratto è presente con tutto il passo, 112-fine) e aggiunge: " né anche credo che Dante scrivendo adesso le userebbe ". Pertanto, se il libro compagno delle sue passeggiate solitarie fu il Petrarca, se un mattino (Giorn., 17 apr. 1777) appena svegliato, correndogli il pensiero alla fama letteraria, " oggetto costante d'ogni suo desiderio ", diede mano all'Ariosto " sperando di adeguarlo un giorno per facilità, chiarezza ed eleganza ", quando aggiunge " e sorpassarlo forse per la brevità, invenzione e forza ", si può pensare che la meta ideale di questa seconda speranza gli era segnata dal " suo divin poeta " (Le leggi, 2).
Bibl. - G. Biagioli, introduzione e commento alla D.C., Parigi 1818-19; E. Teza, Il conte Ugolino e Scotta, tramelogedie ideate da V.A., in " Nuova Antologia" IV (1867) 289-297; D. Bianchi, D. e V.A., in D. e il Piemonte, Torino 1922; V. Cian, Un D. di V.A., nel cit. D. e il Piemonte; R. Ramat, introduzione a V.A., Antologia delle opere minori, Firenze 1937, 19-22. Un rapido ma indicativo cenno su D. nell'A. è in M. Fubini, V.A., in Dizion. biogr. degli Ital. II (1960) 308; osservazioni non più che generiche negli studi dedicati alla fama di D. nel '700, per i quali v. A. Vallone, La critica dantesca nel Settecento ed altri saggi, Firenze 1961. Per la presenza di D. nella formazione dello stile alfieriano, v. qualche rilievo in M. Cappuccio, Le rime di V.A., Capua 1932, ma specialmente V. Branca, A. e la ricerca dello stile, Firenze 1948, passim, e una sintetica notazione in B. Croce, Alfieri, in Poesia e non poesia, Bari 19464, 13.