Alfieri, Vittorio
Poeta e scrittore, nato ad Asti nel 1749 e morto a Firenze nel 1803. Le circostanze in cui A. si accostò alle opere di M. ebbero un peso decisivo nell’orientarne la ricezione: è utile quindi ricordarle, con il sostegno di due episodi narrati nell’autobiografia.
Il primo è legato a un soggiorno in Olanda (1768), durante il quale A. strinse amicizia con José Vasques da Cunha (1734-1812), ministro portoghese a L’Aia, «animo bollente ed altissimo», che svolse nei confronti del giovane A. un importante ruolo maieutico:
Mille savi consigli mi dava continuamente quel degnissimo amico; e quello massimamente, di cui non perderò mai la memoria, si fu del farmi con destrezza ed efficacia arrossire della mia stupida oziosa vita, del non mai aprir un libro qualunque, dell’ignorar tante cose, e più che altro i nostri, pur tanti e sì ottimi, italiani poeti ed i più distinti (ancorché pochi) prosatori e filosofi. Tra questi, l’immortal Niccolò Machiavelli, di cui null’altro sapeva io che il semplice nome, oscurato e trasfigurato da quei pregiudizj con cui nelle nostre educazioni ce lo definiscono senza mostrarcelo, e senza averlo i detrattori di esso né letto, né inteso se pur mai visto l’hanno. L’amico D’Acunha me ne regalò un esemplare, che ancora conservo, e che poi molto lessi, e alcun poco postillai, ma dopo molti e molti anni (Vita scritta da esso, a cura di L. Fassò, 1° vol., 1951, p. 89).
Il racconto trova conferma nella presenza, tra i libri della Biblioteca alfieriana conservata a Montpellier, dell’opera ricevuta in dono, dove la nota autografa di possesso si distende in una riflessione politica:
Ben dieci anni dopo conobbi il libro; e dell’amico, sì degno di leggerlo e commentarlo, forte m’increbbe; pensando ch’io non lo revedrei mai più; mentre egli nella sua natia prigione tornato, credo non sia per uscirne mai più; né io per ritornarci, avendo assai viste, e gustate prigioni Monarchesche in vita mia, e altro non bramando che di ritrarmi in porto di salute terrena, dico, Firenze, 14 X.bre 1779.
José da Cunha è in realtà una figura mal nota, il cui ruolo pubblico è menzionato quasi solo in relazione alla prestigiosa carriera diplomatica dello zio paterno, Luis (1662-1748). Il brano della Vita fa comunque supporre che José si fosse legato, in Olanda, a un ambiente in cui M. veniva letto in prospettiva ‘repubblicana’ (cfr. Visentin 2004), eterodossa perciò rispetto a quella prevalente nella cultura portoghese (Marcocci 2008). Sembra verosimile peraltro (ma non documentabile, almeno per ora) che il suo sodalizio con A. fosse impostato su comuni interessi massonici, vista l’amplissima diffusione della Libera Muratoria negli ambienti diplomatici e i successivi, documentati, legami di A. con diverse logge italiane (cfr. Tocchini 2013). Certo è che A. colse nell’amico tratti d’insofferenza verso il potere monarchico di José I, riconoscendo in questo atteggiamento una positiva consonanza col proprio antidispotismo.
Il culto della tradizione repubblicana segnava anche il contesto amicale (permeato a sua volta di interessi massonici) in cui A. si accostò nuovamente, e ora con vero profitto, alle opere di Machiavelli. Il gruppo di letterati cui si legò a Siena nel 1777 condivideva infatti, oltre alla passione erudita, un interesse per la storia patria incentrato sull’antica ‘libertà’ cittadina e sull’indipendenza dal potere mediceo. Il primo esito letterario di quella frequentazione fu il progetto di comporre La congiura de’ Pazzi, sviluppando un suggerimento del nuovo e venerato amico Francesco Gori Gandellini, «simile in molte cose al [...] D’Acunha, ma molto più erudito e colto di lui» (Vita scritta da esso, cit., 1° vol., p. 205). La lettura delle Istorie fiorentine fu condotta, in funzione della tragedia, con impeto disordinato ma entusiasta, e dovette allargarsi subito ad altri testi, perché il trattato Della tirannide, concepito e steso «d’un sol fiato» nello stesso periodo, dipende manifestamente dagli scritti politici di Machiavelli.
La nota di possesso citata sopra consente di stabilire che l’edizione usata allora da A., la stessa avuta in dono a L’Aia, era un esemplare della ‘Testina’:
raccolta molto diffusa delle opere ‘maggiori’ di M., datata «1550», ma in realtà più tarda, ristampata varie volte nel Seicento. Essa rimase negli anni una preziosa copia ‘di lavoro’, corredata via via di note e appunti che sono tuttora leggibili (cfr. Placella 1973, pp. 83-100). A. acquistò tuttavia altre edizioni machiavelliane, tra le quali una a Parigi, già nel 1771 (Vita scritta da esso, cit., p. 125), da identificare con gli 8 piccoli tomi delle Opere usciti nel 1768 da Prault; e nel 1794, a Firenze, i 6 volumi della stampa Cambiagi (Firenze 1782-1783).
Non c’è dubbio insomma che A. abbia dedicato a M. uno studio approfondito, senza tralasciare la produzione poetica, e ispirandosi a quella teatrale per la (più tarda) ricerca di un linguaggio comico. È databile ai primi anni Novanta, infatti, anche un esperimento di versificazione della Mandragola (interrotto all’atto III 10), che avrebbe permesso ad A. di «impossessarsi di moduli linguistici e stilistici di direzione fortemente realistica» (Placella 1973, p. 96). Nella prima fase dell’‘immersione’ in M., però, l’interesse di A. fu rivolto soprattutto al Principe, ai Discorsi e alle Istorie fiorentine. Nell’insieme il suo machiavellismo si presenta come un fenomeno complesso, con una propria storia interna.
Un primo dato evidente è la ripresa, nel ciclo delle tragedie, di episodi e di personaggi che A. aveva conosciuto attraverso le opere di Machiavelli. Oltre a La congiura de’ Pazzi, per la quale l’autore medesimo dichiarò di essersi documentato sulle Istorie fiorentine (cfr. Mazzoni 1992, e Barbolani, in Alfieri tragico, 2003), vanno infatti considerati altri esempi.
Nella stessa opera (I viii), intanto, A. aveva potuto leggere le vicende di Rosismunda, preda di guerra e sposa del longobardo Alboino, protagonista di sanguinose vendette e raggiri; pare lecito quindi attribuire alla sua Rosmunda uno spunto machiavelliano, benché da valutare in un intreccio più ampio di possibili precedenti (per i quali cfr. Melosi, in Alfieri tragico, 2003).
È verosimile inoltre che altre opere di M., e soprattutto i Discorsi, abbiano svolto un ruolo chiave di mediazione rispetto alle fonti classiche cui A. si ispirò per plasmare alcune figure tragiche. Basti pensare ai protagonisti di Virginia (1777-1781) e di Bruto Primo (1786-1787), al centro di vicende drammatiche raccontate distesamente da Livio, ma anche ‘discorse’ da M. con particolare attenzione, perché legate a due momenti di massima crisi nella vita di Roma. Lucio Giunio Bruto è il primo responsabile nel rovesciamento della monarchia e nella fondazione del ‘vivere libero’ (Discorsi I xvi): processo così incerto da richiedere talora misure estreme, come appunto il tragico sacrificio dei figli di Bruto, rei di tradimento (Discorsi III iii; cfr. Savarese, in Alfieri tragico, 2003). La morte di Virginia, invece, che il padre uccide per risparmiarle la perdita della libertà, segna l’inizio della rivolta contro Appio Claudio, proiettato verso il potere assoluto grazie alla decisione improvvida del senato e del popolo di prorogare il decemvirato, magistratura ‘straordinaria’ (Discorsi I xxxv e I xl-xlvi; cfr. anche Tatti 2006). In una condizione analoga a quella di Appio si trova inoltre Timofane nel Timoleone (1779-1783), «tragedia di libertà» ispirata a Plutarco, ma debitrice a M. almeno per le ragioni politiche che l’eroe corinzio sviluppa: prima tentando di convincere il fratello Timofane a tornare semplice «cittadino», poi scegliendo la via del tirannicidio (per le riprese machiavelliane in questa tragedia cfr. Fedi, in Alfieri tragico, 2003).
Sono diverse, infine, le tragedie costruite sulla figura del monarca crudele e astuto, epifania di un personaggio-tipo cui si era ormai soliti attribuire – nelle diverse lingue europee – l’etichetta di ‘machiavellico’, e che invece A. preferì battezzare «machiavellero» (Satire VIII 105, in Scritti politici e morali, a cura di G. Mazzotta, 1984, 3° vol., p. 126; cfr. Sterpos, in Alfieri tragico, 2003, pp. 675-76): in tal modo ribadendo implicitamente (e col velo dell’ironia) la volontà di mantenere le distanze, anche nel lessico, da chi attribuiva all’autore del Principe il ruolo di pedagogo dei tiranni. Ed è interessante notare come accanto a Filippo (nel dramma omonimo), Polifonte (Mirra) o Cosimo III (Don Garzia), A. abbia portato in scena anche personaggi che sembrano incarnare ‘in coppia’ le virtù negative indispensabili al «re machiavellero». Nell’Antigone, per es., Polinice agisce come «lione» e Creonte da «golpe», e la medesima complementarità si può scorgere in Lorenzo e Giuliano ne La congiura de’ Pazzi (Di Benedetto, in La lingua e le lingue di Machiavelli, 2001, pp. 166-67).
Per A. fu comunque un punto d’onore riconoscere in M., prima ancora che un’autorità letteraria, un maestro capace d’influire, insieme a Tacito, anche su alcune scelte di vita, come quella di «lasciare per sempre, ed anche a qualunque costo il suo mal sortito nido natio» (Vita scritta da esso, cit., 1° vol., p. 211).
A questa istanza antidispotica soggettiva fa poi riscontro, sul piano politico-istituzionale, un culto del ‘vivere libero’ che rispecchia l’interpretazione repubblicana del Principe e aderisce al modello machiavelliano anche nel piglio argomentativo:
Tirannide indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d’impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo (Della tirannide I 2).
In quest’idea del dispotismo (e della ‘licenza’, suo rovescio speculare) si può scorgere, quasi in filigrana, una celebre pagina delle Istorie fiorentine (IV i), sulla cui importanza per A. ha insistito Enrico Mattioda (2002, pp. 418-19). Ma fu in generale la riflessione sul ‘governo misto’, sviluppata anche nei Discorsi, a influenzare in modo decisivo il pensiero politico del moderno scrittore e a offrirgli (insieme all’Esprit des lois, altra opera profondamente debitrice a M.) il principale appiglio per una vibrata apologia della divisione dei poteri.
L’energia espressiva riconosciuta subito come un tratto precipuo di A. (archetipo degli «animosi intelletti» invocati da Foscolo nei Sepolcri) non compensa del tutto, in verità, il carattere astratto che la difesa di questo ‘principio costituzionale’, e in genere della ‘libertà’ come ideale politico, finì per assumere nei suoi trattati; i quali anzi, per l’«impostazione polemica e caldamente oratoria», rischiano spesso di sconfinare nel pamphlet (cfr. Di Benedetto, in La lingua..., 2001, p. 163). È significativo, in tal senso, che nessuna delle concrete forme di governo vigenti nel mondo contemporaneo sia parsa ad A. davvero capace di garantire una durevole libertà. Nemmeno la monarchia costituzionale britannica (a volte citata senz’altro come la «repubblica inglese») poteva infatti dirsi esente dalla minaccia di corruzione implicita nella «ereditaria nobiltà»: vera causa – quest’ultima – della degenerazione che sempre investe «quelle gare stesse fra la nobiltà e il popolo» cui Roma aveva legato la sua grandezza (Della tirannide I 11). Pur riconoscendogli quest’aporia, e nonostante la crisi innescata dalla guerra contro le colonie americane, A. avrebbe comunque riproposto il modello inglese nell’Antidoto: la commedia conclusiva della tarda tetralogia (1800-1802) dedicata a smascherare ancora (e con rinnovato vigore dopo la Rivoluzione francese) il «veleno» implicito nelle tre forme ‘pure’ di governo: monarchia (L’Uno), oligarchia (I Pochi), e democrazia (I Troppi).
La difficoltà d’individuare un’alternativa concreta al dispotismo è del resto argomento del capitolo finale in Della tirannide (II 8). Qui anzi A. aveva rinunciato ad affrontare un’analisi della forma-repubblica, giudicando ch’ella è impossibil cosa fra gli uomini di nulla stabilir di perfetto e d’inalterabile; e principalmente in un tal genere di cose, che richiedendo continuamente sforzo e virtù [...] vanno insensibilmente ogni giorno menomandosi e corrompendosi per sé stesse.
Né – chiosa A. – avrebbe senso cimentarsi in un trattato «della repubblica» dopo che M. («quel nostro divino ingegno») aveva affrontato meglio di ogni altro una materia così difficile e sfuggente. Alla propria opera («sfogo di un ottimo cittadino»), A. rivendicava però almeno il merito di aver smascherato i meccanismi della tirannide, nella speranza di educare i suoi lettori a «sentirla», e la «universal volontà e opinione» a formarsi per combatterla.
A questo generale retaggio antidispotico si legano i più definiti principi-cardine che A. esplicitamente ricavò dall’analisi storico-politica di M., per verificarne l’esattezza attraverso lo studio delle ‘cose antiche’ e applicarli all’interpretazione di quelle ‘moderne’.
Per aggiungere alcuni esempi ad altri già discussi si dovranno allora ricordare l’idea che il potere dispotico si basi sul reciproco timore del tiranno e dei sudditi (Della tirannide I 3); il carattere intrinsecamente illiberale delle religioni monoteiste (I 8); l’inefficacia delle congiure (II 5); la difficoltà di scalzare, in un popolo reso libero, l’abitudine alla servitù (II 7).
Un altro portato decisivo dell’eredità del Segretario (forse il più interessante in una prospettiva letteraria) va infine ravvisato nell’urgenza alfieriana di ‘ragionare’ di «libertade», come M. «dello stato»: cioè mostrandosi, nell’analisi, «espertamente audace» e parlando «in suon sì forte, che in più maschia etade / vaglia a destar chi muto e schiavo or giace» (sonetto introduttivo in Del Principe e delle Lettere, in Scritti politici e morali, a cura di P. Cazzani, 1951, 1° vol., p. 115). Oltre che di filosofia politica, insomma, M. fu per A. un maestro di ars dictandi, lodato ed emulato per il suo dire «originalissimo e sugoso» (Vita scritta da esso, cit., 1° vol., p. 205). L’efficacia espressiva che A. sempre perseguì in tutte le sue opere risulta in massima parte debitrice ai modi «definitori e dilemmatici» di M., alle cui prose rimanda anche – esplicitamente – la strategia retorica dispiegata in molti titoli e dediche (cfr. Di Benedetto, in La lingua..., 2001, p. 162). Basterà qui ricordare, scegliendo un esempio topico, il trattato Del Principe e delle Lettere, che non solo si apre, ma si chiude anche sotto l’egida del «divino Machiavello», con un’Esortazione a liberar la Italia dai Barbari, ripresa dal Principe «non per altro [...], se non per mostrare che in diversi modi si può ottenere lo stesso effetto» (Del Principe II 11, in Scritti politici e morali, cit., 1° vol., p. 249). L’opera contiene inoltre (II 9) una celebre apologia di M., fondamentale per comprendere come l’interpretazione di A. abbia influito in modo decisivo sulla sua fortuna nella cultura italiana fra il triennio democratico e l’Unità. Oltre a rilanciare l’interpretazione ‘obliqua’ del Principe, infatti, A. celebrò le Istorie e i Discorsi, dove M. «ad ogni sua parola e pensiero respira libertà, giustizia, acume, verità, ed altezza di animo somma: onde chiunque ben legge, e molto sente, e nell’autore s’immedesima, non può riuscire se non un focoso entusiasta di libertà, e un illuminatissimo amatore d’ogni politica virtù» (Del Principe II 9, in Scritti politici e morali, cit., 1° vol., p. 182). L’invito di A. a eleggere M. «capo setta fra noi» fu, si può dire, pienamente fatto proprio dagli autori del nostro Risorgimento.
Bibliografia: Scritti politici e morali, a cura di P. Cazzani, 1°vol., Asti 1951; Vita scritta da esso, ed. critica a cura di L. Fassò, Asti 1951; Scritti politici e morali, a cura di C. Mazzotta, 3° vol., Asti 1984.
Per gli studi critici si vedano: M. Cerini, Machiavellismo e antimachiavellismo nelle tragedie dell’Alfieri, «Rassegna nazionale», 1936, 34, pp. 163-75; V. Placella, Alfieri comico, Bergamo 1973; G. Mazzoni, L’influenza di Machiavelli sulla Congiura de’ Pazzi di Alfieri, in Riscrittura, intertestualità, transcodificazione, Atti del Seminario di studi, Pisa 1991, a cura di D. Diamanti, Pisa 1992, pp. 231-60; G. Santato, Lo stile e l’idea. Elaborazione dei trattati alfieriani, Milano 1994; A. Di Benedetto, La Repubblica di Vittorio Alfieri, «Studi italiani», 1998, 10, 1, pp. 53-78; La lingua e le lingue di Machiavelli, Atti del Convegno, Torino 1999, a cura di A. Pontremoli, Firenze 2001 (in partic. A. Di Benedetto, «Il nostro gran Machiavello»: Alfieri e Machiavelli, pp. 155-67; E. Mattioda, Machiavelli e il teatro tragico del Settecento, pp. 169-84); E. Mattioda, Machiavelli nei trattati politici, in Alfieri in Toscana, Atti del Convegno, Firenze 2000, a cura di G. Tellini, R. Turchi, 1° vol., Firenze 2002, pp. 411-26; Alfieri tragico, a cura di E. Ghidetti, R. Turchi, «La rassegna della letteratura italiana», 2003, 2, nr. monografico (in partic. L. Melosi, Paragrafi sulla Rosmunda, pp. 524-40; F. Fedi, Fra Corinto e il Nuovo Mondo: il paradigma di Timoleone, pp. 550-63; C. Barbolani, Suggestioni dantesche nella Congiura de’ Pazzi, pp. 598-615; M. Sterpos, Lettura dell’Agide, pp. 668-86; G. Savarese, Bruto primo, pp. 703-16); S. Visentin, Acutissimus o prudentissimus? Intorno alla presenza di Machiavelli nel Trattato politico di Spinoza, «Etica & Politica», 2004, 1, http://www.units.it/etica (13 maggio 2013); M. Rosa, Dispotismo e libertà nel Settecento. Interpretazioni «repubblicane» di Machiavelli, Pisa 20052; M. Tatti, Roma antica soggetto tragico: l’eroismo di Virginia, in Alfieri a Roma, Atti del Convegno, Roma 2002, a cura di B. Alfonzetti, N. Bellucci, Roma 2006, pp. 435-49; G. Marcocci, Machiavelli, la religione dei Romani e l’impero portoghese, «Storica», 2008, 41-42, pp. 35-68; G. Tocchini, Alfieri, Vittorio, in Le Monde maçonnique des Lumières (Europe-Amériques) Dictionnaire prosopographique, éd. C. Porset, C. Révauger, Paris 2013, ad vocem.