Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Intellettuale e scrittore di primo piano, impegnato in una sperimentazione incessante che lo porta a un tenace lavoro di scavo nella tradizione classica italiana, Alfieri affronta problemi che lo avvicinano ad alcune grandi personalità europee: da Diderot a Lessing per la discussione sul teatro come esplorazione dell’interiorità, a David per la coesistenza di sublime e classico, ad Andrea Chénier per il rapporto problematico dell’intellettuale col potere. Alfieri incarna l’immagine preromantica dell’intellettuale ribelle, tragicamente destinato alla solitudine e all’incomprensione dei contemporanei.
Premessa
Vittorio Alfieri rappresenta per l’Italia il caso più singolare di intellettuale e scrittore la cui biografia si trova allacciata alla continua sperimentazione che caratterizza le sue opere, sia dal punto di vista formale che dei contenuti. Nato ad Asti il 16 gennaio 1749 da una famiglia aristocratica, Alfieri sente ben presto insoddisfazione e insofferenza verso la sua condizione e il suo ambiente sociale e culturale. Egli comprende che i valori della nobiltà sono in crisi e non più proponibili e vive per questo una tensione e una continua ricerca, volte a impadronirsi di un personale codice artistico e linguistico svincolato dal modello francese imperante tra l’aristocrazia dell’epoca. Tale senso di inquietudine spinge Alfieri a compiere una serie incessante di viaggi in Italia (il primo nel 1766), Francia (a partire dal 1767), Inghilterra, Olanda e poi in tutta Europa. A questo aspetto di carattere biografico si associa sotto il profilo artistico uno scavo tenace, quasi ossessivo, nella tradizione classica italiana, in una direzione che va dalla lirica alla tragedia come forme elette per esprimere un dissidio irrisolvibile.
In questo percorso Alfieri affronta problemi che lo avvicinano ad alcune grandi personalità europee come Diderot e Lessing per la discussione sul teatro come esplorazione dell’interiorità, David per la coesistenza di sublime e classico, Andrea Chénier per il rapporto problematico dell’intellettuale col potere. Va inoltre ricordata la grande prova narrativa dell’autobiografia, la Vita , in cui Alfieri elabora l’immagine preromantica dell’intellettuale ribelle, tragicamente destinato alla solitudine e all’incomprensione dei contemporanei; alla stesura della Vita si dedica fino alla morte (1803) e in essa ricostruisce la maturazione della sua personalità e della sua ispirazione letteraria.
All’origine di tutti questi fermenti culturali stanno, come Alfieri stesso racconta nella Vita, l’insofferenza verso l’autorità, incarnata da coloro che seguono l’educazione del giovane aristocratico, e il tormento continuo nell’inseguimento di una vocazione artistica. Costituisce un esempio emblematico l’aneddoto in cui Alfieri racconta di non aver voluto incontrare Metastasio a Vienna, pur ammirandolo molto, perché l’aveva visto genuflettersi davanti all’imperatrice Maria Teresa. I segni di un “carattere appassionato” improntano così il “bollore” degli anni giovanili e “l’umor malinconico” predominante nella maturità.
Le “fierissime malinconie” accompagnano la solitudine dell’autodidatta che affronta, molto spesso senza capirli, l’ Eneide di Caro e l’Ariosto, e preferisce i libretti di Metastasio, le commedie di Goldoni, o i romanzi sentimentali e avventurosi di Prévost e di Lesage.
Al prevalere di una cultura frivola, teatrale e spiccatamente cosmopolita segue allora il bisogno acuto di una lingua nuova e personale adatta all’espressione di un’interiorità irrequieta. Ed è proprio l’ascolto di un’opera buffa che provoca agitazione e languore, ma anche “singolarissimo bollore d’idee fantastiche”, cioè uno stato che porterebbe direttamente alla poesia, se fosse possibile riuscire a comporre.
Il rapporto tra passioni intense e linguaggio adatto alla loro espressione caratterizza così l’intera sperimentazione di Alfieri, a cominciare proprio dai primi tentativi di scrittura in francese, l’ Esquisse de jugement universel (1773) e la prima parte dei Giornali (1774-1775), un’autoanalisi critica e a tratti parodica in cui si passa dall’intonazione ironico-satirica a quella patetico-sentimentale (i modelli sono, oltre a Voltaire, ancora Lesage e Prévost).
Il mondo meschino della nobiltà torinese fa da sfondo a un Io eroico che guarda ai grandi ideali di Plutarco ma non disdegna di rappresentarsi, prendendo come fonte Montaigne, come “tissu d’inconséquences”, coacervo ridicolo di “tous les contrastes possibles”. Nella Vita poi si assisterà a una sorta di palinodia e questa contraddittorietà di fondo sarà resa più acuta dal giudizio di un Alfieri che scrive a posteriori. E così i Giornali diventeranno “marionette ridicole” e il francese una “linguaccia” imparata a caso in un “paese anfibio”.
La ricerca esistenziale diventa allora un lungo e continuo viaggio durante il quale la formazione del carattere si intreccia con l’apprendimento di una lingua, condizione indispensabile per la “conversione” letteraria, come egli la chiama. Solo purificandosi linguisticamente attraverso il toscano il giovane Alfieri troverà la lingua del poeta tragico e, al tempo stesso, la strada della scrittura.
Autobiografia, tragedie e poesia
È del 1774 il primo esperimento drammatico (una scena di dialogo né comica né tragica in cui compare il nome di Cleopatra), che trova realizzazione alla fine di un amore tormentato e servile, quando Alfieri decide di sviluppare l’abbozzo data la somiglianza tra il suo stato e quello del personaggio maschile del dramma, Antonio. Nasce così la Cleopatra , concepita simbolicamente dopo una malattia e un taglio di capelli che costringe lo scrittore a rinchiudersi in casa “urlando e ruggendo”, legato al tavolo di lavoro dal fedele servitore Elia. L’elaborazione tragica necessita di una lunga prigionia, quasi di una regressione allo stato bestiale che liberi per sempre dalla stucchevole melodia della lingua francese. Il fascino dell’avventuroso e del romanesque, che impronta le famose pagine di viaggio della Vita, sembra così cedere solo di fronte al concepimento e all’elaborazione delle opere teatrali, come se il “forte sentire”, condizione indispensabile per il poeta tragico moderno, necessitasse di totale concentrazione e isolamento.
Al Filippo e al Polinice, ancora “anfibie” perché nate in francese, segue, durante un soggiorno a Pisa (1776), l’ideazione e la stesura in prosa toscana dell’ Antigone, “prima non imbrattata di origine esotica”. Trovata la sua vocazione tragica, Alfieri conoscerà anni di grande fervore compositivo, tanto che nel 1782 avrà già composto 14 tragedie.
Se i teorici settecenteschi dell’origine del linguaggio avevano pensato a una lingua primitiva coincidente con la musica, Alfieri ricerca ora una primordiale lingua delle passioni anteriore al canto, un endecasillabo sciolto “sempre variato di suono”, capace di rendere la “forza” attraverso la “brevità”. La lingua della tradizione letteraria sta diventando il linguaggio tragico della dissonanza inconciliabile.
L’operazione letteraria e teatrale di Alfieri trova anche oppositori: il primo vero intervento critico sulla sua opera è la lettera del famoso autore di libretti per melodramma Ranieri de’ Calzabigi, che rileva eccessiva durezza e oscurità dello stile. Alfieri prepara allora una risposta (1783, pubblicata poi nell’edizione Didot delle Tragedie) con cui difende la sua opera definendola “rapida”, “semplice”, “tetra e feroce”, “calda”.
L’armonia dei versi tragici deve possedere una sua specifica riconoscibilità rispetto all’epica e alla lirica. Questa si può ottenere solo con la “non comune collocazione delle parole”, corrispondente a un “dire breve, e non cantabile, né cantato”. La perfetta superficie melodica del teatro classico di Racine si sta prosciugando per far affiorare in tutta la sua forza una crudeltà passionale fondata soprattutto su effetti stilistici (arcaismi lessicali, effetti fonici aspri, frequenza di iperbati nella sintassi).
A questa resa espressiva corrisponde sul piano strutturale una forma sempre più nervosa ed essenziale, ottenuta con l’eliminazione dei personaggi secondari e con l’accentuazione delle tensioni drammatiche tra il protagonista e il limite contro cui egli si scontra, sia questo incarnato in una figura autoritaria o in un ordine trascendente da abbattere. Così la lotta contro il potere e le sue manifestazioni è al centro di un primo gruppo di tragedie storico-mitologiche (Filippo, Polinice, Antigone, Agamennone, Oreste), dove l’unica via di scampo sembra quella del sacrificio.
Una seconda fase, ispirata dalla storiografia classica e da Machiavelli (Virginia, La congiura de’ Pazzi, Timoleone), si manifesta anche con la soluzione del tirannicidio e della ribellione popolare, per giungere infine ai due grandi momenti di Saul (1782) e di Mirra (1784), dove il conflitto tragico viene completamente assorbito dalla scissione interna alla psiche dei due protagonisti. Le fonti di queste due tragedie sono la Bibbia per Saul, in cui vengono rappresentate le ultime, drammatiche ore della vita del re Saul durante la guerra contro i Filistei, e la mitologia per Mirra; quest’ultima, promessa sposa a Pereo, futuro re dell’Epiro, è tormentata perché è stata condannata dall’offesa dea Venere ad amare il padre Ciniro. La macchina drammatica coincide con un progressivo e inarrestabile rivelarsi di forze interiori che distruggono i ruoli istituzionali sui quali si fonda l’io dei protagonisti. La risoluzione definitiva è nel suicidio che annulla l’eroe rimasto spoglio di fronte a se stesso. Nell’ultimo verso della Mirra, “io moriva … innocente; … empia … ora … muoio …”, il contrasto tra gli attribuiti “empia” e “innocente” sintetizza l’evoluzione interiore del personaggio approdato a una scissione irrimediabile che trova nella scelta della morte l’unica conciliazione possibile.
Forse anche per questo il tema mortuario diventa preponderante nella produzione lirica, quando il “forte sentire” non ha più bisogno di maschere teatrali. Nata dalle lunghe letture di Dante, di Tasso, ma soprattutto di Petrarca e di Cesarotti, l’esperienza lirica adotta come forma privilegiata il sonetto e porta, secondo il modello petrarchesco, all’organizzazione di un canzoniere-diario della propria tormentata intimità, giunto a una prima stampa nel 1789, col titolo di Rime. Anche la produzione poetica presenta una forte componente autobiografica; ogni testo riporta infatti un riferimento alla data e all’occasione che lo ha ispirato. Molte liriche sono dedicate alla contessa d’Albany, la donna amata da Alfieri; in queste la presenza del Canzoniere di Petrarca diviene ancor più evidente e significativa.
La liricità alfieriana presuppone un impulso romanzesco da iscrivere nei modi di una tradizione ormai conclusa e diviene perciò nostalgia, eco interiore.
Tirannia e libertà: i trattati e le Satire
Essendo la metamorfosi cambiamento, sarà una serie di trasformazioni simboliche a indicare il percorso di mutazione e maturazione dell’io. Nella Vita il processo di trasformazione è segnato dalle sequenze di viaggi che portano Alfieri a contatto con culture straniere e con spettacoli naturali capaci di risvegliare una sensibilità in cerca di eccitazioni continue. La formazione di un pensiero politico e la maturazione degli ideali estetici procedono in parallelo, a cominciare dalle letture degli illuministi, concentrate a Torino nell’inverno del 1769. Le Lettere filosofiche di Voltaire, Montesquieu e Helvétius (ridimensionato nel giudizio dopo le delusioni rivoluzionarie degli anni Novanta) confermano un atteggiamento materialistico che privilegia la sensibilità e, sul piano politico, svaluta tutte le forme di governo che non rispettano gli ideali di libertà, dall’assolutismo piemontese a quello russo di Caterina II.
Unica isola felice resta l’Inghilterra, dove la libertà personale è goduta con l’entusiasmo di un “coursier fier, et superbe” che scorrazza con vivacità tanto maggiore quanto più conosce la natura effimera del piacere. Anche se, con la sensibilità di un profeta, in una lettera del 10 gennaio 1771 Alfieri riesce a prevedere un pericolo per il governo inglese e a ipotizzare un momento in cui la “vaste superficie du globe” non offrirà più alcun rifugio dalla tirannia militare, che riporterà l’umanità a una nuova barbarie. Questa prospettiva tetra sembra anticipare l’analisi antilluministica del trattato Della tirannide (1777), dove la situazione estrema di una tirannide assoluta viene preferita a soluzioni moderate, in quanto capace di provocare il gesto eroico dell’insurrezione e il raggiungimento della libertà.
Dal momento che il potere del tiranno esige la stessa sottomissione del monoteismo religioso – la polemica alfieriana si dirige con forza contro la gerarchia della Chiesa cattolica – nasce l’immagine disperata di un mondo asservito alla dea Paura, vero oggetto di un culto moderno al quale sacrificano, per ragioni opposte, oppressi e oppressori: “Rabbrividisce nella sua reggia il tiranno allorché si fa egli ad esaminare quale smisurato odio il suo smisurato potere debba necessariamente destare nel cuore di tutti”.
La scenografia teatrale si allarga così fino a ricoprire il mondo intero; libertà politica e libertà interiore rivelano ancora una volta il loro legame profondo.
Se “i sensi, nell’uomo, son tutto” e, come vuole anche Edmund Burke, il potere rappresenta una delle fonti del sublime, di fronte agli artisti sublimi che si esprimono con segni visivi, cioè i pittori e gli scultori, Alfieri difende le ragioni degli scrittori capaci di incidere con più forza sui sensi del pubblico: è questo il tema al centro del trattato Del principe e delle lettere , scritto a partire dal 1778 e concluso nel 1786. La scrittura rappresenta l’unica forma espressiva capace di bastare a sé medesima “e il di cui artista ritrovi tutta in se stesso la materia per eseguire”. Così, sempre in un’ottica sublime che coinvolge produttori e consumatori, “il dire altamente alte cose, è un farle in gran parte”, e il gesto del grande scrittore risulta addirittura maggiore di qualsiasi altro, dal momento che unisce la grandezza dell’atto narrato a quella del detto: “in lui ci è per lo più l’eroe di cui narra, e ci è di più il sublime narratore”. Scrivere cose sublimi implica “sublimissimo animo”, e l’impulso dello scrittore diventa vero eroismo nel momento in cui contrasta con la tirannia e riesce a smuovere l’opinione pubblica grazie alla sua opera.
Accanto a queste analisi il trattato considera che fra le possibilità concesse agli scrittori moderni ci sia quella di “migliorare e illuminar l’uomo col farlo ridere” e che le armi del ridicolo siano buone alleate nella lotta contro la tirannide. Del resto Alfieri, “scimmiotto di Voltaire” fin dagli anni giovanili, dichiara nella Vita la propria predisposizione alla satira “ed all’appiccicare il ridicolo sì alle cose che alle persone”. Andavano in quella direzione non solo le letture di Voltaire, ma anche gli umori del Gil Blas di Lesage, dove l’avventura del picaro scettico si rivelava capace di cogliere con cinismo l’aspetto comico delle cose.
Dopo aver lasciato Parigi per Firenze, nel 1792, Alfieri termina la stesura delle sue diciassette Satire (1796-97) e del Misogallo , una durissima invettiva nei confronti della Francia. Molti dei temi che trovano compimento nelle Satire erano già stati abbozzati in precedenza: a diventare primo oggetto dello strale satirico sarà l’infedeltà femminile verificata in proprio nell’avventura londinese con Penelope Pitt, protagonista di una mai pubblicata Novella prima, che poi trasfonde la sua carica ironica e ariostesca nella pagine della Vita (III, 10-11). Un secondo abbozzo di satira, Nobili e galanteismo (1777), diventa nove anni dopo Il cavalier servente di ispirazione pariniana. Nei 17 componimenti satirici si passano in rassegna aspetti e personaggi tipici della società settecentesca, dalla nobiltà alla borghesia, dall’educazione alla filantropia, dai metodi educativi alle mode.
Se le Rime costituiscono la trasfigurazione alta dei moti interiori, poi giustificati narrativamente nell’autobiografia, le Satire riprendono a loro volta gran parte dei momenti biografici proiettandoli in una dimensione di amaro sarcasmo universale. Alto e basso, miseria e nobiltà sono infatti i poli estremi nei quali Alfieri di continuo riflette un universo interiore scisso tra “bollore” e “malinconia”.
“Io riuniva in me, per così dire, il gigante ed il nano”, si dice in una famosa affermazione della Vita. “Uom, se’ tu grande, o vil? Muori, e il saprai” suona l’ultimo verso di un altrettanto famoso autoritratto in versi.
Vittorio Alfieri
Mirra si lascia sfuggire il suo segreto
Mirra, Atto V, scene I-III
Scena 1
CINIRO: Oh sventurato, oh misero Perèo!
Troppo verace amante!... Ah! s’io più ratto
al giunger era, il crudo acciaro forse
tu non vibravi entro al tuo petto. - Oh cielo!
Che dirà l’orbo padre? ei lo attendeva
sposo, e felice; ed or di propria mano
estinto, esangue corpo, innanzi agli occhi
ei recar sel vedrà. - Ma, sono io padre
men di lui forse addolorato? è vita
quella, a cui resta, infra sue furie atroci,
la disperata Mirra? è vita quella,
a cui l’orrido suo stato noi lascia? -
Ma, udirla voglio: e già di ferreo usbergo
armato ho il core. Ella ben merta (e il vede)
il mio sdegno; ed in prova, al venir lenta
mostrasi: eppur, dal terzo messo ella ode
già il paterno comando. - Orribil certo,
e rilevante arcano havvi nascoso
in questi suoi travagli. O il vero udirne
dal di lei labro io voglio, o mai non voglio,
mai più, vederla al mio cospetto innante...
Ma, (oh ciel!) se forza di destino, ed ira
di offesi Numi a un lagrimar perenne
la condanna innocente, aggiunger deggio
l’ira d’un padre a sue tante sventure?
E abbandonata, e disperata, a lunga
morte lasciarla?... Ah! mi si spezza il core...
Pure, il mio immenso affetto, in parte almeno,
ora è mestier, ch’io per la prova estrema,
le asconda. In suon di sdegno ella finora
mai non mi udia parlarle: il cor si saldo,
no, donzella non ha, che incontro basti
al non usato minacciar del padre. -
Eccola al fine. - Oimè! come si avanza
a tardi passi, e sforzati! Par, ch’ella
al mio cospetto a morire sen venga.
Scena 2 - CINIRO, MIRRA
CINIRO: - Mirra, che nulla tu il mio onor curassi,
creduto io mai, no, non l’avrei; convinto
me n’hai (pur troppo!) in questo dì fatale
a tutti noi: ma, che ai comandi espressi,
e replicati del tuo padre, or tarda
all’obbedir tu sii, più nuovo ancora
questo a me giunge.
MIRRA: ...Del mio viver sei
signor, tu solo... Io de’ miei gravi,... e tanti
falli... la pena... a te chiedeva,... io stessa,...
or dianzi,... qui... - Presente era la madre;...
deh! perché allor... non mi uccidevi?...
CINIRO: È tempo.
Tempo ormai, sì, di cangiar modi, o Mirra.
Disperate parole indarno muovi;
e disperati, e in un tremanti, sguardi
al suolo affissi indarno. Assai ben chiara
in mezzo al dolor tuo traluce l’onta;
rea ti senti tu stessa. Il tuo più grave
fallo, è il tacer col padre tuo: lo sdegno
quindi appien tu ne merti; e che in me cessi
l’immenso amor, che all’unica mia figlia
io già portai. - Ma che? tu piangi? e tremi?
e inorridisci?... e taci? - A te fia dunque
l’ira del padre insopportabil pena?
MIRRA: Ah!... peggior... d’ogni morte...
CINIRO: Odimi. - Al mondo
favola hai fatto i genitori tuoi,
quanto te stessa, coll’infausto fine
che alle da te volute nozze hai posto.
Già l’oltraggio tuo crudo i giorni ha tronchi
del misero Perèo...
MIRRA: Che ascolto? Oh cielo!
CINIRO: Perèo, sì, muore; e tu lo uccidi. Uscito
del nostro aspetto appena, alle sue stanze
solo, e sepolto in un muto dolore
ei si ritrae: null’uomo osa seguirlo.
Io, (lasso me!) tardo pur troppo io giungo...
Dal proprio acciaro trafitto, ei giacea
entro un mare di sangue: a me gli sguardi
pregni di pianto e di morte inalzava;...
e, fra i singulti estremi, dal suo labro
usciva ancor di Mirra il nome. - Ingrata...
MIRRA: Deh! più non dirmi... Io sola, io degna sono,
di morte... E ancor respiro?...
CINIRO: Il duolo orrendo
dell’infelice padre di Perèo,
io che son padre ed infelice, io solo
sentir lo posso: io ’l so, quanto esser debba
lo sdegno in lui, l’odio, il desio di farne
aspra su noi giusta vendetta. - Io quindi,
non dal terror dell’armi sue, ma mosso
dalla pietà del giovinetto estinto,
voglio, qual de’ padre ingannato e offeso,
da te sapere (e ad ogni costo io ’l voglio)
la cagion vera di sì orribil danno. -
Mirra, invan me l’ascondi: ah! ti tradisce
ogni tuo menom’atto. - Il parlar rotto;
lo impallidire, e l’arrossire; il muto
sospirar grave; il consumarsi a lento
fuoco il tuo corpo; e il sogguardar tremante;
e il confonderti incerta; e il vergognarti,
che mai da te non si scompagna:... ah! tutto,
sì tutto in te mel dice, e invan tu il nieghi;...
son figlie in te le furie tue... d’amore.
MIRRA: Io?... d’amor?... Deh! nol credere... T’inganni.
CINIRO: Più il nieghi tu, più ne son io convinto.
E certo in un son io (pur troppo!) omai,
ch’esser non puote altro che oscura fiamma,
quella cui tanto ascondi.
MIRRA: Oimè!... che pensi?...
Non vuoi col brando uccidermi;... e coi detti...
mi uccidi intanto...
CINIRO: E dirmi pur non l’osi,
che amor non senti? E dirmelo, e giurarlo
anco ardiresti, io ti terria spergiura. -
Ma, chi mai degno è del tuo cuor, se averlo
non potea pur l’incomparabil, vero,
caldo amator, Perèo? - Ma, il turbamento
cotanto è in te; ...tale il tremor; sì fera
la vergogna; e in terribile vicenda,
ti si scolpiscon sì forte sul volto;
che indarno il labro negheria...
MIRRA: Vuoi dunque...
farmi... al tuo aspetto... morir... di vergogna?...
E tu sei padre?
CINIRO: E avvelenar tu i giorni,
troncarli vuoi, di un genitor che t’ama
più che se stesso, con l’inutil, crudo,
ostinato silenzio? - Ancor son padre:
scaccia il timor; qual ch’ella sia tua fiamma,
(pur ch’io potessi vederti felice!)
capace io son d’ogni inaudito sforzo
per te, se la mi sveli. Ho visto, e veggo
tuttor, (misera figlia!) il generoso
contrasto orribil, che ti strazia il core
infra l’amore, e il dover tuo. Già troppo
festi, immolando al tuo dover te stessa:
ma, più di te possente, Amor nol volle.
La passïon puossi escusare; ha forza
più assai di noi; ma il non svelarla al padre,
che tel comanda, e ten scongiura, indegna
d’ogni scusa ti rende.
MIRRA: - O Morte, Morte,
cui tanto invoco, al mio dolor tu sorda
sempre sarai?...
CINIRO: Deh! figlia, acqueta alquanto,
l’animo acqueta: se non vuoi sdegnato
contra te più vedermi, io già nol sono
più quasi omai; purché tu a me favelli.
Parlami deh! come a fratello. Anch’io
conobbi amor per prova: il nome...
MIRRA: Oh cielo!...
Amo, sì; poiché a dirtelo mi sforzi;
io disperatamente amo, ed indarno.
Ma, qual ne sia l’oggetto, né tu mai,
né persona il saprà: lo ignora ei stesso...
ed a me quasi io ’l niego.
CINIRO: Ed io saperlo
e deggio, e voglio. Né a te stessa cruda
esser tu puoi, che a un tempo assai nol sii
più i genitori che ti adoran sola.
Deh! parla; deh! - Già, di crucciato padre,
vedi ch’io torno e supplice e piangente:
morir non puoi, senza pur trarci in tomba. -
Qual ch’ei sia colui ch’ami, io ’l vo’ far tuo.
Stolto orgoglio di re strappar non puote
il vero amor di padre dal mio petto.
Il tuo amor, la tua destra, il regno mio,
cangiar ben ponno ogni persona umile
in alta e grande: e, ancor che umil, son certo,
che indegno al tutto esser non può l’uom ch’ami.
Te ne scongiuro, parla: io ti vo’ salva,
ad ogni costo mio.
MIRRA: Salva?... Che pensi?...
Questo stesso tuo dir mia morte affretta...
Lascia, deh! lascia, per pietà, ch’io tosto
da te... per sempre... il piè... ritragga...
CINIRO: O figlia
unica amata; oh! che di’ tu? Deh! vieni
fra le paterne braccia. - Oh cielo! in atto
di forsennata or mi respigni? Il padre
dunque abborrisci? e di sì vile fiamma
ardi, che temi...
MIRRA: Ah! non è vile;... è iniqua
la mia fiamma; né mai...
CINIRO: Che parli? iniqua,
ove primiero il genitor tuo stesso
non la condanna, ella non fia: la svela.
MIRRA: Raccapricciar d’orror vedresti il padre,
se la sapesse... Ciniro...
CINIRO: Che ascolto!
MIRRA: Che dico?... ahi lassa!... non so quel ch’io dica...
Non provo amor... Non creder, no... Deh! lascia,
te ne scongiuro per l’ultima volta,
lasciami il più ritrarre.
CINIRO: Ingrata: omai
col disperarmi co’ tuoi modi, e farti
del mio dolore gioco, omai per sempre
perduto hai tu l’amor del padre.
MIRRA: Oh dura,
fera orribil minaccia!... Or, nel mio estremo
sospir, che già si appressa,... alle tante altre
furie mie l’odio crudo aggiungerassi
del genitor?... Da te morire io lungi?...
Oh madre mia felice!... almen concesso
a lei sarà... di morire... al tuo fianco...
CINIRO: Che vuoi tu dirmi?... Oh! qual terribil lampo,
da questi accenti!... Empia, tu forse?...
MIRRA: Oh cielo!
Che dissi io mai?... Me misera!... Ove sono?
Ove mi ascondo?... Ove morir? - Ma il brando
tuo mi varrà...
CINIRO: Figlia... Oh! che festi? il ferro...
MIRRA: Ecco... or... tel rendo... Almen la destra io ratta
ebbi al par che la lingua.
CINIRO:... Io... di spavento,...
e d’orror pieno, e d’ira,... e di pietade,...
immobil resto.
MIRRA: Oh Ciniro!... Mi vedi...
Presso al morire... Io vendicarti... seppi,...
e punir me... Tu stesso, a viva forza,
l’orrido arcano... dal cor... mi strappasti...
Ma, poiché sol colla mia vita... egli esce...
dal labro mio, men rea... mi moro...
CINIRO: Oh giorno!
Oh delitto!... Oh dolore! - A chi il mio pianto?...
MIRRA: Deh! più non pianger;... ch’io nol merto... Ah! sfuggi
mia vista infame;... e a Cecri... ognor... nascondi...
CINIRO: Padre infelice!... E ad ingojarmi il suolo
non si spalanca?... Alla morente iniqua
donna appressarmi io non ardisco;... eppure,
abbandonar la svenata mia figlia
non posso...
Scena 3 - CECRI, EURICLEA, CINIRO, MIRRA
CECRI: Al suon d’un mortal pianto...
CINIRO: Oh cielo!
Non t’inoltrar...
CECRI: Presso alla figlia...
MIRRA: Oh voce!
EURICLEA: Ahi vista! nel suo sangue a terra giace
Mirra?...
CECRI: La figlia?...
CINIRO: Arretrati...
CECRI: Svenata!
Come? da chi?... Vederla vo’...
CINIRO: Ti arretra
inorridisci... Vieni... Ella... trafitta,
di propria man, s’è col mio brando...
CECRI: E lasci
così tua figlia?... Ah! la vogl’io...
CINIRO: Più figlia
non c’è costei. D’infame orrendo amore
ardeva ella per... Ciniro...
CECRI: Che ascolto? -
Oh delitto!...
CINIRO: Deh! vieni: andiam, ten priego,
a morir d’onta e di dolore altrove.
CECRI: Empia... - Oh mia figlia!...
CINIRO: Ah! vieni...
CECRI: Ahi sventurata!...
Né più abbracciarla io mai?...
V. Alfieri, Agamennone, Mirra, a cura di V. Branca, Milano, Rizzoli, 1981
Vittorio Alfieri
Rissa a Madrid
Vita, Parte I, epoca III, cap. XII
In questo modo me la passai in quel primo viaggio sino a Madrid; e tanto era il genio che era andato prendendo per quella vita di zingaro, che subito in Madrid mi tediai, e non mi vi trattenni che a stento un mesetto; né ci trattai né conobbivi anima al mondo, eccetto un oriuolaio, giovine spagnuolo che tornava allora di Olanda, dove era andato per l’arte sua. Questo giovinetto era pieno d’ingegno naturale, ed avendo un pocolino visto il mondo si mostrava meco addoloratissimo di tutte le tante e sì diverse barbarie che ingombravano la di lui patria. E qui narrerò brevemente una mia pazza bestialità che mi accadde di fare contro il mio Elia, trovandovisi in terzo codesto giovine spagnuolo. Una sera che questo oriuolaio avea cenato meco, e che ancora si stava discorrendo a tavola dopo cenati, entrò Elia per ravviarmi al solito i capelli, per poi andarcene tutti a letto; e nello stringere col compasso una ciocca di capelli, me ne tirò un pochino più l’uno che l’altro. Io, senza dirgli parola, balzato in piedi più ratto che folgore, di un man rovescio con uno dei candelieri ch’avea impugnato glie ne menai un così fiero colpo su la tempia diritta, che il sangue zampillò ad un tratto come da una fonte sin sopra il viso e tutta la persona di quel giovine, che mi stava seduto in faccia all’altra parte di quella assai ben larga tavola dove si era cenati. Quel giovane, che mi credé (con ragione) impazzito subitamente, non avendo osservato né potendosi dubitare che un capello tirato avesse cagionato quel mio improvviso furore, saltò subito su egli pure come per tenermi. Ma già in quel frattempo l’animoso ed offeso e fieramente ferito Elia, mi era saltato addosso per picchiarmi; e ben fece. Ma io allora snellissimo gli scivolai di sotto, ed era già saltato su la mia spada che stava in camera posata su un cassettone, ed avea avuto il tempo di sfoderarla. Ma Elia inferocito mi tornava incontro, ed io glie l’appuntava al petto; e lo Spagnuolo a rattenere ora Elia, ed or me; e tutta la locanda a romore; e i camerieri saliti, e così separata la zuffa tragicomica e scandalosissima per parte mia. Rappaciati alquanto gli animi si entrò negli schiarimenti; io dissi che l’essermi sentito tirar i capelli mi avea messo fuor di me; Elia disse di non essersene avvisto neppure; e lo Spagnuolo appurò ch’io non era impazzito, ma che pure savissimo non era. Così finì quella orribile rissa, di cui io rimasi dolentissimo e vergognosissimo e dissi ad Elia ch’egli avrebbe fatto benissimo ad ammazzarmi. Ed era uomo da farlo; essendo egli di statura quasi un palmo più di me che sono altissimo; e di coraggio e forza niente inferiore all’aspetto. La piaga della tempia non fu profonda, ma sanguinò moltissimo, e poco più in su che l’avessi colto, io mi trovava aver ucciso un uomo che amavo moltissimo per via d’un capello più o meno tirato. Inorridii molto di un così bestiale eccesso di collera; e benché vedessi Elia alquanto placato, ma non rasserenato meco, non volli pure né mostrare né nutrire diffidenza alcuna di lui; e un par d’ore dopo, fasciata che fu la ferita, e rimessa in sesto ogni cosa me n’andai a letto, lasciando la porticina che metteva in camera di Elia, aderente alla mia, aperta al solito, e senza voler ascoltare lo Spagnuolo che mi avvertiva di non invitare così un uomo offeso e irritato di fresco ad una qualche vendetta. Ma io anzi dissi forte ad Elia che era già stato posto a letto, che egli poteva volendo uccidermi quella notte se ciò gli tornava comodo, poiché io lo meritava. Ma egli era eroe per lo meno quanto me; né altra vendetta mai volle prendere, che di conservare poi sempre due fazzoletti pieni zeppi di sangue, coi quali s’era rasciutta da prima la fumante piaga; e di poi mostrarmeli qualche volta, che li serbò per degli anni ben molti. Questo reciproco misto di ferocia e di generosità per parte di entrambi noi, non si potrà facilmente capire da chi non ha esperienza dei costumi e del sangue di noi Piemontesi.
Io, nel rendere poi dopo ragione a me stesso del mio orribile trasporto, fui chiaramente convinto, che aggiunta all’eccessivo irascibile della natura mia l’asprezza occasionata dalla continua solitudine ed ozio, quella tiratura di capello avea colmato il vaso, e fattolo in quell’attimo traboccare. Del resto io non ho mai battuto nessuno che mi servisse se non se come avrei fatto un mio eguale; e non mai con bastone né altr’arme, ma con pugni, o seggiole, o qualunque altra cosa mi fosse caduta sotto la mano, come accade quando da giovine altri, provocandoti, ti sforza a menar le mani. Ma nelle pochissime volte che tal cosa mi avvenne, avrei sempre approvato e stimato quei servi che mi avessero risalutato con lo stesso picchiare; atteso che io non intendeva mai di battere il servo come padrone, ma di altercare da uomo ad uomo.
V. Alfieri, Vita, a cura di G. Dossena, Torino, Einaudi, 1967
Vittorio Alfieri
Il poeta si descrive
Sublime specchio di veraci detti
Sublime specchio di veraci detti,
mostrami in corpo e in anima qual sono:
capelli, or radi in fronte, e rossi pretti;
lunga statura, e capo a terra prono;
sottil persona in su due stinchi schietti;
bianca pelle, occhi azzurri, aspetto buono;
giusto naso, bel labro, e denti eletti;
pallido in volto, più che un re sul trono:
or duro, acerbo, ora pieghevol, mite;
irato sempre, e non maligno mai;
la mente e il cor meco in perpetua lite:
per lo più mesto, e talor lieto assai,
or stimandomi Achille, ed or Tersite:
uom, se’ tu grande, o vil? Muori, e il saprai.
V. Alfieri, Opere, a cura di V. Branca, Milano, Mursia, 1974