Alfieri, Vittorio
Vittorio Alfieri (Asti 1749 - Firenze 1803) è il maggior scrittore italiano di tragedie. Nacque nel Piemonte sabaudo, da nobile famiglia e studiò alla Reale Accademia di Torino, dove compì, come dice egli stesso, «studj pedanteschi e mal fatti» (Vita II, 2). Dal 1766 intraprese lunghi viaggi, non insoliti nell’educazione aristocratica settecentesca, prima in Italia, poi in quasi tutta Europa. Parlava correntemente francese, lingua della Corte sabauda e lingua comune alle persone colte d’Europa, e in francese scrisse alcune lettere, i primi testi letterari, le pagine di diario datate 1774-75 e la versione in prosa delle prime due tragedie, Filippo e Polinice (1775).
Il francese di Alfieri era un francese d’uso, talvolta libero e scorretto, ma complessivamente buono. Nella conversazione con amici piemontesi e col servo Elia usava il dialetto piemontese (cfr. Beccaria in Alfieri 1983: 15). L’italiano, cioè il toscano classico, fu per lui una vera «conquista», raggiunta attraverso lunghi studi e grande amore per la lingua letteraria. Nel 1772 prese dimora a Torino, fino al trasferimento in Toscana (1776), dettato dall’ansia di impossessarsi della lingua italiana, considerata necessaria per l’attività di scrittore.
Soggiornò principalmente a Firenze, ma anche a Siena e Pisa, inaugurando così la pratica, molto diffusa nell’Ottocento, del soggiorno toscano per imparare a «parlare, udire, pensare, e sognare in toscano, e non altrimenti mai più» (Vita IV, 2). Il mito di Firenze è quello di una capitale della lingua letteraria, non della lingua della conversazione. Firenze è ai suoi occhi «simbolo letterario della autentica tradizione italiana incontaminata da influssi esterni e servilismo» (Beccaria 1976: 111). Nel 1775, dopo aver messo mano alle prime tragedie, insoddisfatto dal comporre «versi italiani di pensieri francesi» (Vita IV, 1), iniziò un lavoro di lettura dei grandi autori italiani di tutti i secoli, e la trascrizione e annotazione di Dante e Petrarca. Volle assimilare l’eterna lingua dei classici per parlare anche ai posteri, secondo un ideale tipicamente classicistico, già presente in Bembo.
Nell’autobiografia Alfieri racconta la sua «spiemontizzazione» e «sfrancesizzazione», la conquista della lingua italiana e la maturazione della vocazione poetica (su questi aspetti, cfr. Beccaria 1976, cui si deve la lettura di Alfieri come scrittore periferico alla ricerca della lingua). Documentano il processo di apprendimento dell’italiano anche il diario e gli appunti di lingua.
In anni giovanili (novembre 1774 - febbraio 1775), Alfieri tenne un diario personale, inizialmente in francese, dopo poche pagine interrotto, «perché la difficoltà d’esprimersi in toscano era somma, e la natural ripugnanza a sparlar di sé non minore» (Alfieri 1994: 24). Ne riprese la stesura nel 1777, questa volta in italiano, col proposito di usare quel «diario» (così lo chiama nella Vita), o «giornale» (come lo chiama negli anni in cui lo scrive), sia per riflettere sulla sua vita giornaliera, sia per esercitarsi col toscano letterario e plasmarsi uno stile. Queste pagine private furono pubblicate per la prima volta nel 1861 con qualche censura da Emilio Teza, col titolo Giornali, titolo accolto e conservato nelle edizioni successive del Novecento (il ms., oggi alla Biblioteca Laurenziana di Firenze, non portava titolo).
Intorno agli anni 1778-80, per migliorare il proprio italiano e colmare lacune lessicali, Alfieri raccolse più di seicento forme toscane, affiancate alle corrispondenti francesi o piemontesi. Si tratta degli Appunti di lingua, definiti da Beccaria (in Alfieri 1983: 11) il «primo vocabolarietto domestico dell’uso toscano»: una raccolta di vocaboli ed espressioni utili soprattutto per la conversazione. L’ambito semantico dei termini è infatti per lo più quello familiare-domestico: attività quotidiane, piante, animali, attrezzi, giochi e modi di dire, frasi proverbiali. Abbiamo così, per es., «Etre aux ecoutes - Origliare - Origliar uno», «Promettre monts, et merveilles - Mari, e Mondi», «Armé de piéd en cap - Di tutto punto», oppure, con parole piemontesi, «Ramassa - Granata - Scopa», «Basouté - Baciucchiare». Alfieri attingeva il lessico sia dalla viva voce dei fiorentini, sia dalla consultazione della Crusca, come dimostrano i riscontri di Beccaria (in Alfieri 1983: 16-18), il quale osserva che i corrispondenti francesi di molti termini toscani sono in realtà traduzioni delle brevi definizioni del termine a lemma nella quarta edizione del Vocabolario (es. «Faire la cour aux Dames - Donneare», «Faire le maitre - Donneggiare»).
Nel complessivo disordine della raccolta si trovano, in successione, parole italiane appartenenti allo stesso campo semantico o fonicamente imparentate sulla base del significante. Da questo dato si deduce che il punto di partenza nella raccolta di voci era il toscano, non il francese né il piemontese. Insieme agli appunti sono elencate anche alcune espressioni, definite dallo scrittore come «modi di dire poetici» o «giri di lingua», tratte dai più grandi autori della nostra letteratura antica, come il petrarchesco «farsi colonna al fianco d’un ramo». La natura del taccuino era dunque strumentale e privata. Esso fungeva probabilmente da pronto soccorso linguistico sia per le esigenze pratiche sia per l’attività letteraria.
La Vita, scritta nel 1790 e ripresa tra il 1798 e il 1803, offre un esempio della prosa matura di Alfieri. Il carattere stilisticamente più rilevante è la coesistenza di elementi tradizionali, talvolta anche iperletterari, e di tratti innovativi o colloquiali, rilevati sia nel lessico sia nella sintassi (per l’analisi di lingua e stile, cfr. Tomasin 2009).
Il gusto per la brevitas e l’incisività narrativa si individua nello stile nominale (esempi in Serianni 1993: 542; Tomasin 2009: 217), con sintassi semplice e periodi quasi privi di subordinate, e nelle fortunate iuncturae, coniate non tanto per novità quanto per ricerca dell’espressione condensata («chiacchiere gazzettarie», «vortice grammatichevole», «barbaria di gallicheria»).
L’inventiva lessicale di questa prosa si deve soprattutto all’uso intensivo di suffissi per formare parole alterate e derivate e neologismi. L’alterazione ha spesso valore satirico (così i sostantivi vanitaduzza e tisicuzzo) tra i suffissi più usati per i derivati, si menzionano -esco (per es., gli aggettivi burattinesco, serventesco) ed -eria (per es., i nomi gallicheria e oltramontaneria); alcuni neologismi si ottengono fondendo in composti nuovi voci già esistenti (servipadroni, schiavi-democratizzata, entrambi riferiti alla società francese rivoluzionaria); altre neoformazioni sono verbi parasintetici come disceltizzarsi, disvassallarsi e incalessare. Alfieri impiega anche espressioni popolari, usate ancor più ampiamente nell’epistolario degli anni Settanta e Ottanta: «con un palmo di naso», «rompersi le corna», «dar di stomaco».
La lingua letteraria è parametro di scelta per l’introduzione di alcuni usi sintattici toscaneggianti (Tomasin 2009: 220-221). Dalla prima alla seconda stesura della Vita, Alfieri rivede lingua e stile sulla base dei modelli antichi, amplia il testo, in taluni casi inserisce inversioni sintattiche di sapore letterario (non mancano però controesempi in cui passa all’ordine naturale).
La prosa alfieriana è dunque segnata da opposte tendenze di recupero di termini arcaici e coniazione di neologismi. Di queste opposte tendenze si trova traccia anche negli Appunti di lingua, nei quali si contano tra i neologismi gingillare e cartolinare e tra gli arcaismi donneare anziché il già diffuso francesismo settecentesco «fare la corte» o il pan-italiano «fare l’amore» (che aveva allora lo stesso significato). Il neologismo domina nelle Satire, negli Epigrammi e nelle Commedie. Migliorini (1960: 559) registra, tra i neologismi alfieriani, disappassionarsi, gallicismo, italichesco, repubblichino, vocaboliera, e ricorda che alcuni alfierismi sono entrati nell’uso letterario (così misogallo e odiosamato; anche snaturato deve probabilmente la sua fortuna ad Alfieri).
Quanto al linguaggio della tragedia, esso è e deve essere per Alfieri a sé stante, distante da quello di tutti gli altri generi letterari e da quello della conversazione quotidiana. L’autore adottò rigorosamente la lingua letteraria della tradizione, spesso scegliendo le forme più arcaiche. Di qui la sostituzione dei condizionali toscani con quelli poetici e, in genere, l’adozione di varianti più auliche: sarebbe > saria, poi fora; vivrei > vivria; n’andava > men giva (Coletti 1993: 217-219).
Lo stile tragico si caratterizza per un volontario allontanamento dalla normalità e dal «cantabile», attraverso la trasposizione sintattica e la spezzatura delle frasi: «I’lo tengo io finora / quel, che non vuoi tu, trono» (Antigone III, 1), «Fa di rispetto menzognero all’alma / tua infida, atroce, ambiziosa, velo» (Filippo IV, 2). L’autore ottiene così un linguaggio elevato, aspro e duro, per il quale fu criticato da Ranieri de’ Calzabigi e da ➔ Melchiorre Cesarotti, che gli rimproverarono la mancanza di naturalezza e scorrevolezza, causata, tra i tanti fattori, dalla soppressione quasi totale degli articoli, dalle inversioni forzate e dalle insistenti ripetizioni dei pronomi personali a breve distanza (tratto entrato nello stile tragico cinquecentesco come imitazione dei modelli greci), usate da Alfieri per «enfatizzare le personalità contrapposte […] allo scopo di esasperare la tensione dialettica» (Sorella 1993: 780). I versi delle sue tragedie non dovevano essere languidi, triviali, prolissi, slombati, fluidi, ma energici, maschi e feroci (cfr. Vita IV, 1-2).
Alfieri si presentò ai contemporanei come l’inventore dello stile tragico italiano. Dichiarò tra i propri modelli linguistici scrittori celebri in altri generi letterari. Disse di ricavare l’endecasillabo sciolto, spezzato e ricco di enjambement, da Cesarotti; l’alternanza di ritmo da Virgilio; il metro «poco sonante, e spezzato» da Seneca. Non si ricollegò mai ai tragici italiani a lui precedenti o contemporanei, anche se, indubbiamente, i suoi stilemi erano in gran parte quelli consolidati nella tradizione tragica a partire dal Cinquecento. Certo Alfieri raggiunse livelli di maestria mai toccati prima, tanto da essere considerato il più perfetto rappresentante della tragedia classica italiana.
La composizione delle tragedie era scandita in tre fasi, illustrate nella Vita: ideazione, stesura, verseggiamento. I testi venivano dapprima ideati, poi scritti in prosa, infine messi in versi. L’operazione non era però conclusa, perché il poeta doveva «limare, levare, mutare» (Vita IV, 4), quindi aggiustare e riscrivere i versi per raggiungere uno stile sublime, denso e brachilogico. Soltanto nelle ultime tragedie ritenne di essersi approssimato al proprio ideale.
Nelle Rime la lingua rispecchia i modelli del passato e osserva il monolinguismo petrarchesco. Le varianti tendono generalmente verso una forma più arcaica: mai > unque, anima > alma, lontano > lungi, prima > primiera (Beccaria 1993: 686). Significativa la scelta ideologica espressa da un sonetto dedicato al rimpianto per la chiusura dell’Accademia della Crusca, in un secolo in cui tutti gli illuministi e illuminati plaudevano a quella decisione di Pietro Leopoldo di Toscana:
L’idioma gentil sonante e puro,
per cui d’oro le arene Arno volgea,
orfano or giace, afflitto, e mal sicuro;
privo di chi il più bel fior ne cogliea
(sonetto CLXIII, vv. 1-4).
Anche se Alfieri fa esplicita professione di fede filotoscana e antifrancese, la lingua d’oltralpe lascia qualche involontaria traccia nei suoi scritti. Nelle tragedie, Sorella (1993: 780) vede ricalcata la sintassi francese nella formazione dell’imperativo negativo con semplice anteposizione dell’avverbio negativo all’imperativo e non all’infinito (per es., «non temi» e «non chiedi» al posto di non temere e non chiedere). Nelle prime stesure in lingua italiana, il francese aveva in alcuni casi influenzato la grafia: vocali e sillabe sono talvolta accentate per l’attrazione del corrispondente francese. Quest’uso è superato nella stesura della Vita, nella quale i pochi tratti francesizzanti sono anche attestati nella tradizione italiana più illustre (Tomasin 2009: 244).
In tutti i mss. di Alfieri l’accentazione del francese, se non può dirsi arbitraria, non segue una regola costante, la quale del resto non era ancora stabilizzata nemmeno negli scriventi madrelingua francesi. Negli Appunti di lingua l’autore usa per il francese grafie fonetiche e sbaglia talvolta l’uso delle doppie. Anche le parole toscane schedate hanno alcuni errori nell’uso delle doppie. Nell’autobiografia si alternano liberamente grafie e forme concorrenti, secondo l’uso settecentesco.
Dalle pagine della Vita si ricavano informazioni sulle lingue studiate da Alfieri, oltre al toscano. Durante il primo soggiorno a Firenze, studiò l’inglese, apprezzato soprattutto perché gli riconosceva un primato civile, quello di essere la lingua della patria di «vera libertà» e del «miglior governo» (Vita III, 6). Dal 1776 dovette ristudiare il latino perché quasi completamente dimenticato: «Mi nacque una onesta e cocente vergogna di non più intendere quasi affatto il latino» (Vita IV, 2), e anche nel diario, in data aprile 1777, si legge: «La serata si lesse al crochio un estratto di Bacone in latino. Io non intesi quasi nulla»; e ancora: «Io pochissimo intendea della disputa per esser latina» (Alfieri 1994: 32, 35). Dal latino compì poi alcune traduzioni (per es., Terenzio e Virgilio). Decise di imparare il greco da autodidatta, a quarantasette anni, aiutandosi con traduzioni latine dei principali testi letterari e con grammatiche. Dopo due anni di studio fu in grado di leggere e tradurre senza ostacoli anche da quella lingua classica.
Disprezzò il francese e la Rivoluzione, gli ideali illuministici e lo spirito borghese che la Francia andava diffondendo in Europa. Tali temi sono trattati nel Misogallo, scritto negli anni Novanta. La lingua francese è apertamente biasimata nell’autobiografia; in alcuni passi Alfieri nega addirittura di conoscerla bene. Questa palinodia non si colloca sullo sfondo dei dibattiti linguistici interni alla cultura piemontese del tempo, con il prevalere della corrente aristocratica «italianista» dell’Accademia dei Filopatridi e il successo delle posizioni antifrancesi di Galeani Napione, ma (come nota Tomasin 2009: 241) è espressione di una «passione misogallica [che] si nutre di ragioni nuove e più profonde rispetto al generico antifrancesismo di tanti contemporanei», e che ha come vessillo non la patria politica ma quella letteraria.
Alfieri, Vittorio (1951), Vita scritta da esso in Opere di Vittorio Alfieri da Asti, a cura di L. Fassò, Asti, Casa d’Alfieri, 40 voll., voll. 1°-2°.
Alfieri, Vittorio (1978), Vita, rime e satire, nuova ed. a cura di G.G. Ferrero & M. Rettori; introduzione di L. Fassò, Torino, UTET (1a ed. 1968).
Alfieri, Vittorio (1983), Appunti di lingua e letterari in Opere di Vittorio Alfieri da Asti, a cura di G.L. Beccaria & M. Sterpos, Asti, Casa d’Alfieri, 1951-1989, 40 voll., vol. 39°.
Alfieri, Vittorio (1994), Giornale, in Id., Mirandomi in appannato specchio, a cura di A. Di Benedetto, Palermo, Sellerio, pp. 9-51.
Beccaria, Gian Luigi (1976), I segni senza ruggine. Alfieri e la volontà del verso tragico, «Sigma» 9, 1/2, pp. 107-151.
Beccaria, Gian Luigi (1993), Dal Settecento al Novecento, in Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni & P. Trifone, Torino, Einaudi, vol. 1° (I luoghi della codificazione), pp. 679-749.
Coletti, Vittorio (1993), Storia dell’italiano letterario, Torino, Einaudi.
Migliorini, Bruno (1960), Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni.
Serianni, Luca (1993), La prosa, in Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni & P. Trifone, Torino, Einaudi, vol. 1° (I luoghi della codificazione), pp. 451-577.
Sorella, Antonio (1993), La tragedia, in Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni & P. Trifone, Torino, Einaudi, vol. 1° (I luoghi della codificazione), pp. 751-792.
Tomasin, Lorenzo (2009), «Scriver la vita». Lingua e stile nell’auto-biografia italiana del Settecento, Firenze, Cesati.