DE SICA, Vittorio
Nacque a Sora (Frosinone) il 7 luglio 1901 da Umberto, assicuratore napoletano, e da Teresa Manfredi. Dopo essersi diplomato in ragioneria, apparve in uno spettacolo di dilettanti, per una serata di beneficenza, al teatro Valle di Roma il 28 maggio 1922, cantando e recitando. Il suo esordio come generico (un cameriere) avvenne nel 1923 nella compagnia T. Pavlova in Sogno d'amore di A. Kosorotov: erano gli anni del teatro "all'antica italiano" a conduzione mattatoriale, dove si andava ad applaudire il divo alla moda che faceva il "direttore" di interpreti minori destinati soltanto a metterlo in luce. Il professionismo teatrale del D. nacque con l'attrice-regista Pavlova che, oltre ad essere mattatrice, ebbe il merito di trasferire in Italia le esperienze della scena russa. Sempre nella stessa compagnia, come secondo brillante prese parte alle prime italiane di Romanzo di E. Brewster Sheldon e di varie opere di F. Molnar e di P. M. Rosso di San Secondo (fu notato per la prima volta da R. Simoni nei panni del solfataro interpretato "con giovanile vivezza" ne L'avventura terrestre dell'autore nisseno al teatro Diana di Milano l'11 apr. 1924). Sempre come secondo brillante entrò nella compagnia Italia-Almirante-Manzini (1925-26) diretta da L. Almirante, che era tra i pochi attori a rinunziare alla sua pur spiccata personalità per concertare una recitazione in cui tutti fossero affiatati ed impegnati al di fuori delle graduatorie e delle prevenzioni. Divenne attor giovane nella Almirante-Rissone-Tofano (1927-29), accedendo così ad una parte principale, con un repertorio boulevardier, elegante, divertente, che si piccò di non sconfinare mai nel volgare e si cimentò con puntate in direzione della commedia elisabettiana e di quella borghese (Volpone, adattamento di A. De Stefani da B. Jonson, novità assoluta, teatro Manzoni di Milano, 8 apr. 1929; e Odi uno o di nessuno di L. Pirandello, in prima al Teatro di Torino, 4 nov. successivo, parte di Carlino Sanni). Negli stessi anni comparve saltuariamente sullo schermo diretto da M. Almirante ne La bellezza del mondo (1926) e ne La compagnia dei matti (1928) accanto a L. Almirante e, sulle scene, in tre fiabe di Sto, cioè di S. Tofano, briose, vivaci, con costumi coloratissimi, in cui era Partecipazio o il bellissimo Cecè. Finalmente G. Salvini, il primo regista italiano nel senso moderno del termine (egli non recitò mai, ma si limitò a dirigere con equilibrio ed eleganza gli attori mettendosi umilmente al servizio dell'opera d'arte), lo scelse come primo attore per la compagnia Artisti associati: il D. vi interpretò, tra le altre novità, L'isola meravigliosa di U. Betti, la più ardua (teatro Manzoni, 3 ott. 1930), e L'amore fa fare questo ed altro di A. Campanile, la più imprevedibile (ibid., 17 ott. successivo, ma sospesa dopo pochi giorni "a furor di pubblico"). E. Bertuetti ricorderà del suo personaggio "quella buona educazione innata che gli permette di creare con naturalezza e sullo stesso piano il gentiluomo un po' imbastito e il candido povero diavolo" e "la sua arte dolcissima e canagliesca di dire cantando e viceversa" con un sorriso che da allora in poi sarà chiamato "alla De Sica". Le difficoltà finanziarie della compagnia Salvini provocarono nell'attore una brusca deviazione verso il teatro più corrivo, sempre attuale ma attento alle esigenze del botteghino: entrato nella compagnia Za Bum nº 8 diretta da M. Mattoli, comparve in Totò, commedia "festosa e arguta" di B. Franck (teatro Olimpia di Milano, 4 apr. 1931), poi ne Le lucciole della città, rivista di O. Biancoli e D. Falconi (ibid., 18 apr. successivo); la stampa quotidiana lo citò con rilievo: "il De Sica è stato applaudito più volte a scena aperta dopo alcune canzonette cantate con gusto fine e lieto".
Questa esperienza del D. si collocò nel periodo in cui, con l'avvento del fascismo, le riviste avevano imboccato la formula del grande spettacolo puntando sul fascino delle ballerine e sul magnetismo del fine dicitore; la presenza di attori di prosa serviva, poi, ad innalzarne il tono e a sottrarle allo scadimento dell'avanspettacolo. Il successo fu grande e costituì un vero fenomeno di costume la coppia comica De Sica-Melnati, destinata ad una scrittura per una serie di dischi e di trasmissioni radiofoniche (D. Falconi affermerà: "De Sica batté in tromba tutti i tenorini che avevano fino allora afflitto la canzonetta popolare").
Il 1932 è l'anno in cui il D. si affermò definitivamente anche come attore cinematografico. I due film d'esordio come protagonista confermarono la sua disponibilità a qualsiasi offerta, ma anche la ricca personalità di un attore giovane duttile e per nulla legato ad un ruolo: in Due cuorifelici, edizione italiana, diretta da B. Negroni, di un film brillante tedesco prehitleriano, rivestì i panni di Mr. Brown, un industriale americano dell'automobile che corteggia per una sera una dattilografa credendola la moglie del suo direttore di filiale, non uscendo dalla caricatura non sempre volontaria (il legame con i contemporanei spettacoli Za Bum stava nella struttura da operetta con couplets cantati), e ne Gli uomini, che mascalzoni, di M. Camerini su soggetto di questo e di A. De Benedetti, in una direzione opposta a quella del film precedente, propose un autista, Bruno, inquadrato in una Milano autentica, alle prese con situazioni e dialoghi della realtà popolare. L'attore, che in frac nell'altro film faceva il verso ai modelli americani, creò allora, con i pochi tocchi essenziali di una recitazione lieve e schietta, un personaggio quotidiano, dai problemi semplici e mai banali; mentre gli altri attori di teatro rifacevano nel cinema il se stesso della scena, il D. creò una figura a cui certamente la scena non lo aveva preparato e che si allontanava dai tipi del suo repertorio. Sfruttando la popolarità conseguita in teatro, Mattoli portò sullo schermo la sigla Za Bum come casa produttrice e realizzò Un cattivo soggetto (1933) per la regia di C. L. Bragaglia: l'attore, figurandovi come Willy, secondo F. Sacchi "tiene con naturalezza lo schermo, trovando quasi sempre il tono giusto". I film successivi, però, delusero il pubblico che non ritrovava più la genuinità del Bruno del film di Camerini. Terminata l'esperienza del teatro di riviste, nel nov. 1933 il D. entrò in ditta in una nuova formazione di prosa, la Tofano-Rissone-De Sica: il cartellone, programmaticamente boulevardier, attingeva al Barrie, al Födor, al Noé.
In Terry e il suo partner di quest'ultimo (teatro Odeon di Milano, 24 nov. 1933) l'interprete poté scavare al di là del repertorio consueto: un giovane, Lui, troppo a lungo vissuto all'ombra di un celebre clown, di cui è il reale autore di tutte le gags, finalmente si ribella (R. Simoni, affermando "da quella comicità a sfumature sentimentali che gli riesce al bene, è salito agli accenti del dramma con una specie di brusca inesperienza che è risultata di una efficacia e di una simpatia singolarissime", rivelava tuttavia di preferirlo in Intorno alla tavola di L. Födor, al teatro Olimpia il 19 ott. 1934, in quanto si limitava a portare sulla scena "ancora una volta la sua limpida giovanilità piena di simpatia").Il periodo della Tofano-Rissone-De Sica segnò anche l'inizio di un lungo e cordiale sodalizio con due autori italiani che scriveranno per lui in esclusiva alcuni dei loro testi più noti e saranno fra gli sceneggiatori dei film da lui interpretati: A. De Benedetti e G. Gherardi, il primo, simbolo, per il teatro italiano, della commedia dei "telefoni bianchi", ricalcata sulla pochade francese o sulla sua variante ungherese, a base di equivoci sentimentali e di tradimenti coniugali consumati nel rispetto delle forme (il divertimento epidermico fu assicurato dal personaggio di Alfredo in Lohengrin al teatro Argentina di Roma il 28 dic. 1933, tanto da essere successivamente portato sullo schermo da N. Malasomma con gli stessi interpreti principali); il secondo, senza possedere una vera unità d'indirizzo, abile artigiano di dialoghi emotivamente atteggiati, con qualche tenue suggestione poetica (ottenne un inaspettato successo Questi ragazzi! al teatro Quirino il 28 maggio 1934, in cui il D. rivestì la parte di Vincenzo e che fu pure tradotto in film qualche anno più tardi). Nel 1935spiccò un nuovo film del Camerini, Darò un milione, con l'apporto di C. Zavattini come soggettista insieme a G. Mondaini. L'incontro con lo scrittore emiliano, che nacque di qui, darà i suoi frutti più tardi, mentre in questo film sono adombrati alcuni motivi del futuro Miracolo a Milano: nella situazione del personaggio di Gold, un milionario che si traveste da povero e vive una giornata felice al di fuori della sua condizione abituale, si ritrova il mondo poetico che il D. sentiva come congeniale e che lo porterà a stabilire un nuovo rapporto con un umorismo di più sottili e poetiche suggestioni culturali. Nel triennio 1936-39fu la volta della formazione De Sica-Rissone-Melnati diretta dal D.: il repertorio era sempre di piacevole intrattenimento e il De Benedetti scrisse su misura per i tre nomi in ditta Due dozzine di rose scarlatte che andò in scena al teatro Argentina l'11 marzo 1936 (nella tenue commedia intessuta delle sorridenti ed evanescenti schermaglie di una coppia di coniugi alla ricerca di sottili turbamenti adulterini il D. era l'ingegnere Alberto Verani). Il 7 luglio 1937 il D. aveva sposato ad Asti la Rissone (che gli darà una figlia, Emi); parallelamente agli spettacoli paludati in costume commissionati dal regime su schemi propagandistici, si recitava da parte della sua compagnia un repertorio antieroico, disimpegnato, maliziosamente sorridente; così L. Ridenti: "Ecco i tre attori più cari al pubblico. È evidente che De Sica, la Rissone e Melnati hanno un fascino particolare incontestabile. E che il pubblico ha confidenza con loro: questo vuol dire guadagnare giorno per giorno quella popolarità che ebbero, in passato, grandissimi attori". Nel cinema continuarono i film di riporto, come Partire di A. Palermi da G. Gherardi (1938, parte di Paolo Veronda), con le notevoli eccezioni di due film fortunatissimi di Camerini, Il signor Max (1937), in cui il D. era il giornalaio Gianni aspirante ad un ruolo mondano che in definitiva si rivela, oltre che irraggiungibile, sciocco e fatuo, e Grandi magazzini (1939) che riportava l'attore a un personaggio molto vicino a quello de Gli uomini, che mascalzoni, un autista, di nome Bruno anch'egli, che difende fino al successo finale la commessa di un grande magazzino milanese ingiustamente accusata di furto dal capo del personale. Il D. era insoddisfatto dei traguardi di puro successo cui era pervenuto, si rammaricava di essere definito lo Chevalier italiano e polemicamente indicava come suo autore preferito Pirandello, annunciando di voler interpretare Liolà (loespresse in una serie di dichiarazioni e interviste sul suo proposito di svolta artistica). Il 1940, invece che l'addio al cinema, gli aprì inaspettatamente la porta della regia cinematografica, con la quale consegnerà il suo nome alla storia dello spettacolo. L'esordio fu compiuto in sordina, col rifacimento del suo maggiore successo teatrale, Due dozzine di rose scarlatte (titolo Rose scarlatte e firma del coregista Giuseppe Amato); il D. si limitava a dirigere gli attori curando ancora poco i movimenti di macchina e il tono della fotografia, sostituendosi agli interpreti, mostrando loro come dovevano muoversi, come dire le battute, guardandosi dallo strafare e considerando l'attore D. un elemento del film, disciplinato ed attento. Rotto il felice sodalizio col Melnati, assieme alla moglie entrò a far parte della compagnia Tofano-Rissone-De Sica, diretta da Tofano, rimanendo per terzo in ditta e lasciando a questo la responsabilità capocomicale. Fino al 1942, in piena guerra, la formazione allestì una nutrita serie di lavori di rilievo: tra gli altri, le riprese de La scuola della maldicenza di R. Brinsley Sheridan (teatro Nuovo di Milano, 11 febbr. 1941, parte di Charles con finale canoro), di Ma non è una cosa seria di Pirandello (ibid., marzo successivo, parte di Memmo Speranza), commedia che nel 1936 era stata tradotta in un film poco significativo da Camerini, e de Inostri sogni di U. Betti (teatro Olimpia, 20 marzo successivo, parte di Leo), le prime de Il paese delle vacanze, una storia lieve ed amara pure di Betti (teatro Odeon, 20 febbr. 1942) e de L'ex alunno di G. Mosca (politeama Margherita di Genova, 11 maggio successivo, parte di Guglielmo Rossi), una garbata satira della poesia ermetica, e la ripresa di Liolà (teatro Nuovo, 8 giugno 1942).
Il Dramma, a proposito de Il paese delle vacanze, riportò che il D., nella parte dello svagato e gaudente Alberto, recitò con una "bravura mirabile di intonazioni felici e di particolari deliziosi" e, a proposito di Liolà, per la prima volta recitato in lingua, che lo spettacolo era stato dominato dal D. che vi componeva la figura del protagonista "con una pienezza e giustezza di eloquio e di mimica davvero ammirevole".
Nel frattempo nacque Teresa Venerdi (1941), terzo film del D. regista interpretato come dr. Pietro Vignali, ancora sostanzialmente legato alle atmosfere di quelli di Camerini, che, però, volto a un montaggio serrato di eventi paralleli, in una atmosfera gaia ma non senza qualche riflessione di carattere sociale, segna alcuni mutamenti di gusto che porteranno il cinema italiano fuori dalle convenzioni dei film dei telefoni bianchi". Tofano accettava, alle soglie del crollo del regime, la direzione di una compagnia stabile e romana, presso il teatro Quirino, organizzatagli dall'Ente teatrale italiano (ETI), la nuova struttura di Stato da poco creata; la formazione si appoggiava a riprese di prestigio ed utilizzava in partecipazione straordinaria il D. e A. Pagnani per un testo importante di G. B. Shaw, Il dilemma del dottore (24 marzo 1943, parte di Dudebat). Tratto da un romanzo di G. G. Viola, il film Ibambini ci guardano, proiettato alla fine del 1943, fu sottovalutato dai critici della Repubblica sociale italiana, nonostante esso segni il passaggio dalla commedia brillante all'opera socialmente impegnata. Il piccolo Pricò, nella sceneggiatura collegiale in cui ebbe larga parte C. Zavattini, assume da protagonista l'indagine, depurata da ogni banalità, del mondo della piccola borghesia; anticipatore di Sciuscià come studio della condizione del bambino solo o abbandonato, il film si configura anche come dramma dell'egoismo e dell'incomprensione degli adulti che portano alla disgregazione del vincolo famigliare. Contemporaneamente, il 18 dic. 1941 il D. comparve al teatro Argentina in Goldoni e le sue sedici commedie nuove di P. Ferrari: per commemorare la tragica morte di R. Cialente, accettò di ricoprire una parte brevissima, quella di Paoletto, insieme ai più bei nomi del teatro italiano. Dopo la liberazione di Roma diresse la compagnia Isa Miranda. Furono anni di sopravvivenza, con modeste possibilità di tournées nei pochi teatri del Sud superstiti dei bombardamenti o non requisiti dalle truppe alleate: il repertorio era modellato sulla personalità della Miranda puntellata dall'esperienza del D.: emerse il Tovarich di J. Deval (Napoli, 2 sett. 1944, parte di Mikhail Aleksander Kuratiev, per la quale S. De Feo scrisse che egli riuscì "il migliore generale consorte apparso finora nei Tovarich da noi rappresentati"). In attesa di tempi migliori un gruppo di attori, tra cui E. Merlini, U. Melnati, E. Giusti, G. Agus, si riunirono per offrire agli spettatori del teatro Valle di Roma, nel dic. 1944, una rivista musicale di V. Metz, Ma dov'è questo amore?:nel copione ricomparvero gli sketch e le canzoncine di Za Bum, insomma le facezie appena rinverdite dal D. che recitava in paglietta coadiuvato prontamente dal Melnati, il tutto sotto la regia occasionale di E. Giannini. L'anno successivo, con l'avvento della pace e il ripristino delle stagioni regolari, A. Blasetti volle cimentarsi nella regia teatrale e allestì pertanto una compagnia stabile al romano teatro delle Arti, riunendovi alcuni dei migliori giovani attori della prosa e del cinema, dal D. a V. Cortese, da M. Girotti a E. Cegani, da M. Mercader ad A. Proclemer: vennero annunciati tre spettacoli, ma ne furono rappresentati due, Il tempo e la famiglia Conway di J. Boynton Priestley (18 apr. 1945) e Ma non è una cosa seria (maggio successivo). Il primo, spettacolo di complesso, fu composto da Blasetti con un severo lavoro di scavo sul materiale umano, in particolare sul D. che nel personaggio di Alan profuse "una dolcezza tutta interiore ... una specie di allegrezza in sordina"; nel secondo, assai lontano sia dall'edizione teatrale del 1941 che dal film cameriniano del 1936, ambedue di esito discusso, il regista approfondiva i significati del testo, ravvivandone il ritmo, e il D. vi si faceva apprezzare per un Memmo Speranza "assai fino". Il nuovo D. attore cinematografico che emerse tra tanti film del primo dopoguerra fu quello acquisito dalle ultime stagioni teatrali, misurato, dolce, triste, non di rado patetico o drammatico senza esagerazione (aveva superato i 45 anni). In Abbasso la ricchezza! di G. Righelli (1946) fu il conte svanito accanto ad A. Magnani, in Sperduti nel buio di C. Mastrocinque (1947) fu Nunzio, in Natale al campo 119 di P. Francisci (1948) fu il nobile napoletano fatuo ma innocuo, e in Cuore di D. Coletti (1948) fu il maestro socialista che gli valse il "Nastro d'argento" per il miglior attore. Nel 1946 si formò la compagnia spettacoli Effè De Sica-Gioi-Besozzi, l'ultima di cui egli sia stato capocomico. L. Visconti firmò la regia de Il matrimonio di Figaro di Beaumarchais, messo in scena dopo il veto fascista di sei anni prima, in una lettura assai discussa per le propensioni verso il balletto ma di grande resa spettacolare (teatro Quirino, 19 genn. 1946). V. Marinucci vide il D., nella parte in titolo, "a cavallo tra l'umanità e una festosità da animatore di féerie", ma E. Contini avrebbe desiderato "più giocosa, mordente e impartinente furbizia". Se ne Le cocu magnifique di F. Crommelynck (teatro Olimpia di Milano, 26 marzo successivo) ebbe una parte di fianco, dominò nella novità di W. Saroyan Igiorni della vita (ibid, 6 aprile successivo): si trattava del saggio di diploma in regia presso l'Accademia di arte drammatica del giovane A. Celi cui il D. e G. Besozzi avevano offerto l'opportunità di portarlo, con la loro compagnia, a dimensioni professionali; V. Pandolfi scrisse che "centro di questo fluttuare di casi e di uomini, delle gioie e delle tristezze di ognuno è sempre Joe e De Sica descrive con molta aderenza questo personaggio, accorato apostolo e tenero fratello di ogni uomo". La formazione si trovò purtroppo, con i suoi allestimenti di grande impegno, in difficoltà finanziarie. Per l'ultima volta il D. fu costretto ad allestire in fretta all'Olimpia una rivista di O. Biancoli e D. Falconi, Ah! ... ci risiamo (25 aprile successivo): su Il Mattino d'Italia fu definito "chansonnier scapricciato e coloritissimo attore dialettale". Finiva la presenza regolare sulle scene del D. attore che apparirà soltanto ne L'impresario delle Smirne (Giardini di Venezia, agosto 1947, riduzione e regia del Simoni) con un Cruscarello reso in modo eccezionale secondo G. C. Castello, che ne sottolineò "la cafoneria fatua e meschina", e in Lettere d'amore di G. Gherardi (teatro Eliseo di Roma, 2 e 3 apr. 1949, regia di G. Salvini in commemorazione dell'autore).
Col film Sciuscià del 1946 (Academy Award speciale 1947) il D. entrava nella storia del cinema, realizzando il terzo capolavoro del neorealismo italiano, dopo i due film di R. Rossellini Roma città aperta e Paisà: ispirato alla storia di due lustrascarpe incontrati dal regista due anni prima, il racconto, sceneggiato dallo Zavattini, illustra le miserabili condizioni di vita dell'Italia liberata; semplice e dimesso, costituisce un viaggio nella miseria affidato ad annotazioni apparentemente marginali che rivelano, però, il nucleo drammatico dell'azione e un atto d'accusa contro il sistema giudiziario e carcerario dei minori che trasforma due ragazzi in precoci delinquenti. Del 1948 è il suofilm più premiato (tra l'altro con l'Academy Award 1949 per il miglior film straniero e col premio speciale della giuria al IV Festival di Locarno 1949), Ladri di biciclette: girato nelle strade come il primo con attori non professionisti (e professionisti in minima parte), riscosse un enorme successo in tutto il mondo; sceneggiato ancora una volta da Zavattini, il racconto, affidato a particolari apparentemente casuali, presenta un episodio di vita popolare in cui il furto della bicicletta di un attacchino municipale è pretesto per una analisi penetrante dell'oscura arte della sopravvivenza nei più squallidi quartieri romani. Con Miracolo a Milano (1951, Palma d'oro al Festival di Cannes dello stesso anno) il D. incorse in un clamoroso insuccesso commerciale: ricavata dal suo racconto Totò il buono, Zavattini sceneggiò una fiaba surreale che non risparmiava gli uomini di potere; nonostante desse ampio respiro alla vena favolistica del soggettista, il regista, nell'affettuosa descrizione delle miserie quotidiane, si attenne alla sua matrice stilistica collaudata con l'ausilio, in finale, degli effetti speciali nella celebre sequenza del volo dei barboni a cavallo delle scope. Sempre nello stesso anno, con Umberto D il D. pervenne a quello che per G. Sadoul è l'ultima componente di quella tetralogia di Zavattini e D. che costituisce l'opera più importante del neorealismo italiano, per G. C. Castello opera tra le più compiute del cinema italiano, e per G. Rondolino il punto più alto del lavoro comune con Zavattini (altro insuccesso di cassetta, ottenne peraltro il premio per il miglior film al Festival di Punta del Este 1952): in uno stile scarno e vigoroso il film descrive la solitudine della vecchiaia, non concede nulla al populismo che fino ad allora si era insinuato nella vena creativa del D. e applica, nel modo più compiuto, quella "poetica del quotidiano" che caratterizza la narrativa dello scrittore di Luzzara; le immagini paiono dettate da una fredda oggettività, da documentario spietato della realtà e, ciononostante o forse proprio per questo, hanno una forza comunicativa che non subisce tramonti.
Dopo queste prove, le più alte della sua opera registica, anche per le polemiche sullo "sciorinamento dei panni sporchi" che coinvolsero lui e il suo soggettista-sceneggiatore al punto che parve che i due dovessero separarsi, il D. tornò a fare l'attore sia per recuperare i guadagni sfumati in precedenza ma anche per concludere dignitosamente una prepotente vocazione. Nei molti film che egli interpretò da uomo maturo e da vecchio si rinvengono il frettoloso e il facile, le parti di carattere e quelle - poche - da protagonista, sempre sorrette dal mestiere filtrato dall'ironia. Quelli che lasciarono una traccia durevole furono, tra gli altri, Buongiorno elefante di G. Franciolini (1952) in cui impersonò il maestro Garetti imbarazzato dall'ingombrante regalo di un elefante, Altri tempi (Zibaldone n. 1) di A. Blasetti (1952) in cui fu un tronfio ed esilarante avvocato napoletano nel processo a una moderna Frine, e Tempi nostri (Zibaldone n. 2) pure di Blasetti (1953) in cui impersonò la crepuscolare figura di un conte decaduto che fa la comparsa cinematografica. Si ripropose attore in una breve ma densa apparizione come giocatore svanito in una disperata partita a carte con un bambino in un film che, dopo il deludente Stazione Termini (1953), lo riportò di nuovo, come regista, all'attenzione degli spettatori: si tratta de L'oro di Napoli (1954) che, soprattutto con gli episodi Il funeralino e I giocatori, raggiunse un notevole risultato espressivo, nonostante che il resto non superasse i limiti del buon prodotto di consumo. Nel 1956 arrivò Iltetto che segnò la fine del periodo più valido della collaborazione tra Zavattini e il D. (la quale si protrarrà fino al 1974, cioè fino all'ultimo film del regista): un film di "stanca dolcezza" sul problema della casa e della coabitazione forzata, qua e là segnate da una crisi espressiva, nonostante il facile richiamo al primo neorealismo. I film successivi non riuscirono ad uscire dagli schemi dello spettacolo tradizionale, elegante quanto superficiale, se si eccettua La ciociara (1960) che, episodio di punta della sua "svolta industriale" (così fu chiamato con una certa malizia l'inizio della sua fase involutiva), possiede un ampio respiro narrativo quando descrive lo strazio di una madre umiliata dagli oltraggi della guerra e accenna pudicamente alla malinconica vocazione alla morte di un intellettuale antifascista. Intanto l'attore ne Ilgenerale Della Rovere di R. Rossellini (1959) aveva ricoperto la parte più importante del suo ultimo scorcio di carriera, il doppiogiochista Giovanni Bertone, che maturava per gradi, prima povero imbroglione e sfruttatore di donnine credule, via via coinvolto dalla tragedia della guerra, infine travolto dalla sua assurda fedeltà al trasformismo, e aveva caratterizzato gustosamente il padre millantatore in Un italiano in America di A. Sordi (1967). Il 1961 era stato l'anno della sua ultima regia teatrale: il 31 ott. era andato in scena al teatro Quirino di Roma Liolà del Pirandello, che però aveva irritato V. Pandolfi a causa del "discutibilissimo" criterio di alternare il siciliano all'italiano e al napoletano e delle inutili ridondanze stilistiche. Sempre in compagnia di Zavattini e con l'acquiescenza di una parte della critica che lo aveva completamente relegato nel ruolo dell'abile mestierante tuttofare, il D. si sentiva come rassicurato che la realtà che aveva intorno poteva essere vista tra lacrime dolci e liberatorie e in grado di dire le sue verità commuovendo e divertendo in vista di facili successi di cassetta, al riparo di quella "pigrizia" che pure era una delle sue caratteristiche professionali. Tale fu il caso del pur corposo episodio La riffa del Boccaccio '70 (1962), il solo del film curato dallo Zavattini, di Ieri, oggi, domani (1963, Academy Award per il miglior film straniero), in cui soltanto l'episodio Adelina, dovuto al lampo psicologico di E. De Filippo, può dirsi veramente riuscito, sia pure al livello dell'aneddoto piccante e intelligente, e di Un mondo nuovo (1965), riscattato, peraltro, da una delicata sensibilità introspettiva.
Il D. intuiva moltissimo, vedeva molto, leggeva poco, non scriveva nulla, come scrisse C. Cosulich che curò la pubblicazione su riviste delle lettere alla figlia Emi da Napoli in occasione delle riprese di Ieri, oggi, domani e dall'U.R.S.S. in occasione di quelle de I girasoli (28 giugno-31 luglio 1969): dal momento che gli interventi orali che passavano sotto la sua firma erano per lo più fuggevoli dichiarazioni di regia o propositi di film futuri, particolare interesse rivestono le ultime, di tono tra l'attonito e lo schifiltoso, con le notazioni di costume sul crematorio di Mosca e sulla fila al mausoleo di Lenin, sui pranzi e i balli popolari e, soprattutto, con la descrizione dei campi di girasoli necessari per le riprese del film, a proposito del quale T. Kezich affermò che, in un contesto asettico, si evidenziava una scena "firmata", quella di uomini e donne tacitamente disperati che mostrano ai reduci dalla Russia le fotografie dei congiunti dispersi.
Nel quadro dei suoi ultimi film, accanto alle apparizioni televisiva nel Pinocchio di L. Comencini come giudice il 22 apr. 1972 e cinematografica ne Il delitto Matteotti di F. Vancini (1973) come Mauro del Giudice, spiccarono due regie: Ilgiardino dei Finzi Contini (1970, Orso d'oro del XXI Festival di Berlino 1971), rimarchevole per finezza d'indagine psicologica e per condotta degli attori, come per l'abilità nell'impostazione del colore, e Una breve vacanza (1973), storia di una operaia calabrese alle prese, per un momento, con l'amore, lontana dall'ignoranza e dalla maligna e ricattatoria violenza familiare: un film delicato e amaro, in cui il D. parve ritrovare la vena narrativa dei suoi primi capolavori nei quali la cinepresa, quasi non facendosi sentire, scrutava, "toccava" le cose nel loro esatto, graduale accadere.
Con la problematica di questa pellicola si accomiatava dal pubblico, praticamente, uno dei tre fondatori del neorealismo (con il Rossellini e il Visconti): aveva segnato con loro la nascita di una nuova scuola italiana e, con il contributo determinante di Zavattini, aveva interpretato prima l'amara realtà postbellica di un paese materialmente e moralmente dilaniato; poi la paziente ricerca di un'umile felicità in un'Italia che riprendeva a vivere, con una partecipazione commossa assente negli altri due autori, nelle prove migliori non ancora inquinata dal divismo degli interpreti, narratore misurato e garbato attraverso una macchina da presa manovrata con tocco morbido e disteso. Per questo, come scrisse C. Lizzani, riuscì "a far diventare importanti le cose piccole, a dare un senso profondo alle vicende più quotidiane", anche quando tentava "la scorciatoia della favola per allargare a più vaste proporzioni un disegno del mondo italiano costruito pezzo per pezzo, un film per volta, negli anni precedenti".
Nel 1967 aveva chiesto e ottenuto la nazionalità francese per sottrarsi a quella che egli considerava una vera "persecuzione" da parte del fisco italiano e per poter divorziare dalla Rissone, dalla quale viveva separato dopo aver conosciuto, nel 1941, l'attrice spagnola Maria Mercader sul set del suo Un garibaldino al convento; la sposò infatti a Fans il 6 apr. 1968 alla presenza dei due figli, Manuel e Christian, avuti da lei (la Mercader ricorderà, oltre che la sua tenerezza di marito e il fascino che sapeva irradiare in quanti lo conoscevano, l'insopprimibile passione per il gioco d'azzardo che l'accompagnò dai tempi delle magre cinquine giovanili sino alla vigilia della morte). La sua parabola di regista si chiuse definitivamente con Ilviaggio (1974), storia, d'ispirazione pirandelliana, di un viaggio d'amore verso la morte, permeata di una malinconia che era in qualche modo un presagio; l'aveva diretto tra molte precauzioni, dopo aver subito un intervento chirurgico a Ginevra per sospetto tumore polmonare. Sopravvenuto l'aggravamento, fu ricoverato dapprima in una clinica romana poi, il 9 nov., in una clinica privata di Parigi dove spirò alle 5 del 13 nov. 1974.
Fonti e Bibl.: Corriere della sera, 5, 19 apr. 1931; 14 nov. 1974 (necr.); Il Dramma, 15 giugno 1936; 1º marzo, 1º luglio 1942; 15 nov. 1945; 1º-15 febbr., 15 apr. 1946; 1º sett. 1947; 15 apr. 1949, nov. 1961; Cinema, 10 febbr. 1940; Scenario, apr. 1942 (profilo critico di E.F. Palmieri, Uno e due: V. D., pp. 150 s.); Star, 14 ott., 4 nov., 30 dic. 1944; 12 maggio 1945; Il Giornale delmattino, 20 genn. 1946; Il Popolo, 27 marzo 1946; Il Mattino d'Italia, 7, 26 apr. 1946; Sipario, ag-sett. 1947; Teatro, 25 maggio 1950 (profilo critico di E. Bertuetti, Un uomo con molte maschere - D. e il teatro, pp. 11 s.); Bianco e nero, nov. 1953 (profilo critico di G. Calendoli, V. D. attore cinematografico, pp. 11-19); sett.-dic. 1975 (profili critici, teatrografia e filmografia complete a cura di O. Caldiron, passim); Radiocorriere TV, 16-22 apr. 1972; Il Messaggero, 15 nov. 1974 (necr.); R. Simoni, Trent'anni di cronaca drammatica, II, Torino 1954, p. 63; IV, ibid. 1958, pp. 70, 145; G. Sadoul, Storia delcinema mondiale, II, Milano 1972, pp. 377 e passim; G. Rondolino, Storia del cinema, II, Torino 1977, pp. 416 s.; M. Mercader, La mia vita con V. D., Milano 1978, pp. 29, 185 ss.; C. Lizzani, Il cinema italiano 1895-1979, I, Roma 1979, p. 54 e passim; F. Pecori, V. D., Firenze 1980; N. Leonelli, Attori tragici e attori comici italiani, I, Roma 1946, pp. 300 s.; Enc. dello spettacolo, I, coll. 536-541; Filmlexicon degli autori e delle opere, II, Roma 1959, coll. 248-256; Aggiornamenti e integrazioni 1958-1971, I, Roma 1973, coll. 721-724.