VITTORIO EMANUELE II di Savoia, re d'Italia
VITTORIO EMANUELE II di Savoia, re d’Italia. – Vittorio Emanuele Maria Alberto Eugenio Ferdinando Tommaso di Savoia nacque a Torino il 14 marzo 1820 da Carlo Alberto di Savoia Carignano e Maria Teresa d’Asburgo Toscana.
Trascorse i primi anni a Firenze, dove il re Carlo Felice aveva confinato Carlo Alberto, colpevole di atteggiamenti troppo liberali durante i moti del 1821. Crebbe forte e vivace, subito diverso dai genitori per fisico e temperamento. A ciò devono la propria fortuna le durature voci circa uno scambio di bimbi in culla, a seguito di un incendio, nel 1822.
Mentre Carlo Alberto combatteva per la restaurazione monarchica in Spagna (ciò gli permise, in assenza di eredi diretti di Carlo Felice, di essere reintegrato a corte nel 1824), i principi Vittorio Emanuele e Ferdinando cominciarono un percorso di studi segnato da rigida disciplina ed educazione morale e impartito da insegnanti più fedeli alla dinastia che dotati di spiccate capacità didattiche. Vittorio, propenso più all’azione che al pensiero, faticava sul vastissimo piano di studi.
Nell’aprile del 1831, morto Carlo Felice, Carlo Alberto salì al trono del quale Vittorio Emanuele diventava a tutti gli effetti primo erede. L’etichetta di corte si fece ancora più rigida. Ad alleggerire la pressione giovò il buon legame con Ferdinando e l’inizio degli studi militari, per cui Vittorio Emanuele era portato e che consentirono al principe di rompere l’isolamento relazionale.
Incominciata (e rapidamente compiuta) la carriera militare, ebbe una propria casa militare e una propria corte. In tale contesto cementò le prime vere amicizie, la passione per la montagna, le battute di caccia, il gioco e i cavalli; sperimentò i primi amori. Per quanto avesse concezione molto alta (quasi arrogante) delle prerogative monarchiche, non era solito far pesare la propria posizione a chi gli stava attorno nei momenti di svago.
Fu a proprio modo coerente in campo amoroso: sempre in cerca di nuove conquiste, si dimostrò maggiormente attratto dalle giovani di bassa estrazione (con le quali poteva essere se stesso e che, con poco, poteva affascinare) rispetto alle donne d’alta società.
La monarchia aveva però le proprie necessità e anche Vittorio Emanuele dovette preoccuparsi di garantire ai Savoia la discendenza. Nell’estate del 1840, con il placet di Vienna, si pianificò il matrimonio con la giovane, delicata e pia Maria Adelaide (figlia dell’arciduca Ranieri d’Asburgo, viceré di Milano, e di Maria Elisabetta di Savoia, sorella di Carlo Alberto) che fu celebrato a Stupinigi il 12 aprile 1842.
L’unione si sarebbe rivelata un successo per la continuità della dinastia. La principessa partorì sette volte in dodici anni: Maria Clotilde (1843), Umberto (1844), Amedeo (1845), Oddone (1846), Maria Pia (1847), Carlo Alberto (1851), Vittorio Emanuele (1855). Ma per quanto il re non mancasse di affetto verso la regina, tra i due non ci fu mai vero amore. Il primo non ne era propriamente capace e la seconda, consumata dalle gravidanze in serie, non seppe mai uscire dalla propria remissiva mitezza per conquistare davvero lo sposo.
Le avventure romantiche di Vittorio Emanuele continuarono anche dopo le nozze. Nel 1844 e nel 1847, infatti, conobbe le due amanti che, tra alti e bassi, maggiormente ne segnarono vita: Laura Bon e Rosa Vercellana.
La lunga e discontinua relazione con Bon cominciò quando il principe la vide recitare a teatro, a Casale Monferrato: ne fu affascinato ed ella si innamorò. Ebbero un figlio (morto dopo parto prematuro) e una figlia (Emanuela, nata il 6 settembre 1853), ma i sentimenti sinceri e intensi di lei, compresa la gelosia, finirono per costituire un problema. Bon fu con il tempo dimenticata e morì in povertà nel 1904.
Molto differente fu la relazione con Vercellana, che – seppur in presenza di numerosi tradimenti – divenne la principale compagna di vita di Vittorio Emanuele e, dal 1869, sua moglie morganatica. La ‘bella Rosina’ aveva tutto per sedurre il principe, sia nelle forme, sia nell’approccio – schietto e bramoso – alla vita. Egli la conobbe quando ella era ancora molto giovane ed ebbe con lei una figlia (Vittoria) nel 1848 e un figlio (Emanuele Alberto) nel 1851. Rosina sopravanzò tutte le altre amanti resistendo anche ai tentativi della corte (orchestrati per lo più dalla madre Maria Teresa e da Camillo Benso conte di Cavour) di allontanarla. Infine, quando Maria Adelaide morì (1855), ottenne che Vittorio Emanuele rifiutasse un nuovo matrimonio ‘regale’, convincendolo a insediarsi con lei e i figli nella tenuta de La Mandria, nel decaduto complesso della Venaria reale. Il principe, sfidando nuovamente Cavour, nel 1858 la insignì del titolo di contessa di Mirafiori e Fontanafredda.
Vittorio Emanuele divenne re di Sardegna nel 1849, quando Carlo Alberto abdicò a seguito della sconfitta nella prima guerra d’indipendenza: si era ben disimpegnato sul campo, venendo anche leggermente ferito, ma era stato tenuto, come già prima, completamente al di fuori da ogni processo decisionale.
Il nuovo re esordì nel colloquio con Josef Radetzky per negoziare le condizioni di pace.
Vittorio Emanuelefu abile e il feldmaresciallo fu moderato, nel convincimento che una pace troppo dura avrebbe pungolato le velleità della fazione democratica piemontese: ne sorse una versione molto celebrativa dell’incontro fra i due, secondo la quale il giovane re non avrebbe ceduto alle lusinghe dell’autorevole avversario per tener fede alle promesse costituzionali del padre.
Dopo la repentina caduta del gabinetto conservatore guidato dal generale Claudio de Launay, Vittorio Emanuele chiamò al governo Massimo d’Azeglio, fidato monarchico ma uomo moderno e di posizioni moderate. D’Azeglio fu il primo vero mentore politico del sovrano (per il quale coniò anche la qualifica di ‘re galantuomo’) e si disimpegnò efficacemente nelle negoziazioni di pace con l’Austria, ottenendo una notevole diminuzione delle indennità di guerra. La Camera, a maggioranza democratica, era però restia ad approvare. Vittorio Emanuele, per quanto sensibile alla possibilità di governare indipendentemente dagli orientamenti parlamentari, fu ben consigliato dal ministero: emanò quindi, dopo un doppio scioglimento delle Camere, il Proclama di Moncalieri in cui – pur con toni perentori e minacciando ambigue ritorsioni, forse autoritarie – chiedeva agli elettori una maggioranza favorevole alla firma dell’armistizio. Le elezioni del 10 dicembre 1849 assecondarono infine le aspettative regie: lo Statuto era salvo, ma la concezione di liberalismo costituzionale del nuovo re si era mostrata quantomeno peculiare.
Il 1850 fu caratterizzato da un duro scontro tra Stato e Chiesa, fatto deflagrare da una legislazione che aboliva i privilegi ecclesiastici. L’azione regia presso Pio IX non attenuò le tensioni, né al sovrano (per la prima volta fortemente sollecitato dalle devotissime moglie e suocera su una questione politica) riuscì di mitigare le leggi. Nell’occasione Cavour entrò nel governo come ministro dell’Agricoltura e cominciò un’ascesa rapidissima che, il 4 novembre 1852, culminò nell’incarico regio a formare un nuovo esecutivo.
Cavour, però, mal sopportava le ingerenze politiche della Corona (e si opponeva tra l’altro alla crescente importanza della contessa di Mirafiori): ne venne un rapporto spesso conflittuale con il re, non facilitato dal fatto che, in anticipo su Sua Maestà, intuì come passare attraverso la questione italiana per fare grande il Piemonte. L’occasione giunse nel 1854: Francia e Gran Bretagna avevano mosso guerra alla Russia. Il conflitto, triennale, visse le proprie fasi cruciali in Crimea. Con uno slancio personale, Vittorio Emanuele s’impegnò a intervenire a supporto dei due alleati, senza praticamente contropartita concreta. Cavour, che pure vedeva di buon occhio l’interruzione dell’isolamento piemontese, fu messo in difficoltà e per ottenere il sostegno politico all’impegno militare dovette scendere a patti con la Sinistra, garantendo in cambio il proprio sostegno alla legge per l’abolizione degli ordini religiosi.Il re provò a contrastare la legge. Si mosse anche Giovanni Bosco, che ammonì in vario modo il sovrano, fino a metterlo a parte di sogni che preconizzavano lutti a corte. Ed effettivamente il 1855 fu un anno di decessi pesanti per la Casa reale: prima la madre Maria Teresa, poi la moglie Maria Adelaide – mai ripresasi da una ennesima e difficilissima gravidanza –, in seguito il fratello del re, Ferdinando, e infine il neonato principino Vittorio Emanuele.
Questo succedersi di drammi familiari non bastò a smuovere Vittorio Emanuele. Di fronte alle minacciate dimissioni di Cavour, le leggi passarono: la guerra era la priorità. Non fu però particolarmente gloriosa: i soldati piemontesi si disimpegnarono bene, ma furono falcidiati dal colera. Non si ottennero ricompense concrete, ma a livello diplomatico il Piemonte guadagnò molti punti.
Aspirazione tanto del re, quanto di Cavour, era infatti provocare una guerra contro l’Austria, per vendicare la sconfitta del 1849 e creare un unico Regno nell’Italia settentrionale. La Francia assicurò appoggio grazie sia alla tessitura di Cavour (con l’incontro di Plombierès del 1858) sia alla fermezza del re di fronte alle rimostranze francesi seguite all’attentato dell’italiano Felice Orsini contro l’imperatore Napoleone III. Il matrimonio dinastico fra la quindicenne principessa Clotilde e il ben più maturo Napoleone Girolamo (nipote di Napoleone I) suggellò l’alleanza.
Il 10 gennaio 1859, il discorso della Corona pronunciato davanti alle Camere riunite fu l’apice del percorso con il quale Vittorio Emanuele si pose alla testa delle rivendicazioni patriottiche italiane e aprì la strada al conflitto: «non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi» (I discorsi della Corona con i proclami alla nazione dal 1848 al 1936, a cura di A. Monti, Milano 1938, p. 58).
L’opposizione austriaca alla presenza piemontese a una conferenza sulla questione italiana e la pretesa di un rapido disarmo costituirono il casus belli. L’ultimatum, respinto, si trasformò in guerra e l’Austria in aggressore: la Francia si schierò con il Piemonte. Vittorio Emanuele non riuscì a dare gran prova della propria competenza strategica poiché il comando fu sempre nelle mani di Napoleone III, il quale però, proprio quando il conflitto volgeva al meglio (con gli austriaci costretti a ritirarsi al di là del fiume Adige dopo le battaglie di Solferino e San Martino), chiese una tregua all’imperatore austriaco Francesco Giuseppe (6 luglio 1859).
Si parlò di tradimento dell’imperatore, ma in realtà le grandi perdite sul campo, le eccessive possibilità di rafforzamento del Piemonte e, soprattutto, l’agitazione della Prussia, resero la tregua quasi inevitabile. Lo stesso Vittorio Emanuele, pur dichiarandosi colto alla sprovvista e nonostante la durissima opposizione di Cavour, era propenso alla pace ed era presumibilmente stato avvisato per tempo dell’orientamento francese: al Piemonte andò la Lombardia, ma il Veneto rimaneva austriaco. Per quanto in centro Italia si prospettassero ampie annessioni, Cavour si dimise, sostituito per sei mesi dal generale Alfonso La Marmora.
Il re provò a gestire direttamente la politica piemontese a Parlamento chiuso, ma – nel gennaio del 1860, pressato dagli alleati come dagli oppositori – fu costretto a richiamare Cavour.
La gestione delle politiche di annessione, portate avanti dal presidente del Consiglio, fu terreno di frizioni con il re: sulla cessione della Savoia alla Francia, per esempio, e, ancor più, nel rapporto con Giuseppe Garibaldi.
L’‘eroe dei due mondi’ non piaceva al re – erano fin troppo simili –, ma strumentalmente (e non senza tradimenti e ripensamenti) lo sostenne: in lui vedeva una ‘scorciatoia’ per i propri piani. Cavour, decisamente più ostile alla matrice ‘rivoluzionaria’ della spedizione dei Mille, fu abilissimo nel convincere il consesso europeo – e in particolare Napoleone III – che solo un intervento piemontese avrebbe impedito il dilagare della sovversione garibaldina, in procinto di minacciare anche i domini pontifici. L’intervento militare piemontese nelle Marche e in Umbria ne risultò giustificato. Ai primi di ottobre, così, Vittorio Emanuele si avviò incontro al vittorioso Garibaldi: in realtà realizzava l’obiettivo cavouriano di fermarlo e sventare la minaccia su Roma. Il 25 ottobre 1860, nei pressi di Teano, il re e il generale ebbero un breve incontro e avvenne il passaggio di consegne: da lì in poi, l’iniziativa sarebbe stata completamente nelle mani dell’esercito regio.
Il 18 febbraio 1861 fu inaugurato il Parlamento italiano che, il 17 marzo, adottò la formula «Vittorio Emanuele II, re d’Italia per grazia di Dio e volontà della Nazione». Si preferì evitare la dicitura «re degli Italiani» per non dare eccessivo peso alla matrice popolare dell’Unità d’Italia. Quanto alla numerazione invariata – nonostante le polemiche sollevate da chi vi vedeva un forte elemento di piemontesizzazione –, fu scelta in linea con la tradizione delle grandi monarchie europee e con la volontà di esaltare la continuità dinastica.
L’ultimo atto politico di Cavour fu un estremo – e infruttuoso – tentativo di risolvere la questione romana in accordo con la Chiesa. Il 29 maggio cadde improvvisamente malato e morì il 6 giugno 1861. Vittorio Emanuele fece una visita al capezzale del ministro, ma non partecipò alle esequie e impedì anche ai principi di farlo.
Il re trovò nuovamente spazio per operare in prima persona, soprattutto in politica estera. Una rete di ‘ambasciatori privati’ gli consentiva di tessere una propria tela, fatta per lo più di diplomazia segreta e finanziamenti ai movimenti rivoluzionari interni all’Impero asburgico. Scopo finale era una nuova guerra tesa a completare l’Unità (gli interessava Venezia, più di Roma) e a una grande vittoria, che lo avrebbe reso immortale.
Garibaldi, armato segretamente dal re perché portasse scompiglio nei possedimenti dalmati dell’Austria e, successivamente, in Grecia, (Mack Smith, 1972, p. 127) sbarcò un’altra volta in Sicilia, deciso a marciare su Roma. Per evitare un intervento francese, le truppe italiane lo bloccarono sull’Aspromonte. Nello scontro del 29 agosto 1862 lo stesso generale fu seriamente ferito: larga parte dell’opinione pubblica ne fu scioccata.
Lo smacco colpì il re che, a quarantatré anni, dava segni di stanchezza e invecchiamento: appesantito e meno baldanzoso, aveva preso a tingersi capelli e baffi. Dopo una serie di esecutivi deboli e manipolabili, nel marzo del 1863 affidò l’incarico a Marco Minghetti. Abile e preparato, il politico bolognese riprese a cercare di risolvere con la Francia la questione romana. La convenzione del settembre del 1864 determinò il ritiro del contingente transalpino a Roma. La tutela del papa passava in mani italiane: per dimostrare l’assenza di mire sulla città eterna, si sarebbe dovuta spostare la capitale da Torino. Vittorio Emanuele seppe di questa clausola solo a pochi giorni dalla firma della trattativa e si trovò con le spalle al muro, come ai tempi di Cavour. Non ebbe la forza di rifiutare l’approvazione e, pur con ampie rimostranze, si accontentò della garanzia che la capitale fosse Firenze e non la ‘borbonica’ Napoli.
La svolta sulla questione veneta arrivò invece all’inizio del 1866, quando la Prussia, ambiziosa di supremazia nel mondo tedesco, si mise in cerca di alleati in funzione antiasburgica. A fatica, Vittorio Emanuele fu distolto dai progetti ‘privati’ di nuovi accordi con la Francia o di appoggio a rivolte nei Balcani o in Ungheria: in aprile l’Italia firmò un’alleanza antiaustriaca e offensiva con Otto von Bismarck.
La guerra fu per gli italiani un disastro (con le sconfitte di Custoza e di Lissa): il trionfo prussiano di Sadowa (3 luglio) consentì però a von Bismarck di dominare le trattative per la pace, firmata il 12 agosto. L’Italia, nonostante la pessima figura militare, ottenne il Veneto.
I progetti del re, però, rimanevano bellicosi: una campagna militare su Roma, oltre a completare l’Unità, avrebbe cancellato l’onta delle recenti sconfitte. Nel 1867 Vittorio Emanuele si adoperò così per favorire un’insurrezione nei possedimenti papalini e per finanziare una spedizione di volontari guidati da Garibaldi. La Francia, tuttavia, intervenne a protezione del papa: il 3 novembre, a Mentana, il contingente garibaldino fu sbaragliato dai soldati di Napoleone III e Vittorio Emanuele sconfessò pubblicamente la spedizione dell’‘eroe dei due mondi’.
Delusione e risentimento serpeggiavano nel Paese, anche perché la spesa pubblica continuava a crescere: Vittorio Emanuele, oltre a sostenere un costante aumento degli investimenti militari, godeva di un appannaggio personale enorme. Non aveva un elevato tenore di vita, ma tantissime spese: gli erano state accollate le tenute delle dinastie spodestate con l’unificazione, sprecava fiumi di denaro per ‘collaboratori diplomatici’ e compagni di scorribande; aveva poi dovuto organizzare i matrimoni dei numerosi figli.
Il più importante fu quello di Umberto, erede al trono: dopo lunga ricerca della sposa adatta, si optò per la nipote Margherita, figlia del defunto Ferdinando di Savoia Genova, che, fascinosa ed elegante, lo colpì molto positivamente soprattutto per la propria dedizione alla causa dinastica. La cerimonia di nozze, celebrata il 22 aprile 1868, fu estremamente sontuosa.
Nel novembre del 1869 il re cadde gravemente malato e si rese conto che di dover provvedere alla ‘bella Rosina’: il 7 novembre si unì a lei in nozze morganatiche. Nei giorni seguenti, però, le condizioni del re migliorarono: già il 12 era in piedi. Il giorno prima, a Napoli, era nato il primogenito di Umberto: presente e futuro della dinastia sembravano garantiti.
La diplomazia personale del re era proseguita massicciamente per tutto il 1868 e il 1869, e aveva portato a un accordo offensivo-difensivo con Francia e Austria, in ottica antiprussiana. Viste le resistenze di Napoleone III su Roma, però, l’alleanza non era stata formalizzata in un trattato, ma solo delineata attraverso dichiarazioni di impegno epistolari tra i sovrani e legata all’evolversi di molte circostanze.
Quando Napoleone III dichiarò guerra alla Prussia (19 luglio 1870), Vittorio Emanuele fu colto di sorpresa: era a caccia in Val d’Aosta, dove protrasse la permanenza, incerto su come comunicare al nuovo esecutivo i propri accordi segreti con la Francia. Tentò anche un rimpasto governativo, ma senza riuscirvi. Il governo Lanza rimaneva convinto della necessità di evitare la guerra anche perché aveva varato importanti misure per il contenimento della spesa militare. Il 17 luglio il re arrivò a Firenze e cercò di precisare la propria posizione al gabinetto. Non fu impresa facile perché «la corrispondenza che Vittorio Emanuele aveva avuto con Napoleone sul trattato era privata, ed egli si accorse all’improvviso di non averne conservata copia, così non era in grado di dire a Lanza quali fossero di preciso le promesse che aveva fatto» (Mack Smith, 1972, p. 243). In definitiva il trattato non fu ratificato e tanto l’Italia quanto l’Austria rimasero neutrali. In poche settimane, peraltro, si palesò una clamorosa superiorità prussiana: il 2 settembre, già dopo la débâcle di Sedan, Napoleone firmò la capitolazione.
Con l’aggravarsi della situazione bellica, le truppe francesi di stanza a Roma furono richiamate: era l’occasione che l’Italia aspettava da anni. Il 20 settembre i soldati del generale Raffaele Cadorna penetrarono nella città santa attraverso la breccia di Porta Pia. Un successivo plebiscito confermò l’acquisizione della capitale. Vittorio Emanuele, all’apertura della nuova legislatura, il 5 dicembre, dichiarò: «con Roma capitale d’Italia ho sciolto la mia promessa e coronata l’impresa che, ventitré anni or sono, veniva iniziata dal mio magnanimo genitore» (Pinto, 1995, p. 471).
Il sovrano, però, non amò mai Roma, sia per il clima troppo afoso sia per la malcelata ostilità dell’aristocrazia clericale: vi soggiornò il meno possibile, lasciando a Umberto e, soprattutto, a Margherita, il compito di crearvi una corte sabauda.
Completata l’Unità, il ‘padre della Patria’ cercò di tessere nuove alleanze europee, iniziando l’avvicinamento dell’Italia alla Germania e all’Austria. Gli ultimi successi di Vittorio Emanuele furono le visite diplomatiche a Vienna e a Berlino del 1875, ricambiate sia dall’imperatore sia dal Kaiser.
Il suo interesse per le questioni politiche andò tuttavia scemando: si dedicò maggiormente a Rosina. Solo le resistenze dei politici e di Umberto gli impedirono di sposarla anche civilmente e di riconoscerne i figli.
Il 29 dicembre 1877 tornò a Roma per gli adempimenti ufficiali di fine anno, ma fu subito colto da febbri. Seguitò – seppur con qualche assenza – ad assolvere ai propri compiti istituzionali fino al 6 gennaio, quando gli fu diagnosticata una febbre malarica che non si riuscì a debellare. Il vicario generale consentì la concessione del viatico. Al capezzale del re sfilarono tutti i suoi collaboratori e i suoi cari, ma un’influenza e il volere di Umberto tennero lontana Rosina.
Il ‘gran re’ spirò a Roma nel primo pomeriggio del 9 gennaio 1878.
Fonti e Bibl.: V. Bersezio V. E. II. Trent’anni di vita italiana, I-VIII, Torino, 1878-1895; L. Cappelletti, Storia di V. E. II e del suo Regno, I-III, Roma, 1893; L’archivio personale di V. E. II, a cura di L.C. Bollea, in Il Risorgimento italiano. Rassegna storica, X (1917), pp. 449-485; G. Ardau, V. E. II e i suoi tempi, Milano 1939; F. Cognasso, V. E. II, Torino 1942; Pio IX - V. E. II. Dal loro carteggio privato, a cura di P. Pirri, I-III, Roma 1944-1961; D. Mack Smith, V. E. II, Bari 1972; P.F. Gasparetto, V. E. II, Milano 1984; R. Gervaso, La bella Rosina. Amore e ragion di Stato in Casa Savoia, Milano 1991, ad ind.; G.E. De Paolo, V. E. II. Il re, l’uomo, l’epoca, Milano 1992; P. Pinto, V. E. II. Il re avventuriero, Milano 1995; S. Bertoldi, Il re che fece l’Italia. V. E. II di Savoia, Milano 2002; A. Viarengo, V. E. II, Roma 2017; M. Salucci, Il re giovane, Pisa 2019.