VITTORIO EMANUELE III (XXXV, p. 517)
III L'aver affidato il potere a Mussolini dietro la minaccia della rivoluzione, il non averlo congedato in seguito all'indignazione sollevata dal delitto Matteotti e l'avergli riconfermata la fiducia accettando la sostituzione dei ministri dimissionarî, quando il capo del fascismo prese su di sé la responsabilità dell'assassinio Matteotti, resero V. E. prigioniero del fascismo, che nella milizia aveva un corpo armato per la propria difesa. Il re non poteva più liberarsi da quella soggezione senza ricorrere ad un colpo di stato e forse alla guerra civile. E così fu tratto ad acconsentire a tutte le riforme fasciste che gradualmente demolirono le libertà garantite dallo Statuto, a cui V. E. aveva giurato fedeltà salendo al trono, trasferirono la maggior parte dei poteri a Mussolini e crearono quel sistema della "diarchia" che lasciava al re solo il primato nominale. In cambio, il fascismo dava alla monarchia sicure garanzie di ordine, di tranquillità interna, di pace sociale, e a V. E. venne attribuito il merito di aver assecondata l'opera del regime. Tuttavia egli sentiva il disagio della sua condizione e non mancarono contrasti, specialmente quando si trattò di prerogative sovrane, come l'intervento del Gran Consiglio nella successione al trono e l'equiparazione di Mussolini al re coll'istituzione del grado di primo maresciallo dell'impero. Tuttavia V. E. approvò anche la guerra etiopica, quella di Spagna, il patto d'acciaio, pur scorgendo i pericoli di queste iniziative.
Allo scoppio della seconda Guerra mondiale, V. E. sembrò a tutti, italiani e stranieri, il solo in grado di mantenere l'Italia neutrale, e quella convinzione sembrò trovare conferma nella visita in Vaticano, a dieci anni dalla Conciliazione, e nella sollecitudine con la quale il pontefice stesso la restituì di persona (28 dicembre 1939). Ma quando venne il momento decisivo V. E., per quanto opponesse una tenace resistenza, tuttavia alla fine acconsentì e, per giunta, cedette il comando supremo. Contrariamente a quanto era avvenuto nella prima Guerra mondiale, egli si mantenne estraneo alla seconda. Fu tra i primi ad accorgersi della svolta decisiva della guerra, alla fine del 1942, e da allora meditò di uscirne. A lui ricorsero tutti quelli che avvertirono l'imminenza della catastrofe: militari, uomini politici, antifascisti vecchi e nuovi. L'eventualità del fallimento del colpo di stato e in questo caso della guerra civile - nella quale i fascisti più accesi, aiutati dai Tedeschi, avrebbero potuto sopraffarlo - lo resero esitante, e, per tenere il segreto, nascose le sue intenzioni e si astenne dal fare i necessarî preparativi. La perdita della Tunisia e lo sbarco in Sicilia, avvicinando la catastrofe finale, che avrebbe travolto non solo il fascismo ma probabilmente anche la monarchia, lo indussero ad agire, e, avuta l'occasione costituzionale dall'ordine del giorno di sfiducia a Mussolini approvato dal Gran Consiglio la notte del 25 luglio 1943, riprese l'iniziativa congedando e facendo arrestare Mussolini. Ritornava così al centro degli avvenimenti. Un netto distacco col passato, che separasse la responsabilità della monarchia da quella del fascismo, avrebbe richiesto la sua abdicazione, ma non lo operò perché egli riteneva il figlio impreparato a prendere la successione. Pensava a una soluzione graduale dei problemi del momento; era contrario a un serio rivolgimento politico e a ogni aperta azione politica antifascista, diffidava dei vecchi uomini politici, che riteneva sorpassati e dei quali, forse, temeva i rancori; quindi istituì un governo militare, composto di funzionarî da lui stesso designati, con a capo Badoglio.
Le direttive reali erano contenute nel proclama del 25 luglio 1943: messuna deviazione deve essere tollerata, nessuna recriminazione può essere consentita". Quindi la dittatura continuò col coprifuoco, la censura sui giornali e il divieto della ricostituzione dei partiti. Venne vietata anche una larga epurazione dei fascisti: V. E. sperava contenere il movimento entro le dighe di un fascismo ragionevole, epurato e trasformato. Qualora ciò fosse stato possibile, il successo dipendeva in primo luogo dall'uscita dalla guerra. L'immediata discesa di truppe tedesche in Italia dimostrava che Hitler vi si sarebbe opposto con la forza, con l'intenzione di travolgere il re e il suo governo, e di ristabilire Mussolini. Perciò V. E. pensò di poter portare l'Italia fuori dalla guerra d'accordo con Hitler, ma questi rifiutò il progettato incontro. Allora vennero iniziate trattative con gli Alleati, dai quali si sperava ottenere l'aiuto militare necessario per fronteggiare la preveduta e temuta reazione tedesca. Ma gli Alleati, ormai già da Casablanca, si erano irrigiditi sul principio della resa incondizionata che vollero imporre anche all'Italia.
La mancanza di preparativi e l'annuncio dell'armistizio prima del previsto, costrinsero il re e Badoglio ad abbandonare Roma, per evitare di essere catturati e deportati in Germania e per assicurare la continuità del governo, che aveva firmato l'armistizio. Questa decisione venne presa da Badoglio, ma la precipitata partenza del re, di Badoglio e delle sole autorità militari, senza i ministri e senza direttive e istruzioni alle autorità centrali e periferiche, diedero a quella partenza l'aspetto di una fuga, di cui fu ritenuto responsabile anche V. E. Rifugiatosi a Brindisi (10 settembre 1943), la sua permanenza sul trono fu dovuta agli Alleati, e particolarmente a Churchill. Con il re gli Alleati avevano concluso l'armistizio, dietro suo ordine era avvenuta l'importante resa della marina, di lui avevano bisogno perché ci fosse un governo che amministrasse i territorî liberati e assicurasse l'esecuzione delle condizioni. D'altra parte V. E. aveva bisogno della collaborazione degli uomini politici; ma sia quelli dell'Italia meridionale, con a capo Croce, sia e più quelli dei territorî ancora sotto i Tedeschi, si rifiutavano di collaborare con lui e, pur consentendo a rimandare a dopo la guerra la decisione sulla questione dinastica, chiedevano la sua abdicazione, la rinuncia del figlio e la nomina di una reggenza per il nipotino. Se gli Alleati avessero consentita ed aiutata una più larga partecipazione italiana alla guerra di liberazione e avessero addolcito le condizioni dell'armistizio, la posizione di V. E. si sarebbe rafforzata. Invece egli non poté far altro che rifiutare l'abdicazione. La soluzione venne nella primavera 1944, nell'imminenza dell'avanzata alleata, in seguito al ritorno di Togliatti dalla Russia. Questi si dichiarò pronto a collaborare col re, e allora gli Alleati, per impedire che il governo italiano fosse accaparrato dalla Russia, premettero per l'allargamento del governo. Grazie a una soluzione di compromesso costituzionale suggerita da De Nicola, col proclama del 12 aprile 1944 V. E. annunciò la sua intenzione di ritirarsi a vita privata e di affidare la luogotenenza al figlio il giormo in cui, le truppe alleate fossero entrate in Roma, e così rese possibile la fomazione di un governo con la partecipazione di tutti i partiti antifascisti (22 aprile 1944). Entrate a Roma le truppe alleate (4 giugno), V. E. avrebbe voluto firmare il decreto sulla luogotenenza in questa città, ma gli Alleati non glielo permisero, e così dovette firmare l'atto a Ravello (5 giugno 1944). Ritiratosi quindi nella Villa Maria Pia a Posillipo, alla vigilia del referendum istituzionale, nell'intento di facilitare un responso favorevole alla dinastia, il 9 maggio 1946 abdicò e scelse come luogo d'esilio Alessandria d'Egitto, dove morì il 28 dicembre 1947.
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