FOA, Vittorio
Nacque a Torino il 18 settembre 1910, terzogenito di Ernesto Ettore (1871-1966) e di Lelia Della Torre (1883-1968).
I fratelli maggiori, Anna (1908-2006) e Giuseppe (1909-1996), emigrarono per le leggi razziali negli Stati Uniti e presero la cittadinanza americana. Giuseppe, ingegnere aeronautico, fu poi professore alla George Washington University. Anna si trasferì col marito, l’architetto Davide Jona, a Cambridge, Massachusetts. Senza l’impegno politico, e quindi l’arresto, anche Vittorio – chiamato così per celebrare la dinastia e il Risorgimento che avevano emancipato gli ebrei – sarebbe probabilmente divenuto un cittadino statunitense.
Foa stesso ha presentato la sua vita come una serie di rotture in cui la continuità, se c’è, è espressa in esse e da esse, sottolineandone quindi l’apertura. È una visione coerente con quella che ebbe del processo storico, che vide come «successione di ambiguità entro le quali operano le alternative, le scelte» (Passaggi, 2000, p. 125). Di qui la passione per la politica intesa come non lasciarsi vivere e cercare invece di partecipare alla costruzione del proprio domani dando così un senso al proprio essere e al proprio agire» (ibid., p. 37). Anche per questo gli fu possibile avere più vite: c’è il Foa giovane torinese, il Foa cospiratore e poi dirigente politico della Resistenza e del Partito d’Azione, il Foa leader del movimento operaio e della nuova sinistra, e l’uomo che a settant’anni trovò l’energia per cercare di reinventare una sinistra che sentiva in crisi terminale.
Sposato con Lisa Giua (1923-2005), nel 1945 e con Maria Teresa (Sesa) Tatò, nel 2005, ebbe tre figli: Anna (1944), Renzo (1946-2009) e Bettina (1951).
La prima vita fu agiata. Il padre, avvocato non praticante e commerciante in carbone, ammiratore di Giolitti e del progresso nazionale e liberale che aveva dato la libertà agli ebrei, era figlio di Giuseppe (1840-1917), rabbino di Torino fino al 1903. Il culto del progresso era ancora più vivo nella madre, un’ebrea di Alessandria alla quale Foa fu molto legato anche perché, di salute cagionevole, fu ritirato da scuola, ed ebbe in lei, diplomata al magistero, la sua maestra. All’atmosfera famigliare contribuivano l’ammirazione per il prozio, Natale Della Torre, esule rivoluzionario a Parigi, e l’impegno dell’avvocato Vittorio Luzzatti, un parente del padre, nella difesa di Ferruccio Parri accusato dell’espatrio di Turati. L’infanzia e la prima giovinezza furono dominate dal desiderio del padre, amato ma esigente, di costruire il successo di un figlio che costringeva a «utilizzare ogni attimo della giornata» per prepararsi alle imprese che lo attendevano (Riprendere tempo, 1982, p. 99). Foa ne sentì il peso, e vide poi nella politica anche la liberazione da un tempo scandito dall’alto e dall’esterno.
Il naufragio del Titanic, e soprattutto quello dell’Europa nella grande guerra, furono i suoi primi ricordi, e al primo conflitto mondiale assegnò poi un ruolo cruciale nella sua lettura del XX secolo. A otto anni scrisse una breve storia della rivoluzione russa con Lenin e Trockij che «ammazzavano la gente senza pietà», e Kerenskij e i liberali «simpaticissimi… ma terribilmente scarognati» (Lettere della giovinezza, 1998, pp. 514 s.). L’immagine della Camera del Lavoro devastata e incendiata dai fascisti, e soprattutto l’omicidio Matteotti, ribaltarono però il segno del suo schieramento.
Al liceo D’Azeglio, che frequentò con discontinuità, ebbe tra i suoi compagni Giancarlo Pajetta, arrestato e processato dal Tribunale speciale, che suscitò in lui per la prima volta ammirazione per il coraggio e la determinazione dei comunisti. Fece allora grandi letture, alimentate dal catalogo delle edizioni Gobetti, più di 100 volumi che andavano da Luigi Sturzo a John Stuart Mill, dallo stesso Gobetti a Goethe, lesse Marx, e cominciò a frequentare la montagna, destinata a giocare un ruolo importante nella sua vita.
Dopo la maturità decise di fare subito il servizio militare. Fu prima soldato e poi sottotenente di complemento nel reggimento del principe ereditario, di cui frequentò l’ambiente. Il rapporto con l’Università non fu quindi stretto. Si laureò comunque giovanissimo in legge nel 1931 con una tesi su Il criterio differenziato fra la diffamazione e l'ingiuria nel nuovo codice penale, «senza sapere nulla di diritto» (Riprendere tempo, 1982, p. 99). Questo anche perché sentiva più forte l’attrazione per la questione operaia, concretizzata dall’incontro con la rivista I problemi del lavoro, con cui Rinaldo Rigola e Ludovico D’Aragona fiancheggiavano l’esperimento corporativo mantenendo tuttavia un «linguaggio del tutto estraneo allo stile fascista» (Il cavallo e la torre, 1991, p. 36). A essa Foa mandò il suo primo articolo, in cui sosteneva che i salari potevano aumentare solo a scapito del profitto o di altri settori dell’economia. Fu influenzato anche della rivista clandestina Voci d’Officina (1931), fondata da Aldo Garosci e di ispirazione operaistica e gobettiana.
Nel 1933 Leone Ginzburg, alla cui memoria e famiglia rimase sempre legato, gli chiese se voleva partecipare all’attività clandestina di Giustizia e Libertà. Avrebbe poi ricordato come «la scelta della cospirazione» fosse stata «determinata dalla insopportabilità di una vita tutta già decisa, dal bisogno sempre più imperioso di decidere io stesso il mio futuro», e come alla fin fine il fattore chiave che lo aveva spinto all’attività politica fosse stato «la cappa di noia, la coltre di stupidità» con cui identificava il fascismo (Riprendere tempo, 1982, p. 80). I mesi dell’impegno cospirativo, sotto il nome di Marcello, furono felici: già influenzato dalle teorie di Gaetano Mosca, scoprì il valore della democrazia diretta, e quindi dell’azione come soluzione anche personale, basata sul rifiuto della scissione tra presente e futuro, tra mezzi e fini. Anche per questo, pur cospirando contro il fascismo, Foa e i suoi compagni rifiutarono di definirsi «antifascisti; quella espressione di pura negazione ci disturbava, ci definiva solo per negazione e disconosceva in qualche modo la nostra positività. Preferivamo definirci postfascisti per affermare il nostro disegno per il futuro» (Passaggi, 2000, p. 45).
Tra il 1933 e il 1934 pubblicò con lo pseudonimo di Emiliano sui Quaderni di Giustizia e Libertà quattro articoli dedicati all’analisi del corporativismo come ideologia di un ingannevole intervento diretto dello Stato nell’economia. Nel 1934, dopo l’arresto di Leone Ginzburg e del suo gruppo, Vittorio e Michele Giua, padre di Lisa e Renzo, sottrattosi all’arresto con la fuga, presero la direzione del nucleo giellista di Torino. La loro attività fu stroncata con gli arresti del 15 maggio 1935, resi possibili dalla delazione di Dino Segre (in arte Pitigrilli). Con Foa furono arrestati oltre al fratello Beppe e ad altri poi rilasciati o inviati al confino (tra cui Norberto Bobbio, Giulio Einaudi, Carlo Levi e Cesare Pavese), Michele Giua, Vindice Cavallera, Massimo Mila e Augusto Monti. Gli arresti furono accompagnati da una campagna antisemita e Foa, trasferito a Regina Coeli, fu condannato dal Tribunale speciale nel febbraio 1936 a 16 anni di reclusione, scontati fino al giugno 1940 nel carcere romano.
A Regina Coeli Foa e i nuovi venuti formarono con Riccardo Bauer e Ernesto Rossi un gruppo unito da forti vincoli umani e intellettuali che contribuirono a fare di quegli anni di carcere, segnati da grandi discussioni e dall’arrivo di libri, visite e pacchi di famiglie sempre vicine, anni di una Bildung testimoniata dalle più di 500 lettere spedite ai genitori e ai familiari più stretti. Tra gli autori letti e commentati si trovano economisti come Ludwig von Mises, Friedrich August von Hayek, Irving Fisher e Maffeo Pantaleoni, classici del liberalismo come John Stuart Mill, e del Risorgimento come Silvio Spaventa, Carlo Cattaneo, e Luigi Settembrini, ma anche Benedetto Croce, Adolfo Omodeo, Giolitti, e memorialistica politica, per esempio sulla prima guerra mondiale, i trattati e l’immediato dopoguerra.
Allo scoppio della guerra Foa fu trasferito a Civitavecchia, e poi nel maggio 1943 a Castelfranco Emilia, da dove fu liberato solo il 23 agosto, quasi un mese dopo la caduta del fascismo. Recatosi subito a Torino ritrovò, assieme ai famigliari, Lisa (Lisetta) Giua, con cui cominciò una storia d’amore e vita in comune destinata a durare 35 anni. Non aveva allora contatti col neonato Partito d’Azione (PdA), ma vi entrò quando il gruppo giellista ne prese in Piemonte la guida.
Lo scritto più importante della Resistenza è forse I partiti e la nuova realtà italiana (la politica del CLN), del marzo 1944 in cui, sulla scorta di Mosca e Roberto Michels e riallacciandosi all’esperienza consigliare, criticava partiti e democrazia rappresentativa e auspicava che i comitati di liberazione nazionale diventassero espressione unitaria delle autonomie e di un autogoverno delle masse costruito dal basso. Il popolo al centro di questa rivoluzione non era solo quello 'lavoratore' a cui lo riducevano i comunisti e Foa poneva il problema dei 'ceti intermedi', produttori indipendenti, impiegati, pensionati, sbandati e contadini. Chiese dapprima l’espropriazione e la gestione diretta della Fiat da parte di commissioni di tecnici, impiegati e operai in nome della nazione. La sua attenzione si spostò però presto sulla inopportunità di un piano di nazionalizzazioni. La differenza fondamentale, sostenne, era quella tra un’economia libera, e quindi anarchica, e un’economia guidata da piano e programmazione, non quella tra economia privata e pubblica. Questa economia guidata poteva quindi comprendere un importante settore privato e sarebbe stata più produttiva di un’economia integralmente nazionalizzata e tesa alla completa utilizzazione delle capacità produttive del paese, che avrebbe portato all’autarchia.
Nonostante la centralità dell’esperienza partigiana (ne Il cavallo e la torre il capitolo sulla Resistenza è intitolato Il punto alto) non amava parlare delle esperienze vissute nel 1943-45 tra Milano e Torino. Agli amici si aggiunsero allora gli Spinelli, i Venturi e Riccardo Lombardi, e ai capi giellisti Leo Valiani, che esercitò su di lui grande fascino e autorità. I mesi della Resistenza furono tuttavia i mesi di Lisa, partigiana comunista combattente, incinta di Anna e ricoverata sotto falso nome in ospedale, arrestata dalla banda Koch e capace di sfuggire alle sue torture. Il matrimonio fu poi celebrato nel 1945 da Ada Gobetti, vicesindaco di Torino, la quale spiegò che ciò era necessario per dare il cognome alla figlia Anna, disconosciuta alla nascita per ragioni cospirative.
Dopo la liberazione Foa contribuì a orientare la politica del PdA in senso consigliare, indicando nei comitati di liberazione aziendali i futuri consigli di fabbrica. L’esaltazione della vittoria, lo portò però a sopravvalutare il ruolo delle resistenze e della 'insurrezione' europea nella guerra, quasi che a sconfiggere i tedeschi fossero stati i partigiani e non le truppe alleate, il cui arrivo cambiò radicalmente la situazione. Questo mutamento, derivante dall’assoluta sproporzione delle forze in campo, e dall’indiscutibile perdita di autonomia dell’Italia, fu invece interpretato come una ripresa delle forze reazionarie, capaci di far arretrare le aspirazioni al rinnovamento.
Il pessimismo era alimentato anche dall’incapacità di comprendere la novità dei partiti di massa rispetto al sistema parlamentare precedente il fascismo. La loro affermazione fu quindi vista come restaurazione dell’Italia prefascista, un fraintendimento che pesò sul futuro stesso del PdA. Alla sua unificazione nell’estate del 1945, Foa entrò con Valiani, Ugo La Malfa, Emilio Lussu e Oronzo Reale nella segreteria di un partito che deteneva con Parri la guida del governo, ma si sentiva già in difficoltà. Queste furono confermate a novembre dalla caduta di Parri, e al congresso del febbraio 1946 dall’uscita di La Malfa e Parri da un partito una cui componente già guardava all’unificazione coi socialisti. Foa era invece ostile a questa ipotesi e nel suo intervento ribadì la necessità di superare «l’antitesi tra i gruppi di interessi dotati di protezione e le grandi masse prive di protezione» (I congressi del Partito d'azione, a cura di G. Tartaglia, Roma 1984, pp. 200 s.). Di qui la proposta di una politica economica tesa al benessere popolare, incarnatasi nella richiesta di un piano organico di lavori pubblici, che permettesse una ripresa economica capace di aiutare le masse popolari, accollando alle classi abbienti i principali costi della ricostruzione. Propose anche «la costituzionalizzazione degli obiettivi di una politica economica e sociale diretta alla redistribuzione equa della ricchezza e l’attribuzione delle relative ‘garanzie costituzionali’ a un’Alta Corte di Giustizia, la futura Corte costituzionale» (Vittorio Foa, sindacalista, politico, scrittore, 2010, p. 86).
Alle elezioni amministrative del 1946 il PdA subì una dura sconfitta, confermata da quelle per la Costituente, in cui il partito elesse solo sette rappresentanti, tra cui Foa. La sua critica ai partiti di massa, forgiatisi centralisticamente per adeguarsi allo Stato che si proponevano di influenzare o conquistare, si fece allora più radicale. Alla Costituente, in cui si aggregò al gruppo autonomista, si batté per la combinazione dei diritti politici con quelli economici, apertamente teorizzati come tali in I diritti economici nella Costituzione (1947).
Nell’autunno del 1946, la preoccupazione che le agitazioni che scuotevano il paese potessero portare a una ripetizione della tragedia del primo dopoguerra spinse Lombardi a chiedere alla CGIL di rappresentare tutto il popolo lavoratore, disoccupati compresi, e non solo gli operai, e di perseguire «non solo un’azione sindacale ma una politica sindacale», che la trasformasse nel «massimo organismo politico del paese» (Lettera alla Cgil, in Scritti politici, a cura di S. Colarizi, Venezia 1978). Foa avrebbe poi definito il 1946-1947, segnato dalle convulsioni del PdA, come «uno dei periodi più torbidi della mia vita» (Scritti politici, 2010, XII). L’uscita di sicurezza, trovata nel 1948-1949, fu quella di mettere al centro del suo impegno «un sindacalismo militante e fortemente politico che fosse capace di incidere sui rapporti sociali e politici e di forzare il quadro politico con il quale si confrontava» (Vittorio Foa e le trasformazioni della società italiana, 2011, p. 103). Prima però visse la crisi terminale del PdA. Foa, che Valiani riteneva favorevole al PCI, in cui militava Lisa, fu dapprima favorevole a una alleanza con PSI e PCI, ma si schierò poi con la maggioranza che decise la confluenza nel PSI.
L’amarezza per la sconfitta dell’aprile 1948 e per il sorpasso comunista nei confronti del PSI, portò gli ex azionisti a partecipare alla fondazione della corrente Riscossa socialista che contestava a Pietro Nenni e Rodolfo Morandi la subordinazione ai comunisti. Nenni, sconfitto, riconquistò però presto il partito. Il sindacato divenne allora la casa di un Foa deluso dai partiti, e capace grazie a esso di sfuggire almeno in parte alla logica di schieramento di quegli anni, limitandosi a episodiche esaltazioni dello stachanovismo. Anche per lui, tuttavia, la parte giusta era quella dominata dai comunisti, alla cui influenza non gli sarebbe stato del resto facile sfuggire viste le sue vicende politiche e sentimentali.
Nell’autunno 1949, eletto vicesegretario confederale e responsabile dell’ufficio studi della CGIL, si trasferì a Roma con la famiglia. L’incontro con Giuseppe Di Vittorio, poi definito un maestro, fu facilitato dalla tradizione sindacalista rivoluzionaria da cui questi proveniva. Foa e Bruno Trentin, chiamato a collaborare all’ufficio studi, trovarono in lui un dirigente convinto, come loro, che il sindacato non fosse «solo un soggetto sociale ma politico, libero, autonomo, democratico, non unico né obbligatorio e soprattutto unitario» (Vittorio Foa, sindacalista, politico, scrittore, 2010, p. 64).
Con Trentin frequentavano allora casa Foa Luciano Romagnoli, gli Steve, i Giolitti, i Balbo, Ada Gobetti, Natalia Ginzburg, Riccardo Lombardi e Fernando Santi, cui si aggiunsero in seguito gli Sclavi, i Giovannini e altri esponenti della sinistra sindacale. La figura dominante era quella di Lisa, che andava costruendo forti contatti internazionali, dai marxisti americani Paul Baran e Paul Sweezy ai dirigenti dei partiti comunisti e dei movimenti di liberazione nazionale, conosciuti anche grazie a Rinascita, ai protagonisti della dissidenza est-europea, entrati prepotentemente in casa Foa alla fine degli anni Sessanta. Vittorio, spesso in giro per l’Italia, portava alla famiglia la sua energia e la sua curiosità, e i suoi fratelli ormai statunitensi vi portarono, con le loro visite e i loro pacchi, la cultura e il nuovo modello di vita americani. Anche se non mancavano i libri sulla Shoah, a cominciare da quelli del parente Primo Levi, si prestava tuttavia poca attenzione all’ebraismo. C’era certo la coscienza che «eravamo ebrei», ma Vittorio si definiva un ebreo assimilato e «i discorsi d’identità in sé lo interessavano poco, gli sembravano banali» (ibid. , pp. 118 s.).
Arrivato alla CGIL, si occupò del Piano del lavoro, che mirava a uno sviluppo fondato sul pieno impiego, i bisogni popolari e una forte domanda pubblica. L’avvio del 'miracolo economico' era fuori dell’orizzonte di una sinistra convinta, sulla scorta delle analisi staliniane e del ricordo della crisi del 1929, che il capitalismo fosse incapace di riprendersi: ancora nel maggio 1953 Foa sostenne che «il sistema produttivo italiano» attraversava «un periodo di stagnazione e di indebolimento dei fattori di progresso e sviluppo» (Vittorio Foa e le trasformazioni della società italiana, 2011, p. 97). In quello stesso anno fu eletto parlamentare per il PSI, un mandato rinnovato nel 1958 e poi ancora nel 1963. Nel 1955 venne la sconfitta della FIOM nelle elezioni per le commissioni interne alla Fiat, cui Di Vittorio rispose con un'autocritica coraggiosa – la colpa era del sindacato, non degli operai che la CGIL non conosceva più – avviando così una nuova stagione sindacale basata sulla scelta di ripartire dalla condizione operaia e dalla contrattazione aziendale. Foa fu allora mandato con Agostino Novella a dirigere la FIOM, che orientò in base all’idea che fosse necessario capire cosa era diventata la fabbrica in modo da poter dare nuove basi all’iniziativa operaia.
Alla FIOM restò solo due anni, fino alla morte di Di Vittorio nel 1957, ma l’impulso che gli diede fu sufficiente a lanciare il ripensamento della sinistra sulla realtà del capitalismo, che ebbe luogo tra il dibattito del 1956 su Lavoratori e progresso tecnico e il convegno dell'Istituto Gramsci sulle Tendenze del capitalismo italiano del 1962. Soprattutto, la svolta del 1955 capovolse «la legittimazione dell’azione operaia», che non era più fatta dipendere dall’organizzazione e dalla politica, ma fatta salire dalla classe (ibid., p. 100). Foa si avviava così a diventare il teorico dell’autonomia operaia, una posizione che gli diede grande visibilità nella nuova sinistra che stava emergendo anche grazie alla denuncia chruščëviana dei crimini di Stalin al XX congresso.
I Foa sostennero la svolta sovietica, convinti che essa aprisse una stagione segnata dalla ricerca di un nuovo socialismo. Questa ricerca si incarnò allora nel Mondo operaio di Raniero Panzieri e si manifestò al congresso socialista di Venezia del 1957, in cui Foa riportò alle elezioni per il Comitato centrale più voti di Nenni, accusato di aprire a un accordo con la DC. Foa, che a fine anno entrò nella segreteria della CGIL, pubblicò su Mondo operaio un articolo, Il neocapitalismo è una realtà, con cui assumeva la guida intellettuale della nuova sinistra sindacale per la sua capacità di guardare in faccia la realtà che il boom economico andava disegnando, e per i duri attacchi subiti per questo dalla stampa comunista. Negli anni successivi Foa e Panzieri avrebbero continuato a collaborare, prima nella corrente Sinistra socialista, fondata nel 1959, e poi in Quaderni Rossi, che aprì nel 1961 il suo primo numero con un editoriale dello stesso Foa, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, che ne allargò la fama negli ambienti internazionali della nuova sinistra.
Nella testimonianza di chi gli era vicino, Foa era allora «un uomo duro, rigoroso, spesso spigoloso» (Vittorio Foa, sindacalista, politico, scrittore, 2010, p. 32). Tesi, oltre che con i nenniani, o Pertini, erano i suoi rapporti con Lelio Basso, e tesi divennero anche i rapporti con Panzieri. Il conflitto fu innescato dagli scontri del luglio 1962 a Piazza Statuto, che la CGIL e il PCI denunciarono come teppismo antioperaio. Panzieri, pur non portandone la responsabilità, aveva invece cercato di comprenderne le ragioni e aveva criticato il sindacato, una critica che Foa mal sopportò.
Appoggiò la svolta operata dalla Cassa per il Mezzogiorno nel 1959 in favore di investimenti industriali spesso affidati all’industria di Stato. Dopo aver votato nel 1962 per il programma economico presentato da Lombardi al Comitato centrale, e per il governo Fanfani, che il PSI appoggiò dall’esterno, si schierò però, insieme ai sindacalisti della sinistra socialista, contro il centrosinistra in nome di un socialismo che fosse al contempo contro il capitalismo e il comunismo filosovietico. Divenne così uno dei fondatori del PSIUP (Partito socilista italiano di unità proletaria), che ebbe però vita breve e difficile: nel 1968 esplosero le contraddizioni tra la sua ala filosovietica, che appoggiò l’invasione di Praga, e l’anima libertaria, cui apparteneva Foa, che in quei mesi fu l’unico importante dirigente della Resistenza a schierarsi con i movimenti giovanili. Lo fece però difendendo la CGIL, come testimoniò nel 1969 la normalizzazione da lui imposta allo PSIUP di Torino, diretto da Pino Ferraris.
Al congresso della CGIL del luglio 1969, Foa – impegnato nella battaglia per la riforma delle pensioni e contro le gabbie salariali – fu uno dei più convinti sostenitori dell’unità sindacale. A quello successivo, che elesse Lama segretario, annunciò il suo distacco dal sindacato, motivando la sua scelta con l’età e ragioni di salute. Non era certo sua intenzione dedicarsi al lavoro di partito, ma l’abbandono delle cariche sindacali avrebbe segnato l’inizio del suo ritorno dopo vent’anni alla politica attiva. Pensava di inaugurare un nuovo ciclo della sua vita, dedicato allo studio della storia, di cui il contributo alla Storia d’Italia Einaudi sulle lotte operaie e sindacali in Italia (1973) fu uno dei primi frutti. Vi si leggeva tra l’altro che «fin dai loro inizi [esse] presentano forti elementi di autonomia, non seguono passivamente né le leggi del mercato né la disciplina politica, ma si costruiscono sull’autocoscienza della condizione di lavoro e dei bisogni» (p. 1787). La risonanza di queste tesi nell’Italia dei primi anni Settanta fu enorme e il Foa che salutava in nome dei bisogni la rottura del rapporto tra paga e rendimento rafforzò la sua posizione di teorico principale dell’autonomia operaia, nel cui nome giunse a criticare aspramente lo Statuto dei Lavoratori.
Totale fu, al contrario, l’appoggio dato ai consigli di fabbrica, in cui Foa vide un importante esperimento di democrazia diretta, e di cui il suo amico Trentin fu il dirigente sindacale di riferimento. Ma se questi vi vedeva le istanze di base di un nuovo sindacato unitario, Foa rivendicò la loro autonomia anche rispetto al sindacato, scorgendovi i soggetti di un nuovo movimento di massa, tra il sindacale e il politico, proiettato all’esterno della fabbrica. Fu questa la fase più estremista della vita di Foa, trasportato dalle lotte operaie e sindacali. Le sue teorie attirarono l’attenzione dei giovani economisti della neonata facoltà di economia di Modena, dove era già iscritta la figlia Bettina, e dove Foa contribuì a organizzare nel 1973 e 1974 due brevi corsi di economia, intitolati L’attuale situazione economica e le scelte di fronte al movimento operaio, rivolti a militanti e potenziali studenti di tutto il paese.
Intanto si era consumata la crisi dello PSIUP, il cui gruppo dirigente, dopo la sconfitta alle elezioni del 1972, entrò in maggioranza nel PCI. Insieme ad altri leader della sinistra sindacale, Foa fondò invece il Partito di Unità proletaria, il PdUP, che nel 1974 si unì al Manifesto, aggiungendo al suo nome un «per il comunismo» che Foa osteggiò. Base della piattaforma politica del partito era l’idea che nel 1972-73 l’iniziativa operaia aveva subito una sconfitta; il governo delle sinistre, reso possibile dall’onda lunga delle lotte degli anni precedenti, diventava così il rimedio politico a una situazione non più positiva. Nel 1974-75 Foa credette fortemente a questa ipotesi. Nel 1976, eletto a Milano e Napoli, si dimise a favore di candidati di Avanguardia operaia e Lotta continua, una scelta che fu criticata, provocandogli amarezza. Soprattutto, il recupero democristiano, la polarizzazione dell’elettorato tra DC e PCI e i passi in direzione di un accordo tra i due partiti maggiori posero fine alle sue speranze, accentuandone il pessimismo. Dapprima rispose rifugiandosi in una crescente radicalità, che lo lasciava però insoddisfatto. Come avrebbe in seguito ricordato, «si chiudeva una fase lunga e importante della mia vita, che mi era sempre apparsa come uno sviluppo logico dell’impegno politico e morale della mia giovinezza. Vivevo male quella crisi, non ero capace di governarla, mi sembrava finisse un intero mondo con tutte le sue presenze e le sue voci» (Passaggi, 2000, p. 28).
Nel 1976, sotto il peso della contestazione femminista alla logica operaista, si era sciolta Lotta continua, in cui militava la moglie Lisa, con la quale si stava consumando una rottura dolorosa. La ferita era profonda, e agli amici il Foa del 1980, su cui pesavano interrogativi politici, intellettuali e ideali radicali, apparve provato, anche fisicamente. Come avrebbe dichiarato a Carlo Ginzburg, il suo ripensamento ebbe poco a che fare col caso Moro o il terrorismo, condannabili anche da una prospettiva politica tradizionale di sinistra (Dialogo, 2003, p. 21). I fattori fondamentali furono piuttosto il femminismo e i nuovi movimenti del 1977: il primo perché recideva le radici teoriche dell’ipotesi che aveva affidato le prospettive della liberazione collettiva all’evoluzione del rapporto capitale-lavoro; i secondi perché con la loro contestazione ai sindacati segnavano «la sconfitta dell’operaismo vincente nel 1969» (Il cavallo e la torre, 1991, p. 304).
Il 1979 e la sconfitta elettorale della sinistra accelerarono la svolta. A fine anno un Foa personalmente, politicamente e intellettualmente scosso, decise di rispondere alla crisi «con il silenzio. Decisi di tacere per quattro anni e ci riuscii» (Passaggi, 2000, p. 104). Quel silenzio politico divenne l’incubazione di una «fantastica vecchiaia» durata 30 anni, e resa possibile proprio da quell’atto di rottura e rinascita (Vittorio Foa, sindacalista, politico, scrittore, 2010, p. 38). All’inizio esso coincise però con una tempesta, causata dalla «vastità della devastazione delle lunghe certezze della mia vita» (La politica e la persona, 1986, pp. 71 s.). Anche per questo lo studio della storia gli apparve come un appiglio sicuro, rafforzando l’idea che bisognasse cercare nel passato le risposte alle domande del presente. Era una reazione simile a quella di altri intellettuali, tra cui molti amici di Giustizia e Libertà nel dopoguerra, e di dirigenti politici americani ed europei che amici sarebbero diventati, come Edward Palmer Thompson e David Montgomery, dopo la scossa del 1956. Proprio dagli studi di Thompson Foa prese una categoria, quella di «tempo», che gli parve per alcuni anni il concetto capace di ridurre di nuovo tutto a unità, sostituendo l’ormai improponibile «centralità operaia». Il tempo era infatti centrale sia per gli operai sia per le donne e i giovani, e puntare su di esso sembrava rendere possibile il superamento della visione del lavoro come valore fondante.
Nel 1980, sempre citando Thompson, Foa vantò il possibile contributo della storia sociale nella ricerca di vie d’uscita dalla crisi di un movimento operaio che, bloccato nei dogmi ideologici e chiuso nelle istituzioni, non era in grado di leggere la realtà. Si trattava di una visione della storia sociale molto vicina a quella ormai da qualche anno dominante a livello internazionale, forte di una chiara ed esplicita ispirazione (e aspirazione) politica. Tuttavia, la sinistra storiografica italiana, impegnata sul fronte di una storia sociale diversa, non amò la sua proposta. Nel 1981 il manoscritto della sua Gerusalemme rimandata fu respinto dal comitato dei lettori della Rosenberg & Sellier. Il libro fu poi pubblicato, in una versione radicalmente rimaneggiata, nel 1985 ma anche allora non ebbe successo. Pose però le basi della rinascita, intellettuale e politica di Foa, che lo considerò sempre il suo libro più caro, e tormentato.
Sempre nel 1981 Foa e Pietro Marcenaro decisero di scrivere insieme un libro-intervista. Foa vi ritornò sulla 'tempesta' in cui viveva e che investiva «strumenti di analisi, modelli culturali e progetti di trasformazione praticati per decenni (marxismo, socialismo)», parlando del suo «bisogno di salvare dalla liquidazione quello che del mio passato sembra a me un nucleo coerente». Per farlo, aggiunse, occorreva «interrogare il passato e verificarne la continuità col presente», nonché aprirsi al confronto coi giovani (Riprendere tempo, 1982, p. 96). Era il programma per gli anni successivi, segnati dall’impegno autobiografico e storico; dalla ricerca del dialogo, specie, ma non solo, con i giovani; dal tentativo di ripensare lo stesso significato e i contenuti della sinistra, modificandone la cultura; e da uno sguardo rivolto al futuro.
Il suo rientro nel dibattito politico avvenne nel 1983, con un’intervista su L’Unità. Nello stesso anno era tornato alla CGIL, assumendo la direzione dell’IRES (Istituto di Ricerche Economiche e Sociali), aveva avviato una nuova stagione di corsi universitari, e iniziato il lavoro preparatorio sulle sue memorie e la storia del XX secolo. Era anche andato a vivere con Sesa Tatò e le loro case, quella di Roma, ma soprattutto quella di Castelforte prima, e di Formia poi, divennero centri di vita e discussioni cui parteciparono nel corso degli anni con interesse e piacere centinaia di persone. L’ospitalità dei Foa-Tatò era straordinaria e a essa contribuiva anche la trasformazione dell’atteggiamento dello stesso Foa. A Marcenaro, che gli aveva chiesto come avesse fatto a diventare «buono», rispose che era stata la sofferenza del 1976-83 a fargli capire cose nuove.
Lo sforzo di immaginare un nuovo futuro era tanto più grande perché Foa vedeva la crisi delle idee che avevano motivato il suo impegno morale e politico, e sentiva che, almeno in Europa, la secolare stagione in cui era stato possibile pensare di conoscere le strade per arrivare al futuro sognato, era forse finita. Di fronte alla frana delle precedenti certezze, rifiutò però di aggrapparsi all’immagine della propria 'coerenza', della sua 'identità', un concetto che proprio allora stava acquistando grande peso nella politica come nella storiografia, ma che Foa non amava. Di identità discuteva piuttosto con la figlia Anna che, convertitasi all’ebraismo, lo costrinse a riflettere sui suoi rapporti con esso. La sua posizione gli parve ben riassunta da una frase di Freud che aveva dichiarato di essere «completamente estraniato dalla religione dei suoi padri, come da tutte le altre religioni», e di non riuscire a condividere gli ideali nazionalisti, ma anche di sentirsi «nella sua essenza un ebreo che non desidera cambiare questa sua natura» (prefazione all’edizione in ebraico di Totem e Tabù, 1930).
Chi si recava a discutere con Foa era colpito da conversazioni che non ruotavano mai su di lui e i suoi interessi, ma erano piuttosto animate dal suo interesse per la vita, i pensieri e le idee di chi gli parlava. Questi dialoghi contribuirono a libri importanti, come quello di Claudio Pavone sulla Resistenza come guerra civile, o la storia d’Italia di Paul Ginsborg. Altri divennero libri a due mani, ma i più rimasero solo conversazioni, di cui tantissime furono quelle con i giovani. La libertà, la storia, la politica, il lavoro, il futuro erano i temi principali di questi dialoghi, animati dalla tensione tra il valore dell’autonomia e quello della solidarietà, tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa, dall’anti-determinismo di Foa e dalla sua allergia alle ideologie. Questa tensione era però declinata in modo nuovo. Nel 1984, per esempio, quando Foa si pronunciò contro il referendum sulla scala mobile, il figlio Renzo, caporedattore e poi direttore de L’Unità, si accorse di aver a che fare con una persona passata «dalla ‘critica di sinistra’ al partito nel quale militavo… a una contestazione moderata, oggi si direbbe riformista» (Noi europei, 2008, pp. 78-80).
Nel 1986 pubblicò con Laura Balbo e Antonio Giolitti due libri dedicati a «una possibile reinvenzione della sinistra». L'anno successivo fu eletto senatore per la Sinistra indipendente, una carica che usò per dare più forza alle sue posizioni e accelerare la crisi dei dogmi della sinistra, come auspicò nelle lezioni tenute a Camerino nel 1988 (Le autonomie e il lavoro). Cercò anche di influenzare l’evoluzione del PCI, per «rendere possibile a un pezzo importante della società italiana di non autoescludersi da una partecipazione diretta al governo della Repubblica» (Passaggi, 2000, p. 136). I suoi sforzi furono però ostacolati dall’esplosione del mito gorbačëviano, che ridiede forza all’idea della diversità comunista.
Nel 1989-91, come buona parte della sinistra non comunista, anche Foa credette che la liquidazione del comunismo fosse foriera di promesse per il rinnovamento della Sinistra. Tuttavia, presto scoprì che con l’URSS e il socialismo reale affondava anche buona parte del bagaglio e della storia di quest’ultima. L’afasia intellettuale di tanti dirigenti comunisti gli fece capire che le speranze di rinnovamento non erano di facile realizzazione. Si rafforzò allora in lui la convinzione che la parabola del movimento operaio, e del socialismo, tradizionali fosse entrata nella sua fase terminale. Nel 1992 annotò che «la stessa parola ‘sinistra’» era diventata «un feticcio, un robusto reticolato in difesa dell’esistente» e che le «vecchie parole», pur possedendo «una loro verità», erano diventate «ormai marginali, o almeno molto parziali, sempre più parziali» (Passaggi, 2000, pp. 46, 109).
L’anno precedente aveva appoggiato la guerra in Iraq, e nel 1995 arrivò l’incoraggiamento a Gianfranco Fini che a Fiuggi annunciava il superamento del MSI, posizioni che gli attirarono le critiche dei suoi vecchi compagni con i quali però non cessò di discutere. Il dialogo continuò anche con Renzo che, riflettendo sul comunismo, si era avvicinato alla destra, una posizione che Foa non condivise, ma di cui cercò di capire le ragioni. Ciò non gli impedì tuttavia di unirsi alle proteste contro i governi Berlusconi, che attaccò nel suo ultimo intervento a una manifestazione pubblica nel 2002.
Pur confessando di essere annoiato dalla discussione su destra e sinistra, continuò a riflettere sul significato di quest’ultima, e lo fece in particolare preparando per la pubblicazione le lettere spedite dal carcere. In esse ritrovò le radici del liberalsocialismo parzialmente offuscato dalle scosse della seconda guerra mondiale, e riaffermato con radicalismo crescente dopo la svolta del 1977-83. Alla difficoltà di trovare, nelle nuove condizioni, «un senso al presente pensando al futuro» (Passaggi, 2000, p. 9), dedicò gli ultimi anni della sua lunghissima vita, allietata nel 2005 dalle nozze con Sesa. Due anni prima era uscito un suo colloquio con Carlo Ginzburg, l’ultimo scritto significativo della sua battaglia per trasformare la cultura politica di una sinistra di cui aveva elaborato una nuova definizione: «Non solo io ma gli altri, non solo qui ma altrove, non solo oggi ma domani» (Vittorio Foa sindalista, politico, scrittore, 2010, p. 44).
Morì a Formia il 20 ottobre 2008.
Scritti autobiografici: Il cavallo e la torre. Riflessioni su una vita, Torino 1991; Scelte di vita: conversazioni con Giovanni De Luna, Carlo Ginzburg, Pietro Marcenaro, Claudio Pavone, Vittorio Rieser, a cura di A. Ricciardi, ibid. 2010 (tenute a metà degli anni Ottanta per preparare Il cavallo e la torre).
Filmografia: Nostalgia del Futuro - In viaggio con Vittorio Foa, di P. Medioli, 2003 (http://www.cinemaitaliano.info/nostalgiadelfuturo); Per esempio Vittorio, di P. Medioli, 2010 (http://www.cinemaitaliano.info/peresempiovittorio).
Raccolte di scritti: La cultura della CGIL: scritti e interventi 1950-1970, Torino 1984; Lavori in corso 1943-1946, a cura di F. Montevecchi, ibid. 1999; Scritti politici. Tra giellismo e azionismo (1932-1947), a cura di A. Ricciardi, ibid. 2010.
Opere scelte (vedi anche http://www.vittoriofoa.unimore.it/site/home/bibliografia.html): La “crisi fiduciaria” e gli alti salari, in I Problemi del lavoro, 1932, n. 9, pp. 14 s.; I partiti e la nuova realtà italiana. La politica del C.L.N., in Quaderni dell’Italia libera, marzo 1944 (sotto lo pseudonimo di Carlo Inverni); Il piano economico della CGIL per il risanamento dell'economia nazionale, conferenza tenuta al cinema-teatro Carcano, Milano 1949; Il neocapitalismo è una realtà, in Mondo Operaio, 1957, n. 5 (poi in La cultura della CGIL cit., pp. 41-44); La CGIL di fronte alle trasformazioni tecnologiche nell'industria italiana, con B. Trentin, in Lavoratori e sindacati di fronte alle trasformazioni del processo produttivo, Milano 1960; Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, in Quaderni Rossi, 1961, n. 1, pp. 1-17; Alcune indicazioni per una lotta politica sul salario, in Giovane critica, 1971, n. 27; Sindacati e lotte sociali, in Storia d’Italia, V, I documenti, II, Torino 1973, pp. 1783-1828; Sindacati e lotte operaie. 1943-1973, ibid. 1975; Per una storia del movimento operaio, ibid. 1980; I problemi di fondo del sindacato italiano in cento anni di storia. Tre lezioni, Roma 1983; La cultura del sindacato e le sue alternative. Corso integrativo di economia del lavoro, Napoli 1985; La Gerusalemme rimandata. Domande di oggi agli inglesi del primo Novecento [1981-85], Torino 1985 (II ed., con introd. di Pino Ferraris, Torino 2009); Le autonomie e il lavoro. Le lezioni di Camerino su antifascismo e sindacato [1988], Roma 2009; Questo Novecento, Torino 1996; Passaggi, ibid. 2000.
Dialoghi e colloqui: Unire è difficile. Breve storia del PdUP per il comunismo. Colloqui con Foa, Parlato e Pintor, a cura di R. Pellegrini - G. Pepe, Roma 1977; Riprendere tempo: un dialogo con postilla, con P. Marcenaro, Torino 1982; La politica e la persona [1983], con A. Pesce, in Inchiesta, 71-72 (1986), p. 96; Lettere da vicino. Per una possibile reinvenzione della sinistra, con L. Balbo, Torino 1986; La questione socialista. Per una possibile reinvenzione della sinistra, con A. Giolitti, ibid. 1986; Il difficile cammino del lavoro, con V. Rieser, Roma 1990; Il futuro in mezzo a noi, con F. Farinelli, ibid. 1994; Le virtù della repubblica, con P. Ginsborg, Milano 1994; Del disordine e della libertà, con R. Foa, Roma 1995 (v. anche Noi europei. Un dialogo tra padre e figlio, ibid. 2008 con una postfazione di R. Foa); Il sogno di una Destra normale, con Furio Colombo, Milano 1995; Il silenzio dei comunisti, con M. Mafai - A. Reichlin, Torino 2002; Un dialogo, con C. Ginzburg, ibid. 2003.
Roma, Archivio Vittorio Foa, presso Sesa Tatò (ordinato da Andrea Ricciardi, in corso di versamento all’Archivio Centrale dello Stato); Archivio Centrale dello Stato per i documenti relativi all’arresto, al processo e alla detenzione; Archivio storico della CGIL; Lettere della giovinezza. Dal carcere, 1935-1943, a cura di F. Montevecchi, Torino 1998. L. Valiani, Tutte le strade conducono a Roma, Firenze 1947; C. Levi, L’orologio, Torino 1950; A. Gobetti, Diario partigiano, Torino 1956; N. Ginzburg, Lessico famigliare, Torino 1963; A. Foa - D. Jona, Noi due, Bologna 1997; L. Foa, È andata così, Palermo 2004; Vittorio Foa. Sindacalista, politico, scrittore, Roma 2010; Vittorio Foa e le trasformazioni della società italiana, a cura di A. Andreoni - E. Pugliese, Roma 2011.