PICA, Vittorio
PICA, Vittorio. – Nacque a Napoli il 28 aprile 1862 da una relazione extraconiugale fra il patriota abruzzese Giuseppe, professore di diritto criminale all’Università di Modena e senatore del Regno, e l’inglese Annie James, conosciuta in esilio a Londra nel 1860 e sposata in seconde nozze nel 1880. Nello stesso anno Pica fu adottato da Giuseppe senza i riconoscimenti legali.
Benché dunque, da allora, utilizzasse il cognome Pica, con cui del resto firmò tutti i suoi scritti sin dal 1881, all’anagrafe rimase sempre ufficialmente registrato come Vittorio Emanuele Giuseppe Vincenzo de Anna, figlio del funzionario delle Regie poste italiane Luigi de Anna, probabilmente un fittizio matronimico indicato da Annie ‘Anna’ James al momento della dichiarazione di paternità (Calzini, 1930, p. 262; Citro, 1985).
Nella sua formazione ebbero un peso rilevante l’educazione inglese ricevuta dalla madre e la frequentazione della colta borghesia partenopea e in particolare, sulle orme paterne, degli ambienti liberali dei circoli giuridici (su questo aspetto cfr. N. Ruggiero, in Pica, 2004, pp. 13 s. e nota 20). L’iscrizione, nel 1880, alla facoltà di giurisprudenza di Napoli fu dunque una tappa quasi obbligata anche se negli anni universitari prese corpo in maniera sempre più consistente l’interesse per la critica letteraria. Dell’aprile del 1881 è infatti la pubblicazione del primo articolo su Albert Glatigny nella rivista Intermezzo, cui seguirono la fondazione della rivista Fantasio e il primo di una lunga serie di interventi dedicati ai fratelli Edmond e Jules de Goncourt nella Rivista nuova (un regesto completo degli articoli giovanili fino al 1898 è in Gaudio, 2006, pp. 141-160).
La predilezione per la letteratura francese e, nella fattispecie, per il temperamento bohémien di Glatigny e per il naturalismo estetizzante dei Goncourt, si configurò da subito come un’eloquente dichiarazione d’intenti. Le prime occasioni critiche, maturate in seno al naturalismo francese – nel 1882 Émile Zola aveva indirizzato a Pica una lettera di stima per la gradita recensione dedicata al suo Pot-Bouille (E. Citro, in Cameroni, 1990, pp. 19 s.) – si orientarono così su sentieri meno ortodossi, cedendo progressivamente il passo alla fascinazione per poetiche simboliste e decadenti (Ragusa, 1958; De Nardis, 1966; Vinall, 2000). A ridosso della laurea, nel 1884, si consumò lo strappo definitivo con la scoperta di À rebour di Joris-Karl Huysmans e del pensiero di Arthur Schopenhauer, di cui tradusse, da un’edizione francese, alcuni passaggi pubblicati nel dicembre del 1884 su Cronaca sibarita (D’Antuono, 2002, pp. 51 s.; Cronaca sibarita, 2006, p. XII). La rivista era stata fondata in quello stesso anno a Napoli, da alcuni dei collaboratori di Fantasio, e fra questi anche da Pica, in un’elegante e raffinata veste grafica ispirata alla romana Cronaca bizantina (Iermano, 1995; D’Antuono, 2002, pp. 99-120; Cronaca sibarita, 2006).
Nel 1885 Pica esordì in lingua francese nella Revue contemporaine, con un articolo sulla Littérature italienne. Notes sur les écrivains modernes, e inaugurava sulla Gazzetta letteraria la rubrica «I moderni bizantini», in cui si succedettero approfondimenti su Francis Poictevin, Huysmans e Paul Verlaine e, nel 1886, su Stéphane Mallarmé. Del 1887 sono gli articoli F. Fénéon. Les impressionistes en 1886, sulle pagine delle Conversazioni della domenica, e Watteau e Verlaine, nel Fanfulla della domenica. All’anno successivo datano invece gli interventi su Charles Baudelaire, Mallarmé e Aloysius Bertrand, e la pubblicazione di un sonetto inedito di Arthur Rimbaud in La Cravache parisienne. Il tramite con la rivista parigina fu Félix Fénéon il quale, pochi mesi prima, sulle pagine della stessa rivista, in un articolo intitolato Le Pica, aveva tessuto le lodi del giovane critico napoletano.
Nel 1890 Pica raccolse una prima selezione dei suoi articoli sulla letteratura simbolista francese nel volume All’Avanguardia: studi sulla letteratura contemporanea (Napoli), con cui per la prima volta veniva introdotto in Italia il termine ‘avanguardia’ quale sinonimo di una condizione avanzata della ricerca artistica, in posizione di fronda rispetto al gusto corrente. Il libro gli valse subito una grande visibilità, anche a livello internazionale, e in Francia specialmente, dove s’intensificarono le sue collaborazioni con la Revue indépendante, segnate da nuove aperture su Huysmans e Mallarmé (Gotta, 1955). Ai contatti con la rivista si deve far risalire anche l’incontro con il musicologo Téodor de Wyzewa, che definì Pica «l’un des plus subtils parmi les critiques de notre âge» (Cambedda, 1980).
Nel corso del decennio rimase preponderante l’impegno sul fronte della critica letteraria: nel 1892, per l’editore Pierro di Napoli uscì Arte aristocratica, testo della conferenza tenuta il 3 aprile dello stesso anno al Circolo filologico di Napoli («Arte aristocratica» e altri scritti su naturalismo, sibaritismo e giapponismo (1881-1892), a cura di N. D’Antuono, Napoli 1995; Arte aristocratica e due scritti rari, saggio introduttivo e nota al testo di T. Iermano, Manziana 1996), e più tardi, nel 1898, per Baldini & Castoldi di Milano, fu licenziata Letteratura d’eccezione, in cui vennero riproposti alcuni articoli già editi dedicati alla letteratura tardonaturalista e simbolista (poi a cura di E. Citro, Genova 1987). Su un altro versante (in cui tuttavia è gioco facile riconoscere ancora una volta l’influenza dei Goncourt), i primi anni Novanta furono caratterizzati da un forte interesse per l’arte giapponese, al centro di una serie di articoli e conferenze che avrebbero costituito le premesse per la pubblicazione del volume L’Arte dell’Estremo Oriente nel 1894 (Lamberti, 1987).
A partire dal 1895 si registrano i primi articoli dedicati all’arte europea e quindi alle cronache dalla prima edizione della Biennale di Venezia. Pica seguì costantemente la manifestazione nelle sue recensioni su riviste e quotidiani nazionali (Il Mattino, L’Ora, Il Corriere della Sera), poi selezionate e raccolte in volume, dapprima per l’editore Pierro di Napoli (1895 e 1897) e poi, in maniera più sistematica, a partire dal 1899 e fino al 1907, per l’Istituto italiano d’arti grafiche di Bergamo. Al 1896 risalgono le prime collaborazioni con Il Marzocco di Firenze e con Emporium, su cui divennero presto appuntamento fisso i suoi interventi nelle rubriche «Artisti contemporanei» e «Letterati contemporanei», «Raccolte d’arte» e «Attraverso gli albi e le cartelle» (Musetti, 2011). Gli articoli di quest’ultima rubrica vennero raccolti in quattro serie omonime, con il sottotitolo Sensazioni d’Arte, per i tipi dell’Istituto italiano d’arti grafiche di Bergamo (Lacagnina, 2010).
Gli scritti per Il Marzocco, Il Pungolo ed Emporium valsero a Pica il secondo premio per la critica alla seconda edizione della Biennale di Venezia, ex aequo con Ugo Ojetti. Ancora una volta ex aequo con Ojetti e con Enrico Thovez, Pica si aggiudicò il terzo posto alla seconda edizione del premio, nel 1899, riuscendo a conquistare il più ambito premio soltanto nel 1901 (Stella, s.d. [ma 1912?]). Agli stessi anni datano gli interventi su Minerva e Flegrea. Assai numerose, tra fine e principio di secolo, anche le collaborazioni internazionali: dai contributi sulle riviste francesi prima richiamate, cui vanno aggiunti almeno gli articoli per L’Art moderne, La Revue encyclopédique Larousse, L’art décoratif, al testo introduttivo del Catalogo illustrato della III Esposizione internazionale di Buenos Aires, Montevideo, Valparaiso, tradotto in spagnolo dal poeta nicaraguense Rubén Darío nel 1905; dai contributi sull’inglese The Studio a quelli sulle riviste tedesche Die Kunst e Dekorative Kunst, sulla spagnola Museum o ancora sulla portoghese Arte, fondata a Coimbra nel 1895 da Manuel da Sylva-Gayo ed Eugenio de Castro, di cui, nel 1896, Pica tradusse il dramma Belkiss, regina di Saba, d’Axum e dell’Hymiar (Rei, 2012).
In alcuni casi l’intensa attività pubblicistica dei primi due decenni del Novecento ha trovato poi sviluppo in più impegnativi volumi, ora di nuova scrittura, ora costruiti sulla raccolta di contributi già editi. Ad esempio, nell’edizione «di lusso» de La Galleria d’Arte moderna di Venezia (Bergamo 1909), ampi stralci di scritti già pubblicati vennero diversamente rimontati nel profilo proposto sull’arte moderna italiana ed europea conservata a Ca’ Pesaro. Così anche per il volume L’Arte giapponese al Museo Chiossone di Genova (1907), quinto titolo della collana Raccolte d’Arte diretta da Corrado Ricci, e seguìto l’anno successivo da Gl’impressionisti francesi (1908), il primo – e per lungo tempo anche l’unico – studio in lingua italiana sull’argomento (Lamberti, 1975). Medesimo destino toccò ai testi utilizzati per la monumentale monografia L’Arte Mondiale a Roma nel 1911 (Bergamo 1913), dedicata all’Esposizione internazionale di belle arti di Roma. Al 1914 risale la pubblicazione della monografia Giuseppe De Nittis. L’uomo, l’artista (Milano; cfr. Galeone, 1997) e all’anno successivo il volume Arte e artisti nella Svezia dei giorni nostri (Milano 1915). Una menzione speciale merita l’interesse per l’arte decorativa, investigata nelle sue diverse scuole nazionali, e con un acume pionieristico davvero sorprendente per quegli anni: esemplare rimane in tal senso il volume del 1903 in cui raccolse i fascicoli dell’Istituto italiano di arti grafiche che aveva dedicato all’Esposizione internazionale d’arte decorativa di Torino del 1902.
È fra queste polarità che si definisce dunque il gusto di Pica: dall’astratta sintesi formale dell’arte giapponese alla bidimensione immateriale dell’affiche e della grafica pubblicitaria (Il manifesto…, 1994), dalla pittura à plat degli impressionisti alla sincerità immediata e genuina dell’illustrazione per l’infanzia (verosimilmente maturata sui children’s books della sua educazione inglese), dal segno corsivo e mordace della caricatura alle raffinate calligrafie art nouveau della decorazione, dall’architettura modernista alla pittura e alla scultura tardonaturaliste e simboliste, in una geografia di riferimenti culturali piuttosto ampi e mai scontati: dalla Spagna (Lacagnina, 2005, 2009, 2011) ai Paesi scandinavi, dalla Serbia agli Stati Uniti d’America (Lacagnina, 2015); anche se sono soprattutto l’arte francese e quella belga a rimanere ambito privilegiato di scoperte e innamoramenti: da Odilon Redon a Puvis de Chavannes, da Émile Bernard a Maurice Denis a Ferdinand Khnopff, da Constantin Meunieur ad Auguste Rodin.
Pur se fin qui sottostimati e solo di recente recuperati in una più corretta prospettiva d’analisi, ugualmente fermi furono per Pica l’interesse per l’arte italiana e l’impegno per la sua promozione all’estero: così, accanto ai contributi dedicati alla pittura divisionista di Giovanni Segantini, Gaetano Previati, Angelo Morbelli e Giuseppe Pellizza (Lacagnina, 2014a) o a quella di Alberto Martini (Un’affettuosa stretta di mano, 1994), Mario De Maria, Giulio Aristide Sartorio, Adolfo De Carolis o, ancora, alla scultura di Leonardo Bistolfi, si registrano altrettanti interventi a sostegno dell’opera di Francesco Paolo Michetti, Telemaco Signorini, Antonio Mancini, Giovanni Fattori o degli scultori Domenico Trentacoste, Vincenzo Gemito e Filippo Cifariello.
Nella prima metà del secondo decennio del Novecento arrivarono i primi riconoscimenti ufficiali. La nomina di Pica a commissario speciale per l’arte straniera all’Esposizione internazionale di belle arti di Roma del 1911 ne sanciva definitivamente il prestigio personale, quale critico di statura europea, in contatto diretto con quasi tutti gli artisti invitati alla rassegna voluta per celebrare il primo cinquantenario dell’Unità d’Italia. Sulla scia del successo ottenuto nella capitale giunse la nomina a vicesegretario della Biennale di Venezia del 1912, con delega speciale all’ufficio vendite: incarico riconfermato anche nella successiva edizione del 1914 (Donzello, 1987; Zatti, 1993; Manente, 2011).
Prima di allora, di là da alcune brevi presentazioni in catalogo (ma solo dal 1901), il nome di Pica non figura in alcuna fra le cariche ufficiali della manifestazione e pertanto va ridimensionato il contributo del critico alla fondazione della rassegna artistica, come invece spesso attestato da più fonti senza i dovuti riscontri documentari. Allo stesso modo va smentita la notizia, anche questa più volte ripetuta nella letteratura corrente su Pica, per cui egli fu direttore di Emporium «verso il 1900» (Calzini, 1930, p. 261) e fino alla morte. In una lettera a Lionello Fiumi del 6 settembre 1917 egli infatti scriveva: «io sono il più antico e il più assiduo collaboratore dell’Emporium, ma non ne sono il direttore né mi occupo della sua compilazione» (Verona, Biblioteca civica, Centro studi internazionale Lionello Fiumi).
Alla ripresa delle attività culturali in Italia, dopo la fine del primo conflitto mondiale, Pica venne nominato segretario generale della Biennale di Venezia, carica che mantenne dal 1920 al 1926 per quattro edizioni.
Il giudizio sull’ultimo decennio di attività è ancora oggi piuttosto controverso: indicato dai più come un baluardo della conservazione e di un gusto ormai datato, nel suo ruolo istituzionale fu bersaglio di numerosi attacchi personali e al centro di non poche polemiche (con Filippo Tommaso Marinetti, Ardengo Soffici, Margherita Sarfatti). A essere messi in discussione furono soprattutto i criteri adottati per la selezione degli artisti da invitare e le resistenze espresse nei confronti tanto del gruppo del Novecento Italiano quanto del futurismo (di fatto in mostra a Venezia soltanto, rispettivamente, nel 1924 e nel 1926).
In realtà, Pica si fece promotore di alcune iniziative pionieristiche ai Giardini, rispetto allo specifico contesto del dibattito italiano: nel 1920, ad esempio, con l’allestimento di una mostra retrospettiva su Paul Cézanne e di una personale di Alexander Archipenko; nel 1922, con le mostre su Modigliani, ordinata dallo stesso critico napoletano, e di scultura ‘negra’, affidata ai professori Carlo Anti e Aldobrandino Mochi, con il dichiarato intento di documentarne la continuità con le ricerche cubiste, futuriste ed espressioniste dell’ultimo decennio. Parallelamente, sempre dalla ribalta veneziana, Pica conduceva un sistematico lavoro di rilettura dell’Ottocento italiano, con affondi dedicati ad Antonio Canova e Francesco Hayez o a pittori come Giuseppe De Nittis e Antonino Leto con importanti trascorsi parigini, per aprire quindi la strada a più compiute ricerche d’avanguardia, secondo un programma di presentazione graduale, in sede espositiva, degli sviluppi dell’arte moderna, che tenesse conto del livello di preparazione e delle aspettative del pubblico: queste, almeno, le dichiarazioni rese al podestà Pietro Orsi di Venezia nella lettera con cui Pica rassegnò le dimissioni dalla direzione della Biennale nel 1927 (Citro, 1985).
Nel corso degli anni Venti, nel controverso clima di montante nazionalismo del regime fascista, Pica fu considerato un ‘esterofilo’ e un ‘passatista’: la nomina a segretario generale di Antonio Maraini, stretto collaboratore di Achille Starace e protagonista di spicco della politica culturale di Benito Mussolini, chiarisce in maniera eloquente le ragioni di questo passaggio di consegne.
Lungo tutto il corso degli anni Venti, Pica, stabilmente trasferitosi da Napoli a Milano, dopo una breve parentesi romana e i prolungati soggiorni a Venezia per le biennali, mantenne un costante rapporto di collaborazione con la Galleria Pesaro, per la quale presentò diverse mostre di artisti italiani e stranieri, sulla falsariga delle scelte che avevano orientato la sua direzione delle esposizioni di Venezia, rivestendo in questo modo un importante ruolo di mediatore con il collezionismo privato d’arte moderna (Lacagnina, 2014a). Non mancano ancora, negli ultimi anni, importanti impegni editoriali, come il grande Atlante dell’incisione moderna cofirmato con Aniceto Del Massa nel 1928, e pubblicato anche in francese, ma a prevalere fu una progressiva marginalizzazione della sua persona e della sua eredità, nonostante, ad esempio, la straordinaria partecipazione internazionale a una mostra allestita in suo omaggio alla Galleria Scopinich di Milano subito dopo le dimissioni dalla direzione della Biennale di Venezia.
Morì a Milano il 1° maggio 1930.
Fonti e Bibl.: La bibliografia di Pica è piuttosto estesa e tuttavia può essere ricostruita con agio, limitatamente a quanto fin qui acquisito dagli studi, incrociando i titoli in appendice alla voce di Samek Lodovici, 1942, D’Antuono, 2002, pp. 175-200, e Gaudio, 2006, pp. 141-160; gli articoli pubblicati sulla rivista Emporium, interamente digitalizzata dal Laboratorio arti visive della Scuola normale superiore di Pisa, sono tutti disponibili e ricercabili on-line (http://www.artivisive.sns. it/galleria/); allo stesso modo, l’intera bibliografia di critica artistica è in corso di edizione on-line, a cura del Dipartimento di scienze storiche e dei beni culturali dell’Università di Siena, nell’ambito del progetto di ricerca FIRB 2012 Diffondere la cultura visiva: l’arte contemporanea tra riviste, archivi e illustrazioni (http://www.capti.it/).
A. Stella, Cronistoria della Esposizione internazionale d’arte della città di Venezia 1895-1912, Venezia s.d. [ma 1912?]; R. Calzini, In memoriam: V. P., in Emporium, LXXI (1930), pp. 259-266; G. Mombello, Lettere inedite di V. P. ad Émile Zola, in Studi francesi, IV (1960), pp. 267-275; E. Citro, Documenti per una biografia di V. P.: lettere inedite di Cameroni, Turati e Kuliscioff a V. P., in Nuova Rivista europea, IX (1985), 65, pp. 27-36; F. Cameroni, Lettere a V. P., a cura di E. Citro, Pisa 1990; Un’affettuosa stretta di mano. L’epistolario di Alberto Martini a V. P., a cura di M. Lorandi, Monza 1994; V. Pica, Lettere a Federico de Roberto, introduzione e note di G. Maffei, Catania, 1996; V. Pica, «Votre fidèle ami de Naples». Lettere a Edmond de Goncourt. 1881-1896, a cura di N. Ruggiero, Napoli 2004.
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