POZZO, Vittorio
POZZO, Vittorio. – Nacque a Torino il 2 marzo 1886 da Luigi e da Domenica Villa.
La famiglia proveniva da Ponderano, frazione di Biella. Frequentando il liceo Cavour e, come socio, lo Sport club Audace, Pozzo iniziò a dedicarsi – nella piazza d’Armi e in un giardino pubblico della città – alle corse, al tamburello e alla palla al pugno. Conobbe l’association football grazie a Giovanni Goccione, centromediano nella squadra di calcio della Juventus. Subito si appassionò al nuovo gioco: non solo entrò nelle file del Football club internazionale (FCI) Torino e poi del Football club (FC) torinese, ma il mattino dell’8 maggio 1898 partì in treno per Genova, per essere uno dei 212 spettatori della prima finale di campionato tra il Genoa cricket and football club e il FCI Torino.
Il ‘bacillo calcistico’ si fece più virulento durante lo stage a Zurigo, ospite del Collegio di studi commerciali Concordia, nel quale ebbe modo di militare nelle riserve del Grasshoppers football club. Quindi soggiornò in Francia, Germania e, nel 1908, in Inghilterra, dove apprese l’inglese (parlava e scriveva già in francese e tedesco) e approfondì la conoscenza del gioco. Tornato in patria entrò come impiegato alla Pirelli e aderì al Torino FC, divenendone giocatore-allenatore nel 1911. Il 29 luglio di quell’anno accettò l’ufficio di segretario della Federcalcio. Su invito del marchese Alfonso Ferrero di Ventimiglia, nell’estate del 1912 condusse la rappresentativa italiana ai Giochi olimpici di Stoccolma. Questa prima esperienza di direttore tecnico della Nazionale – esordio assoluto degli ‘azzurri’ in una competizione ufficiale – si concluse con due sconfitte e una vittoria. Nel luglio-settembre 1914 Pozzo partecipò con il Torino a una tournée in Sudamerica.
Gli anni in trincea durante la Grande Guerra, passati tra gli alpini con il grado di tenente, gli insegnarono l’importanza del sacrificio, del rigore morale e dell’essenzialità di una vita spartana, tutti caratteri che avrebbe applicato nella sua visione della professione sportiva.
Gli anni Venti videro Pozzo, opinionista su riviste e giornali come Il Calcio e La Stampa, gravitare nel gotha della Federazione italiana giuoco calcio (FIGC). Nel 1921 fu uno degli artefici della riforma dei campionati che portò, nel 1929, alla nascita della Serie A; un meccanismo, il ‘progetto Pozzo’, che sfrondò il calcio d’élite dalla zavorra delle compagini dilettantistiche provinciali e avviò il professionismo legato ai club cittadini. Nel 1924 tornò a guidare la Nazionale al torneo olimpico di Parigi; l’aiuto dei coaches britannici William Garbutt e Herbert Burgess non lo salvarono da un’eliminazione nei quarti di finale. Il 24 settembre diede le dimissioni dall’incarico, durato sette mesi.
La morte, avvenuta il 10 dicembre 1924 dopo lunga malattia, della moglie Caterina Recanzone, sposata nel 1911, obbligò Pozzo ad affidare i due figli, il dodicenne Aldo e l’undicenne Franco, a un collegio. Nel tentativo di riprendersi dalla difficile situazione si dedicò, appassionandosi, alla montagna e si trasferì a Milano, a lavorare nell’Ufficio propaganda della Pirelli.
Nell’autunno del 1929 il gerarca Leandro Arpinati, presidente della Federcalcio fascistizzata, gli consegnò per la terza volta il comando della squadra azzurra con la qualifica di commissario unico (CU). Pozzo accettò per la stima che aveva di Arpinati, ma non volle compensi: si sentiva un amateur ed esigeva libertà d’azione.
La maturazione dello stile italiano, tatticamente evolutosi grazie all’apporto di giocatori e tecnici ungheresi, boemi e austriaci, unitamente all’inserimento in alcuni club nazionali degli ‘oriundi’ argentini, uruguaiani e brasiliani attratti dai ricchi ingaggi, mise a disposizione di Pozzo una generazione di campioni molto più forte della precedente. La sua conduzione competente, paternalistica e quasi maniacale nei dettagli (due esempi: le lettere che arrivavano nei ritiri ai giocatori dovevano prima essere lette dal CU; il talentuoso centrocampista Fulvio Bernardini fu allontanato dal giro azzurro perché troppo sofisticato nel gioco e perciò non compreso dai compagni), sostenuta dall’acume psicologico con cui valutava i propri atleti e le forze avversarie, fecero da volano a quello che, ancora oggi, viene considerato il periodo aureo del calcio italiano.
Nel 1932 Pozzo sposò in seconde nozze Concetta Longo, dalla quale ebbe il figlio Alberto.
Nel periodo dal 1930 al 1938, ‘monsù’ arricchì il blasone della FIGC con le vittorie ai Campionati mondiali di calcio del 1934, ospitati in Italia, e del 1938, giocati in Francia, utilizzando quasi esclusivamente elementi del Nord Italia, militanti per lo più nei club Juventus, Torino, Inter, Milan e Bologna.
Da menzionare, la mitica difesa juventina Combi-Rosetta-Caligaris con i centrocampisti Luis Monti e Giovanni Ferrari e l’irresistibile ala bairense Raimundo Bibiani Orsi; il centrattacco nerazzurro Giuseppe Meazza, le ali rossoblù Angiolino Schiavio e Amedeo Biavati, e due divi della capitale: il romanista Attilio Ferraris e il laziale Silvio Piola. I trionfi nella FIFA (Fédération Internationale de Football Association) Cup furono inframmezzati dal successo olimpico del 1936 a Berlino, ottenuto con un manipolo di studenti universitari. A queste conquiste prestigiose, si aggiunse il dominio nella Coppa internazionale (1930 e 1935), trofeo in palio tra le rappresentative dell’Europa centrale.
Pur essendo un estimatore del valore atletico e del fair play britannici, Pozzo adattò il gioco delle sue selezioni al modello cosiddetto danubiano, incardinato sul centromediano e che veniva chiamato metodo in opposizione al sistema inglese. Il raffronto tra i due schemi tattici – la fantasia latina dei lanci e dei dribbling contrapposta alle rapide triangolazioni di passaggi rasoterra – costituì il leitmotiv tra le due guerre. Entrambi gli stili erano, a ben vedere, lo specchio dei modelli politici delle due nazioni: nel ‘metodo’ emergeva il compito dei forwards e del centerhalf, autentico duce della situazione; nel ‘sistema’ il lavoro veniva suddiviso equamente e contavano il collettivo e la ‘stamina’, ovvero il fiato e la voglia di correre per gli altri. Pozzo sviluppò l’idea di uno schieramento con due difensori arretrati e uno centrale, posto davanti alla difesa di raccordo all’attacco, insieme a un altro maestro di tattica dell’epoca: l’austriaco Hugo Meisl. Lo stratega piemontese in effetti abbatté il mito dell’invincibilità dell’Austria, ma invano tentò di fare lo stesso con l’Inghilterra quando questa – nel 1933 a Roma, nel 1934 a Londra e nel 1939 a Milano – sfidò i campioni per asseverare la superiorità dei football masters. Un pareggio 1-1, una sconfitta 3-2 e ancora un pareggio 2-2 impedirono di infrangere il tabù albionico. La leadership italiana ebbe così la sua ‘macchia’. In particolare, rimase negli annali lo scontro del 14 novembre 1934, allorché gli azzurri, sostenuti dall’estro del ‘balilla’ Meazza, pur perdendo si meritarono il titolo di leoni di Highbury.
Nel secondo dopoguerra, l’uomo che aveva ricevuto nel 1938 la Stella al merito sportivo non poteva non essere confermato alla Nazionale, che si imperniava sui migliori elementi del Torino, squadra che signoreggiava in campionato valendosi di assi quali Valentino Mazzola e Guglielmo Gabetto. La ritrosia di Pozzo ad accettare fino in fondo l’offensivismo dei granata, la sua testardaggine a difendere il ‘metodo’ contro l’onda montante dei ‘sistemisti’, scatenò numerose polemiche e portò alla messa in campo di formazioni tatticamente ibride con altalenanti risultati. Una sconfitta per 5-1 a Vienna e un ‘rovescio’ 4-0 a Torino con l’Inghilterra (16 maggio 1948) convinsero Ottorino Barassi, il segretario della FIGC, che l’era Pozzo fosse al tramonto.
Ne seguirono dispetti e sgambetti, atti a far sì che l’ultima avventura del commissario unico, il torneo olimpico di Londra, si risolvesse in un fallimento. L’eliminazione nei quarti comportò infatti le dimissioni a ottobre.
In un arco temporale compreso tra il 29 giugno 1912 (Italia-Finlandia a Stoccolma) e il 5 agosto 1948 (Danimarca-Italia a Londra), Pozzo poteva vantare la direzione di 98 gare della Nazionale A (65 vittorie, 17 pareggi, 15 sconfitte, 1 nv), 30 della B e 47 di rappresentative varie, con un record d’imbattibilità di trenta partite consecutive (1936-39) e la percentuale di gare vinte più alta tra tutti i selezionatori: il 65,97%.
Nel ventennio seguente, causa il disastro aereo di Superga che annientò il Grande Torino (toccò all’ex CU la corvée dolorosa di riconoscere le salme), e per via di una conduzione tecnica pessima, gli azzurri non vinsero più nulla.
Pozzo continuò a occuparsi di football come inviato di varie testate, tra cui La Stampa e Il Calcio illustrato. Seguì sul posto altri Mondiali, viaggiò in lungo e in largo e scrisse le sue memorie in un libro pubblicato alla vigilia delle Olimpiadi di Roma.
Morì all’Ospedale mauriziano di Torino il 21 dicembre 1968. Le sue spoglie furono traslate nella tomba di famiglia a Ponderano.
Incredibilmente la Lega Calcio dimenticò di far osservare, la domenica successiva, il prammatico minuto di raccoglimento negli stadi. Neppure il vecchio Comunale di Torino ne prese il nome, ma negli anni Settanta gli furono intitolati un centro sportivo a Milano-Niguarda e lo stadio di Boscoreale presso Napoli; infine, nel 2008, il La Marmora-Pozzo di Biella. Del 1969 è l’edizione inaugurale del torneo giovanile Memorial Vittorio Pozzo, dapprima ospitato al campo della Ardor Torino, poi al Motovelodromo e, dal 1998, al Campo del Ponderano.
Tra i suoi scritti: Ricordi di Pozzo, serie di 23 articoli apparsi dal 3 febbraio 1949 al 25 maggio 1950 su Il Calcio illustrato; Campioni del mondo. Quarant’anni di storia del calcio italiano, Roma 1960.
Fonti e Bibl.: Pozzo raccolse le sue carte nell’appartamento torinese messogli a disposizione dalla FIGC e dichiarato nel 1993 archivio di notevole interesse storico dalla Sovrintendenza archivistica per il Piemonte e la Valle d’Aosta. Una parte dei cimeli e della documentazione sono conservati nel Museo dello sport nello Stadio olimpico di Torino, e una parte dal figlio Alberto prima e ora dal nipote Piervittorio, figlio del primogenito Aldo; i cimeli comprendono una sezione fotografica/letteraria, depositata presso l’Archivio di Stato di Torino, e una raccolta di oggetti.
F. Bernardini, Dieci anni con la Nazionale, Roma 1946, pp. 213 s.; A. Ghirelli, Storia del calcio in Italia, Torino 1954, pp. 226-244; Le Football. Encyclopédie des sports modernes, I-II, Genève-Monaco 1954, II, p. 212; G. Brera, Storia critica del calcio italiano, Milano 1975, pp. 52-57, 199-213; A. Fasano - A. Pozzo, La nazionale 68 anni di storia. Appunti da un diario di storia e psicologia, Torino 1978, pp. 35-70, 84-110; L. Lolli, I Mondiali in camicia nera 1934-1938, Roma 1990, pp. 61-77; A. Papa - G. Panico, Storia sociale del calcio in Italia. Dal club dei pionieri alla nazione sportiva (1887-1945), Bologna 1993, pp. 169-176, 193-198; G. Baldo, La grande avventura. Ricordi, immagini e documenti della vittoria azzurra all’Olimpiade 1936, Perugia 1996, pp. 43-76; M. Grimaldi, V. P.: storia di un italiano, Roma 2002; S. Martin, Football and fascism, Oxford-New York 2004, pp. 197-203; G. Anderi, V. P.: quando il calcio parlava italiano, Dvd Istituto Luce, Roma 2006; N. Carter, The Football manager. A history, London-New York 2006, pp. 66 s.; J. Foot, Calcio. A history of Italian football, London 2007, pp. 428-430; M. Impiglia, Fussball in Italien in der Zwischenkriegszeit, in Fussball zwischen den kriegen. Europa 1918-1939, a cura di C. Köller - F. Brandle, Wien-Berlin 2010, pp. 145-182.