Vittorio Scialoja
Vittorio Scialoja, fra 19° e 20° sec., fu uno dei principali esponenti della cultura giuridica italiana di cui contribuì a elevare il livello scientifico, anche grazie alla diffusione e traduzione di metodologie e ricerche apparse in Germania. Unì allo studio e all'insegnamento del diritto (romano e civile) un considerevole impegno nella vita pubblica, soprattutto nelle vesti di senatore, ministro e presidente di commissioni legislative. La sua autorevolezza e il suo lungo magistero ne fecero un punto di riferimento per generazioni di giuristi, tanto che alla sua scuola si formarono protagonisti delle discipline storico-giuridiche, ma anche del diritto civile, processuale civile e amministrativo.
Figlio di Antonio (1817-1877) – esule napoletano, docente di economia politica, più volte ministro e figura politica assai vicina a Pasquale Stanislao Mancini e Giuseppe Pisanelli –, Vittorio Scialoja nacque il 24 aprile 1856 a Torino. Compì gli studi ginnasiali a Firenze e quelli liceali e universitari a Roma, ove si laureò nel 1877 con la tesi Sopra il precarium nel diritto romano, stampata l'anno seguente e discussa con Nicola De Crescenzio (1832-1895).
La sua carriera accademica fu rapidissima: già nel 1879 gli fu affidata la cattedra di diritto romano e codice civile nella libera Università di Camerino. Da qui si trasferì, come docente di diritto romano, a Siena nel 1881, per approdare infine a Roma nel 1884. In quest'ultima sede, ove insegnò fino al 1931, fondò l'Istituto di diritto romano, che provvide poi (1888) di un periodico: il «Bullettino», tuttora edito.
L'impegno scientifico, esteso a molteplici settori del diritto, fu accompagnato da doti, forse anche superiori, nell'insegnamento e poi nella selezione e formazione di giovani studiosi. Furono suoi allievi, fra gli altri, il romanista Pietro Bonfante (1864-1932), i civilisti Vincenzo Simoncelli (1860-1917), discepolo anche di Emanuele Gianturco, e Filippo Vassalli, il processualcivilista Giuseppe Chiovenda e l'amministrativista Oreste Ranelletti (1868-1956); ma la sua influenza fu notevole anche su Gino Segrè (1864-1942), Salvatore Riccobono (1864-1958), Vincenzo Arangio-Ruiz (1884-1964), Roberto de Ruggiero (1875-1934), Alfredo Ascoli (1863-1942) e Leonardo Coviello (1869-1939). Attraverso le nutrite genealogie accademiche che ne discesero, l'impronta di Scialoja – in cui la vocazione sistematica si coniugava all'attenzione filologica e alla sensibilità casistica – rimase impressa, sia pure diversamente rielaborata, nelle principali correnti della scienza giuridica italiana.
Al lavoro teorico unì quello pratico, di celebre avvocato civilista e amministrativista, e poi di uomo politico, con una cospicua serie di incarichi ricoperti e di iniziative intraprese. Fu senatore (dal 1904), ministro della Giustizia (1909-10) e degli Esteri (1919-20), primo rappresentante italiano nella Società delle Nazioni (dal 1921 al 1932), presidente della commissione per la riforma dei codici, promotore del progetto del codice unico italo-francese delle obbligazioni. La comunità scientifica gli rese un duplice ed esteso tributo: dapprima con i due volumi di scritti in suo onore, in occasione del 25° anniversario di insegnamento (1905); poi con solenni onoranze nazionali (e la raccolta dei cinque volumi dei suoi Studi giuridici) nel 1933, pochi mesi prima della morte, avvenuta a Roma il 19 novembre 1933.
Sin dagli anni dell'insegnamento camerte, l'apporto di Scialoja si connota per ampiezza di interessi e apertura metodologica. Queste doti, via via più sviluppate e unite alla rapidità e acutezza delle intuizioni (nell'immediatezza della lezione ancor più che nell'approfondimento scritto, per il quale egli stesso confessava una certa insofferenza), ne caratterizzeranno per decenni la figura, presto elevata ad autentico principe della scienza giuridica italiana, non solo nell'ambito del diritto romano. Più che un'ansia di sconfinamenti disciplinari (o di colonizzazioni accademiche), era vivissima in Scialoja l'esaltazione dell'unità del diritto, che si voleva ancorato a saldi principi e a specifiche tecniche – attraverso le quali educare quel 'senso giuridico' che, tutt'altro che innato o rispondente a un comune sentire, egli stimava caratterizzare il lavoro dell'esperto in ogni settore, soprattutto se alle prese con i concreti problemi della prassi (era quell'«arte del giurista nella sua più lata significazione» di cui, nel rievocare gli esordi dell'amministrativista Ranelletti negli incontri esegetici romanistici, parlava lo stesso Scialoja, Studi giuridici, 5° vol., 1936, p. 279).
«Concettualismo» (nei molteplici nessi epistemologici richiamati da Cianferotti 1988, pp. 725 e segg.) e vocazione casistica appaiono sempre ricomposti, nel nostro autore, in un equilibrio che aveva radici lontane, muovendo da quei giuristi romani che egli riteneva i suoi veri maestri: così come dalla tradizione venivano attinte categorie e modalità di analisi e soluzione. Ma rivendicare la perdurante validità di quei principi e di quelle tecniche, così come insistere sull'immagine di una forte continuità giuridica, non doveva necessariamente tradursi in scarsa sensibilità per le inedite esigenze del proprio tempo, con le soluzioni normative da esse richieste. Lo confermano la percezione dell'«arretratezza» del nostro codice (Scritti giuridici, 4° vol., 1933, p. 189) e l'impegno in varie commissioni legislative e nella stessa riforma dei codici, almeno fin quando il rischio di condizionamenti del regime indurrà Scialoja a quell'«invincibile scetticismo» che a lui e a Mariano D'Amelio sarà rimproverato da Dino Grandi (cfr. Salvi 1990, pp. 241 e segg.).
In una direzione non diversa sembrano da collocare altre iniziative del nostro giurista: dalla sua partecipazione all'«Annuario di diritto comparato», autentica «epifania della cultura giuridica comparatistica» (Alpa 2000, p. 260), all'attenzione per l'insegnamento (se non per la codificazione) del diritto agrario, la cui parte più rilevante era colta nelle disposizioni di carattere pubblicistico (Scritti giuridici, 4° vol., cit., pp. 238-40) sino all'ancor più significativa promozione di uno studio volto a fissare, per le relazioni economiche transnazionali – almeno fra Italia e Francia –, regole comuni in materia di obbligazioni (la cui opportunità venne perentoriamente difesa contro le critiche di Emilio Betti e il suo «misogallismo di vecchia maniera», pp. 200-02).
Anche (ma, come vedremo, non solo) per questo, è probabilmente troppo sbrigativo ridurre il contributo di Scialoja alla sola esaltazione del lascito giuridico antico, con la pretesa, «per di più, di utilizzare il diritto romano per risolvere i problemi di oggi» (così invece Cipriani 1991, p. 57). Certo l'attualizzazione dei materiali normativi provenienti da quella lontana esperienza ha un ruolo centrale nella prospettiva di Scialoja, e non casuale è la scelta di rivolgersi, fra le opere di Friedrich Karl von Savigny, per redigerne la traduzione (un genere importante nella cultura giuridica italiana del tempo, che contribuì alla sua sprovincializzazione e a favorire felici osmosi fra teoria e pratica), al System des heutigen römischen Rechts (8 voll., 1840-1849). Ma sulla portata e le implicazioni di quest'attualizzazione occorre fare chiarezza, perché le cose non sono così semplici, e la cifra scientifica di Scialoja non tollera facili etichette.
Fin dai suoi esordi (già nelle battute iniziali della tesi di laurea troviamo riferimenti alle teorie di Barthold Georg Niebuhr e Savigny, v. Studi giuridici, 1° vol., 1933, p. 1) egli aveva guardato con insistenza alla scienza giuridica tedesca, dei cui progressi si fece costante divulgatore – in particolare tramite molteplici recensioni, segnalazioni di volumi, saggi ed edizioni critiche di documenti –, secondo una propensione culturale che avrebbe trasmesso agli allievi, non solo romanisti (è il caso di Chiovenda, in contrasto, anche in tale prospettiva, con Lodovico Mortara; cfr. Cipriani 1991, pp. 69 e segg.). Emergeva così una sintonia di fondo con quello Juristenrecht che in Germania dominò la scena sino all'entrata in vigore, nel 1900, del Bürgerliches Gesetzbuch (codice civile), e che in larga parte era costruito sulla rielaborazione, in chiave sempre più astratta e sistematica, dei materiali provenienti dai giuristi romani – conservati nel Digesto o Pandette, da cui il nome di pandettistica per quell'importante filone di ricerche tedesco –, sottoposti a un'evidente pressione attualizzante. Ma la condivisione di quell'istanza sistematica e il «germanesimo» di Scialoja erano soprattutto tesi a imprimere una svolta nello studio del diritto vigente, in direzione di quel rinnovamento della cultura giuridica italiana particolarmente tangibile nei «tempi fertili» degli anni Ottanta e Novanta dell'Ottocento (Grossi 2000, pp. 13 e segg.), allorché andò declinando il metodo esegetico, a beneficio dello strumentario concettuale e metodologico di derivazione pandettistica.
Certo il fenomeno dovette essere più complesso di quanto lascerebbe supporre la lettura tradizionale che risolve quasi tutto nel succedersi dell'influenza di due modelli stranieri, con quello francese sostituito dal tedesco. E neppure possiamo sottovalutare la circostanza che il diritto «romano attuale» fosse in Germania, diversamente che in Italia, ancora sostanzialmente vigente (e non solo influente, come altrove, attraverso l'infiltrazione delle sue categorie nelle legislazioni nazionali), sebbene questo dato non dovesse poi apparire decisivo agli occhi di Scialoja, dal momento che a suo avviso «la differenza tra lo stato anteriore e posteriore alla codificazione è più di forma che di sostanza» (Scritti giuridici, 4° vol., cit., p. 196). Ma soprattutto in quest'«adattamento nazionale del paradigma pandettistico» (Schiavone 1990, p. 284) non andò affatto dissolta, almeno in Scialoja, quella duplicità di «anime distinte [quella storica e quella sistematica], ma collegate funzionalmente fra di loro» (Talamanca 1995, p. 162) che caratterizzarono la cultura giuridica tedesca a partire almeno dall'ultima stagione della scuola storica (quella appunto del System savignyano tradotto da Scialoja, laddove altri si orientarono, per renderli in italiano, sui posteriori trattati di Pandette, sempre più votati all'erezione di architetture logiche fuori dal tempo).
Se così rimane probabilmente corretto individuare, nel lavoro di Scialoja come di Carlo Fadda (1853-1931), una «rifondazione romanistica della scienza giuridica italiana» (Grossi 2000, p. 42) e, nel primo, l'assegnazione al diritto romano del «ruolo di coscienza critica dei fondamenti concettuali e metodologici di ciascuna disciplina giuridica» (Nardozza 2007, p. 55), almeno due aspetti intervengono a rendere più ricco e complesso lo stile di lavoro di Scialoja, sino a farci apparire la sua dottrina, anche nei tratti quasi antinomici che vi affiorano, come «l'autentica protagonista di quella svolta nel rapporto tra codice e scienza [...] che a partire dai secondi anni Ottanta attraversò la cultura giuridica italiana» (Schiavone 1990, pp. 283 e seg.).
Mi riferisco, in primo luogo, alla presa di coscienza – assai meno scontata di quanto potremmo immaginare – circa l'autentica natura del diritto romano: un «diritto morto», come enunciato apertamente in una lettera del 1881 a Filippo Serafini (1831-1897), un'esperienza ormai distante nella sua effettività storica e nella sua 'purezza', ma il cui studio, proprio per questo, appariva persino più fecondo sul piano scientifico, dal momento che di essa (più che di un 'diritto vivente') era consentito l'esame 'anatomico' e anche la ricostruzione degli sviluppi diacronici. Ricognizione circa le strutture e indagine genealogica – o se preferiamo, ancora una volta, sistema e storia – rappresentavano i due punti di vista, diversi ma integrati, da cui affrontare il diritto antico e soprattutto metterne a frutto le potenzialità cognitive rispetto agli assetti attuali. L'irruzione dei codici non aveva insomma cancellato la necessità di studiare il diritto romano «per comprendere storicamente i metodi elaborati dal pensiero occidentale, in un settore specialistico e in un determinato arco temporale» (Lovato 1999, p. 44), e Scialoja poteva far propria la concezione savignyana di «una fondazione storica della scienza giuridica» (Nardozza 2007, p. 52), tanto che la lettera del 1881 è stata anche intesa (da Orestano 1987, p. 507) come manifesto di una «“Nuova scuola storica italiana”, in contrapposizione alla Scuola storica tedesca».
Diverso, ma almeno in parte connesso, è il secondo elemento cui accennavo. Se lo studio dei materiali romani non era oggetto di un approccio storiografico fine a se stesso, ma si presentava come teso a una complessiva riedificazione della scienza giuridica, questo non escludeva che l'attenzione scientifica si indirizzasse – per far riemergere le antiche linee di sviluppo – anche a profili non immediatamente coinvolti dalla 'attualizzazione' (declinata in Scialoja con riguardo a principi e metodi, ancor più che ai segmenti normativi, per i quali il mutare dei tempi non era senza effetto, così che gli insegnamenti romanistici non dovevano mai risolversi in una sorta di commentario al diritto vigente). Da qui la particolare attenzione ai problemi filologici: dalla ricostruzione di una pluralità di testimonianze epigrafiche e papiracee sino alla nuova edizione critica (1931) del Digesto messa a punto con i più valenti romanisti italiani del tempo, passando per una meditazione, puntuale ma cauta, circa le metodologie interpolazionistiche sorte in Germania (in particolare a opera di Otto Gradenwitz; v. Scritti giuridici, 1° vol., cit., pp. 379-82). Ma da qui anche la rilevante funzione assegnata al lavoro esegetico, in particolare sulle fonti romane: per privilegiare la ricomposizione delle concrete forme del ragionamento giurisprudenziale antico, considerato ancora utilissimo nell'educazione di nuovi giuristi (anche se un simile esercizio rimaneva pur sempre finalizzato al rinvenimento del principio di diritto; cfr. Cianferotti 1988, pp. 734 e segg.), ma anche per scongiurare generalizzazioni e forzature che potevano conseguire all'impostazione sistematica (Lovato 1999, pp. 111 e seg.).
Del resto la compresenza di più anime e l'equilibrio tentato fra istanze metodologiche difformi – con lucida consapevolezza dei limiti di ciascuna, ove assunta in termini troppo univoci – in Scialoja non appaiono esclusivi del solo impegno nel settore romanistico. Penso in particolare – oltre alle ripercussioni che, in riferimento alla normativa vigente, doveva esercitare quella combinazione fra lavoro sistematico ed esegetico – all'atteggiamento assunto rispetto al diritto positivo. Atteggiamento che non restituirei (come invece Grossi 2000, in partic. pp. 43 e seg., 104 e seg., 140, 145) solo nei termini di un rigoroso e unilaterale «legalismo». Certo tale componente è innegabile: evidente e costitutiva sin dalla prolusione camerte (Del diritto positivo e dell'equità, ora in Scritti giuridici, 3° vol., 1933, pp. 1-23), essa partecipa di un chiaro disegno politico, con la preoccupazione di salvaguardare la precaria coesione del neonato Stato unitario, e quindi anche della codificazione civile da esso prodotta, a fronte di ogni forza disgregante, ivi compresa l'equità, ove assunta quale «un sentimento o un concetto [...] individuale» (p. 14).
Era appunto contro questa configurazione parcellizzata dell'equità che si levava la voce del giovane Scialoja (e poi, con sostanziale coerenza, i suoi posteriori richiami): non contro l'«equità comune», espressiva di «un'aspirazione di un popolo ad un certo diritto» e di una «volontà [...] che giunge ad un certo grado d'intensità riconoscibile dalla forma esterna» (Scritti giuridici, 3° vol., cit., p. 14). La lotta era a favore di una (presunta) purezza del giuridico, con le sue irrinunciabili «forme», incontaminato da suggestioni etiche e propensioni personali. Si voleva unica e mai disattesa la legge dello Stato, e tuttavia la si sapeva altra dal diritto di un popolo, nutrito dai principi della sua tradizione, forte degli apporti di una scienza non inchiodata al nudo impegno esegetico, e manifestato anche in fonti diverse (a cominciare dagli usi, per i quali Scialoja mostrò più volte interesse, v. Scritti giuridici, 3° vol., cit., pp. 24-26, 27-30). Certo questa volontà del popolo – in aderenza all'ideologia in cui era inscritto il lavoro di Scialoja giurista e politico – difficilmente poteva esprimersi al di fuori dell'interpretazione che ne forniva una ristretta élite di governo e rilevava, agli occhi del nostro autore, soprattutto in quanto ne era riversato nelle previsioni del legislatore ancor più che nelle scelte del giudice (giacché, ribaltando l'antico adagio, aequitas legislatori, jus judici magis convenit; Scritti giuridici, 3° vol., cit., p. 15).
Il quadro istituzionale sarebbe sensibilmente mutato negli anni: soprattutto quelli a ridosso della Prima guerra mondiale, e ancor più con quella svolta autoritaria la cui ingerenza, nella riforma dei codici, Scialoja cercò di attenuare anche a costo di rinunciare a gran parte della spinta innovativa da lui stesso auspicata per decenni. Fra il diritto del popolo e il contributo dell'oligarchia liberale si levava ora l'ombra dello Stato fascista. Le contingenze ridavano voce all'altra anima di Scialoja, quella che escludeva l'esaurirsi del giuridico nella lettera delle previsioni dettate dal potere pubblico. La sua lunga parabola di giurista, uomo di studi e di azione, si chiudeva nel segno di un'opzione che Dino Grandi avrebbe descritto come grave colpa (l'ossequio al «principio storicamente assurdo, per non dire antifascista, che la politica non deve avere niente a che fare con il diritto») e che ai nostri occhi appare invece come il male minore a cui probabilmente si potesse dar luogo in quel difficile momento.
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