Vivere e morire con i miti
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le pareti e i pavimenti delle case romane sono coperti da immagini di dèi ed eroi greci, e così anche gli arredi e gli oggetti della vita quotidiana. Ciò testimonia la venerazione dei Romani per una cultura che sentivano superiore e la volontà di autorappresentazione dei ceti acculturati. L’immagine mitica dà prestigio intellettuale e certifica l’appartenenza del proprietario ad una élite socio-culturale. I miti decorano anche le tombe e i sarcofagi dei Romani: in quelle vicende esemplari essi trovano risposte alle domande esistenziali e conforto per la perdita dei propri cari, le cui virtù e sentimenti vengono esaltati attraverso i riferimenti alle grandi figure della mitologia.
I Romani – come ha scritto l’archeologo Paul Zanker – vivono con i miti. Nel senso che le immagini degli dèi e degli eroi greci sono onnipresenti nella loro vita quotidiana: si trovano nelle case, nelle ville, negli edifici pubblici, negli arredi domestici, sugli oggetti di uso comune. Perché? I Romani non hanno una mitologia paragonabile per ricchezza a quella dei Greci, ma si impossessano avidamente di quella, al pari di tanti altri aspetti della cultura di quel popolo che hanno sottomesso. Circondarsi nella propria quotidianità di miti greci, esibire le immagini che li narrano serve a farsi riconoscere come persone istruite, imbevuti di quella cultura greca verso la quale, nonostante le conquiste militari, i Romani hanno una sorta di complesso di inferiorità che si traduce in ammirazione e perfino in venerazione. Si può parlare di un vero e proprio culto romano della cultura greca, una sorta di religione laica, i cui adepti tengono a far vedere di essere lettori di Omero e dei tragici, di conoscere bene quelle storie tante volte narrate dai poeti greci. Ci tengono, insomma, ad apparire come membri di una élite socio-culturale. Nella misura in cui rimanda a un referente alto, l’immagine mitica dà prestigio; è un mezzo per trasfigurare la banalità del quotidiano, per mettere la vita reale in rapporto col mondo ideale degli dèi e degli eroi. Il mito è anche un ponte della fantasia che introduce a un lusso immaginario. Sulle pareti o sui pavimenti musivi della propria casa un proprietario abbastanza agiato può far eseguire copie di famosi quadri dei maestri dell’età classica, arrivando a creare – come accade in certe case di Pompei – un vero e proprio museo privato. Ciò consente di praticare un gioco di allusioni erudite, funzionale ad una compiaciuta autorappresentazione. Ma i Romani non riempiono di immagini mitiche solo le case e gli edifici pubblici. Dato che i miti danno forma all’immaginario del lutto e della memoria, fanno la stessa cosa anche le loro tombe: sicché si potrebbe dire che vivono con i miti ma muoiono anche con i miti.
I miti sono una sorta di bussola dell’uomo antico, e come nel mito si cercano le spiegazioni del perché il mondo va in un certo modo, così attraverso di esso si cerca di farsi una ragione della morte, della sofferenza, di un destino che tante volte ci appare ingiustamente crudele o, peggio ancora, insensato. La sorte tragica di tanti eroi ed eroine greci offre il paradigma di un fato inesorabile a cui nessuno può sottrarsi, meno che mai i semplici mortali. Oltre ad avere questa funzione normativa, i miti forniscono modelli adeguati per esaltare le virtù del defunto e perpetuarne la memoria. Scegliendo una certa iconografia mitica per la decorazione di un sarcofago si proietta di fatto una vita comune e banale in una dimensione eroica, se ne fa una vicenda esemplare, degna di essere ricordata da congiunti e amici, che da questo traggono consolazione e vanto. I sarcofagi in marmo a contenuto mitologico sono straordinariamente popolari nel mondo romano tra il II e il III secolo. Solo a Roma ne sono stati trovati più di 6000. Quali elementi guidano la scelta del soggetto, e che ruolo ha il mito nella costruzione della memoria familiare e dei valori socialmente condivisi? Cosa leggono in quelle immagini l’acquirente e poi coloro – parenti ed amici – che periodicamente si recano a far visita al defunto?
È il genere di domande a cui cercano di dare risposta i cosiddetti Visual Studies, la corrente di studi che si è affermata a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, soprattutto in ambiente angloamericano. Gli esponenti di questa corrente cercano di superare l’analisi formale della storia dell’arte tradizionale concentrandosi piuttosto sulle modalità della visione e quindi sulle pratiche di lettura dell’opera d’arte all’interno di determinati contesti storici e culturali. Essi propongono perciò una lettura emica dell’opera d’arte. In questo essi si rifanno alla terminologia del linguista americano Kenneth L. Pike, che negli anni Cinquanta del Novecento coniò i termini emic ed etic a partire dalle desinenze delle parole inglesi phonemics e phonetics. Pike usava emic in relazione agli aspetti strutturali e funzionali del linguaggio ed etic in relazione all’analisi descrittiva e classificatoria che ne fanno i linguisti. Nelle scienze sociali è invalso l’uso di impiegare il termine emic per definire il punto di vista degli attori sociali, quello interno alla cultura condivisa dal gruppo a cui questi appartengono. Anche per leggere un’opera greca o romana è consigliabile, se non addirittura necessario, mettersi nei panni dell’osservatore antico. Benché i Romani non ci appaiano di primo acchito così diversi da noi come potrebbero esserlo degli indigeni della Polinesia, non c’è dubbio che avessero delle pratiche visive e di lettura diverse dalle nostre, e noi dobbiamo cercare di entrare nella loro testa, come fa l’antropologo quando studia una società a livello etnologico.
Per celebrare un defunto romano, se si tratta di un uomo molto spesso si sceglie per il suo sarcofago il mito di Meleagro, l’eroico cacciatore, uccisore del terribile cinghiale che devasta la città di Calidone. Come legge l’osservatore un’immagine del genere? Si sente realmente invitato a identificare il morto con Meleagro, cercando nella biografia del primo analogie con le imprese dell’eroe mitico? In qualche caso il defunto potrà anche essere stato in vita un prode combattente, ma quando vediamo che il mito di Meleagro viene scelto anche per il sarcofago di un semplice fabbro di Ostia, evidentemente questo diventa improbabile. È chiaro che il paragone va letto in funzione puramente consolatoria: serve a suggerire in forme magniloquenti che il morto è stato una persona di valore, ma che comunque nessuno sfugge al proprio destino, neanche i grandi eroi del mito. Le virtù che si esaltano attraverso l’accostamento mitico non corrispondono sempre, peraltro, a reali meriti personali, quanto piuttosto a valori condivisi da tutta la società.
Ci sono sarcofagi a decorazione mitologica nei quali uno o più personaggi hanno un volto fisionomicamente caratterizzato. Si tratta in genere di raffigurazioni di coppie mitiche: Endimione e Selene, Teseo e Arianna, Venere e Adone ecc., dove agli eroi del mito sono dati i sembianti dei coniugi defunti. È improbabile che in tutti questi casi entrambi gli sposi fossero già morti all’epoca della realizzazione di un sarcofago. Il più delle volte uno dei due sarà sopravvissuto all’altro almeno per un certo periodo, e dunque più di una volta si sarà trovato da vivo di fronte alla propria immagine eroizzata, che avrà guardato stando insieme ad amici e parenti. Insomma l’osservatore si sdoppia, si fa osservatore di se stesso, dialoga col congiunto defunto e nello stesso tempo legge e dà a leggere se stesso come protagonista di una vicenda esemplare. Cosa ci dicono monumenti del genere sul rapporto tra committente e fruitore? Come funziona il gioco semiotico predisposto dal destinatore, cioè da colui che formula il messaggio indirizzato all’osservatore? Quali strategie di autorappresentazione troviamo attuate? Si può dare per scontato che l’osservatore antico sia normalmente in grado di riconoscere visivamente i personaggi mitici (sono sempre gli stessi notissimi miti a essere raffigurati) e di mettere quelle iconografie in relazione con i defunti a cui intendono alludere. C’è però motivo di credere che egli non riferisca necessariamente ad essi l’intero mito. Anzi, è probabile che faccia una lettura selettiva, riferendo ai soggetti reali solo determinate situazioni del contesto mitico, o anche che adatti il mito stesso alle vicende dei defunti.
In un sarcofago oggi ai Musei Vaticani le due figure centrali, che hanno – a differenza di tutte le altre – delle teste-ritratto, sono chiaramente ispirate a un famoso gruppo scultoreo di età ellenistica che rappresentava Achille e Pentesilea, la regina delle Amazzoni. Cosa dice il mito? Dice che l’eroe affronta in duello la nemica con tutta la furia che ben gli conosciamo, ed essendo un grande guerriero, la colpisce a morte. Ma nell’istante stesso in cui la uccide se ne innamora perdutamente. Cosa vuol dire il sarcofago? Che il marito – perché con tutta evidenza di una coppia di sposi si tratta – è l’assassino della moglie? Certamente no. L’osservatore antico è abituato a contestualizzare l’immagine e, nel caso di un monumento funerario come questo, interpreta la figura di Achille con quella di un compagno forte che sta accanto alla moglie nell’ora della morte e che fino all’ultimo le manifesta il suo amore appassionato, anche se questo non basta a impedirne la fine.
Per decorare il sarcofago – custodito al Museo Nazionale Romano – di un figlio e di sua madre è stato scelto il mito di Fedra e Ippolito. La scelta ci appare quanto meno imbarazzante, dato che l’amore di Fedra per Ippolito non è un casto sentimento materno bensì la passione colpevole della matrigna per il figlio del suo sposo Teseo. Questo amore fa orrore al giovane, e il suo rifiuto spinge Fedra ad accusarlo di stupro. La falsa accusa provoca in ultimo la morte di Ippolito e Fedra sconvolta si uccide a sua volta: una storia che non potrebbe essere più truculenta. Dobbiamo accusare di incultura e mancanza di buongusto gli artisti e i loro clienti? In realtà, come nel caso di Achille e Pentesilea, l’osservatore non legge il personaggio di Fedra nell’intero contesto della storia mitica. L’aspetto riprovevole della sua passione, la calunnia contro il figliastro e il suicidio restano al di fuori. Ciò che è caratterizzante nel personaggio Fedra è il grande amore e il grande dolore per la perdita di esso. Quanto a Ippolito, nel sarcofago egli è rivolto verso l’osservatore e tiene in mano un dittico. L’allusione è alla famosa lettera con cui nel mito Fedra gli dichiara la sua passione. Ma qui più probabilmente si vuole sottolineare il fatto che il ragazzo defunto aveva familiarità con la lettura. Data la giovane età, insomma, l’unica virtus che si poteva esaltare in lui era che prometteva bene, che era bravo a scuola. Insomma una lettura emica del testo iconico sorvola sulla vicenda raccapricciante del mito, fatta di colpe vergognose e contrappassi inesorabili, e si sofferma sull’umanissima disperazione di una famiglia, e in particolare di una madre, per la perdita prematura di un figlio in cui erano riposte tante speranze.
Un accurato processo di selezione individua per ogni mito particolari episodi, considerati appropriati per veicolare determinati messaggi: nei sarcofagi decorati con il mito della strage dei Niobidi l’accento cade sulla fine immatura delle giovani vittime innocenti più che sul dramma della madre pietrificata; in quelli con il mito di Medea la vera protagonista non è la fosca eroina assetata di vendetta ma la rivale Creusa, simbolo del passaggio repentino dalla felicità ad una morte straziante. La rifunzionalizzazione di certe immagini religiose in ambito privato è agevolata dal fatto che lo spettro di significato delle singole formule è abbastanza ampio da consentire variazioni notevoli in base al contesto in cui vengono impiegate. Di qui la necessità di tener conto del ruolo attivo che spetta allo spettatore nel processo di ricezione. L’osservatore antico legge le immagini in funzione delle proprie esigenze, adattandole a specifiche situazioni personali.
Non va neanche dimenticato che le tombe e i sarcofagi in essa contenuti sono oggetto di visite periodiche, seguite da simposi e banchetti. A partire dal II secolo gli edifici funerari si presentano in genere chiusi da un recinto, accessibile solo alla famiglia e agli amici intimi. Questa tipologia architettonica ha precise motivazioni sociologiche: prima di ogni altra il venir meno in età imperiale di una reale competizione politica, cosa che rende inutile l’esaltazione pubblica dei propri meriti nei confronti della comunità. Al centro dell’interesse sono ora i legami familiari e i relativi valori affettivi, e conseguentemente i monumenti figurati si relazionano sostanzialmente alla sfera privata. Essi hanno lo scopo di tener desta la memoria del loro caro nei congiunti che, in determinate ricorrenze, accedono alla tomba per consumarvi dei pranzi. Quei banchetti, aspramente censurati negli scritti dei primi cristiani, sono occasioni di festa, e ciò spiega il carattere gioioso di alcuni temi raffigurati con particolare frequenza nei sarcofagi, come i cortei dionisiaci e quelli marini.