Vivre sa vie
(Francia 1962, Questa è la mia vita, bianco e nero, 85m); regia: Jean-Luc Godard; produzione: Pierre Braunberger per Les Films de la Pléiade; soggetto: dall'inchiesta Où en est avec la prostitution? di Marcel Sacotte; sceneggiatura: Jean-Luc Godard; fotografia: Raoul Coutard; montaggio: Agnès Guillemot, Lila Lakshmanan; costumi: Christiane Fageol; musica: Michel Legrand.
Posta in esergo una frase di Montaigne: "Bisogna prestarsi agli altri e darsi a sé stessi". Nana, commessa in un negozio di dischi, ha molte difficoltà a sbarcare il lunario, tanto che è costretta a chiedere a tutti dei prestiti (che nessuno le concede) e a lasciare la sua camera per non avere pagato l'affitto. Le piacerebbe fare del teatro, o del cinema (ha girato un film con Eddie Constantine), e fa delle foto per raccogliere un dossier da presentare alle produzioni cinematografiche. Occasionali prestazioni in squallidi alberghi le permettono di raccogliere qualche soldo per tirare avanti, ma è decisivo l'incontro con Yvette, un'amica divenuta prostituta, che la convince a seguire i suoi passi. Mentre scrive una lettera a una compiacente signora raccomandatale da Yvette, ritrova Raoul, già conosciuto assieme a Yvette, un magnaccia che l'accoglie nella sua scuderia dopo averle impartito una vera e propria lezione sul mondo della prostituzione. Un giorno Nana conosce un giovane cliente di cui si innamora. Invitata dal ragazzo a trasferirsi da lui per iniziare una nuova vita, Nana decide di chiudere con Raoul e con la miserabile esistenza che conduce. Raoul, intanto, ha deciso di vendere la ragazza a un'altra banda. Al momento dello scambio, i soldi contro Nana, nasce tra i due gruppi uno scontro nel corso del quale Nana resta uccisa.
Quarto film e mezzo di Jean-Luc Godard (dopo À bout de souffle, Le petit soldat, 1960, Une femme est une femme ‒ La donna è donna, 1961, e l'episodio La paresse per il film collettivo Les sept pechés capitaux ‒ I sette peccati capitali, 1961), Vivre sa vie è il fim del congedo. Congedo dalla Nouvelle vague, congedo dal cinema tradizionale, congedo dall'entusiasmo. "Per me il tempo dell'azione è passato. Sono invecchiato. Comincia il tempo della riflessione". Le parole di Bruno, il protagonista di Le petit soldat, potrebbero costituire il movimento iniziale di Vivre sa vie, il primo film di Godard in cui la riflessione, il pensiero, che è a un tempo l'oggetto e il mezzo del pensare, costituiscono il senso profondo. Sono in gioco qui il mondo e il linguaggio che dice il mondo, o meglio i linguaggi che dicono il mondo: il cinema e la parola.
Il film inizia con tre primi piani di Nana (profilo sinistro, piano frontale, profilo destro) su cui scorrono i titoli di testa, per poi passare al primo di dodici 'quadri', costituito da un lungo piano-sequenza di Nana e Paul che discutono al bancone di un bar. I due sono di schiena, non li vediamo in volto, anche se di lei possiamo scorgere un incerto riflesso nello specchio dietro al banco. I rumori dell'ambiente si sovrappongono alle loro parole, rendendole di difficile comprensione. La dialettica della rappresentabilità si esprime nel rifiuto della tecnica narrativa del campo-controcampo a favore di una soluzione che ignora il montaggio dei volti e passa da una schiena all'altra, entrambe quasi prive di identità. I 'quadri' del film si presentano come dodici momenti della vita di Nana, indeterminati e spesso vuoti (vuoti di narrazione), definiti solo da interventi fuoricampo. Qualcun altro (il narratore? il regista? il mondo? Dio?) si incarica di definire Nana, non riuscendo a farlo: la sua vita è frantumata in primi piani senza contesto, in riflessi in uno specchio, in altre persone. Insomma, Nana è priva di identità, la sua identità è sempre altrove.
Il discorso di Godard coinvolge lo statuto stesso della rappresentazione cinematografica. Quando sceglie di riprendere i suoi personaggi di spalle, di adattarli in un piano-sequenza anziché farli agire nel montaggio, di farli guardare in macchina, Godard tenta un'operazione radicale: vuole liberare la narrazione e la rappresentazione dai rigori normativi della tradizione. "Ci sono regole nel cinema?", chiederà uno dei personaggi di Passion (1982) all'operatore. La risposta è no, non ci sono regole nel cinema. È stato proprio Godard a liberare il cinema dagli stereotipi della tradizione narrativa, dalle ferree gabbie della messa in scena, affidando al piano-sequenza il compito di rendere la realtà non della natura ma dell'anima. Anche recuperando procedimenti desueti, come per esempio le didascalie, a cui Godard ricorre in particolare nell'ultimo 'quadro' ottenendo effetti di grande suggestione linguistica.
Perché Nana non riesce a trovare una propria identità, un proprio spazio nel mondo? Perché la visione del mondo di Nana non corrisponde alla reale struttura del mondo, costruita sulla logica dell'equivalenza universale sotto il segno della merce. Tutti hanno un valore capitalizzabile, quindi tutti sono oggetti. Nana lo capisce quando scopre che deve vendere il proprio corpo come se fosse una cosa, un oggetto di quelli che il suo prostituirsi le permetterà di comprare. Come un oggetto, lei 'è di qualcuno'. È del negozio di dischi, è della proprietaria della sua stanza, ed è di Raoul: è "merce che si può scambiare o acquistare o vendere". Quando vorrà appartenere al giovane, ovvero tramutare il rapporto economico in un rapporto libero dal valore di scambio, allora morirà, poiché voler spezzare i rapporti di mercificazione significa mettersi fuori dal mondo. In questo senso acquistano un significato particolare sia il titolo Vivre sa vie, che assume un senso antifrastico (non si ha una vita da vivere perché appartiene ad altri), sia le parole di Montaigne, rette da due verbi tipicamente 'economici', prestare e dare, che riassumono l'impossibilità di sfuggire alla dimensione mercificata del mondo. Così Nana diventa l'equivalente di Giovanna d'Arco e di Porthos. In una celebre sequenza Nana va al cinema a vedere La Passion de Jeanne d'Arc; nel momento in cui Antonin Artaud, il monaco compassionevole, annuncia a Jeanne che è giunta l'ora della sua morte, Nana piange. Ugualmente, nel colloquio al caffè, il filosofo Brice Parain dirà della morte di Porthos, in Vingt ans après di Dumas padre: Porthos muore nel momento in cui si mette a pensare, una cosa che non ha mai fatto in vita sua. Come Giovanna e come Porthos, anche Nana cerca di spezzare il filo che la unisce al mondo, e come loro finisce per soccombere.
Ma Vivre sa vie non è solo un'indagine sulla natura dei rapporti sociali o sul cinema. È anche una straordinaria riflessione sulla creazione artistica, sul rapporto tra l'artista e il mondo, sull'amore. La lettura di The Oval Portrait di Poe, fatta dal giovanotto con la voce dello stesso Godard, è forse la più grande e commovente dichiarazione d'amore di un regista alla propria attrice.
Interpreti e personaggi: Anna Karina (Nana Kleinfrankenheim), Sady Rebbot (Raoul), André S. Labarthe (Paul), Guylaine Schlumberger (Yvette), Gérard Hoffmann (capo), Monique Messine (Elisabeth), Paul Pavel (giornalista), Dimitri Dineff (Dimitri), Peter Kassowitz (giovanotto), Eric Schumberger (Luigi), Brice Parain (filosofo), Henri Atal (Arthur), Gilles Quéant (cliente), Odile Geoffroy (ragazza del bar), Jean Ferrat (uomo al juke-box), Laszlo Kovacs (bandito ferito).
J. Douchet, Venise 1962, in "Cahiers du cinéma", n. 136, octobre 1962.
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Sceneggiatura: in "L'avant-scène du cinéma", n. 19, 15 octobre 1962 (trad. it. in Cinque film, Torino 1972).