Vladimir III di Russia
Putin, il nuovo zar russo, si appresta a governare per altri dodici anni. Tra brogli elettorali, corruzione e feroce repressione delle proteste dei manifestanti. Lo scontento è diffuso trasversalmente fra le varie classi sociali. E l’opposizione si sta organizzando.
Il 4 marzo 2012 Vladimir Putin ha vinto per la terza volta le elezioni, tornando Cremlino come presidente dopo quattro anni in cui ha svolto le mansioni di primo ministro, pur rimanendo di fatto l’uomo che determinava la politica russa. La coabitazione con Dmitrij Medvedev, presidente dal 2008, è terminata il 7 maggio, e l’avvicendamento è stato segnato da una protesta senza precedenti nella storia della Russia postcomunista, con migliaia di persone che hanno manifestato nel centro di Mosca contro il ritorno di Putin, e la polizia che ha proceduto a una repressione della protesta con centinaia di fermi e arresti. Dopo 12 anni di dominio quasi incontrastato sulla vita politica, economica e culturale della Russia, il potere del presidente Putin al suo terzo mandato viene sfidato da uno scontento diffuso, che per la prima volta assume forme pubbliche e organizzate.
A Mosca, ma anche in altre grandi città, seppure in misura minore, ad animare la protesta sono la nuova borghesia e i giovani, e la rivendicazione di maggiori libertà politiche e civili passa attraverso la piazza, i pochi media indipendenti e i social network.
Nel resto del paese lo scontento si è manifestato di più nel voto compatto contro il partito putiniano Russia unita e ha una connotazione più sociale, con in cima alle preoccupazioni degli elettori l’aumento del costo della vita, la burocrazia e la corruzione diffusa a tutti i livelli del governo, dagli alti funzionari ai direttori dei condomini statali e degli asili per bambini.
I secondi 12 anni di Putin – grazie a una modifica alla Costituzione il presidente ora svolge un mandato di sei anni, rinnovabile per un’altra volta – sono iniziati in un contesto molto diverso dal 2000, quando aveva esordito al Cremlino.
Il tenore di vita dei russi in media è triplicato, l’economia prosegue a crescere e l’inflazione, incubo degli anni Novanta, è scesa a livelli record, inoltre la quota dei russi con un reddito sotto il livello di povertà si è più che dimezzata. Questo ‘miracolo’ economico è però dovuto in gran parte all’esplosione del prezzo degli idrocarburi, e il 70-80% delle esportazioni russe continua a dipendere dalla domanda estera di petrolio, gas e, in misura minore, oro, metalli e legno. L’industria russa non si è modernizzata tecnologicamente per diventare competitiva, e buona parte del fabbisogno quotidiano dei russi continua a dipendere fortemente dalle importazioni. Questa struttura dell’economia ha permesso a Putin di costruire dal 2000 in poi il sistema ‘verticale di potere’ che ha centralizzato nelle mani del governo le principali risorse economiche – grazie anche alla rinazionalizzazione o al rigido controllo delle major energetiche – e la redistribuzione dei proventi petroliferi agli apparati statali e della sicurezza, e a vaste fasce di popolazione, inclusi i numerosi dipendenti dello Stato.
Un sistema che per diventare competitivo, e resistere a eventuali cambiamenti di congiuntura internazionale, ha bisogno di una modernizzazione, lanciata infatti come slogan della sua presidenza da Medvedev, e invocata sia da parte delle élite economiche e politiche sia dai nascenti ceti medi urbani, che chiedono maggiore libertà imprenditoriale, un sistema giudiziario più trasparente e meno corrotto e condizionato dalle autorità, un minore ruolo dello Stato nell’economia, sia in forma esplicita sia nella forma occulta della corruzione e del conflitto di interessi, e in corrispondenza maggiori libertà politiche e civili. Nella sua campagna elettorale Putin ha promesso riforme, ma i primi passi della sua terza presidenza – il ritorno alla repressione violenta dell’opposizione e, in campo internazionale, l’irremovibile posizione in difesa della Siria di Bashar al Assad – appaiono conferme della linea precedente, nonostante la parziale riforma politica promossa nei suoi ultimi giorni da Medvedev, con il ripristino delle elezioni dirette dei governatori e la liberalizzazione dei partiti.
Uno sbocco allo scontento che in ogni caso potrà verificarsi soltanto tra qualche tempo, visto che le prossime elezioni politiche a livello federale si svolgeranno soltanto tra quattro anni.
Nel frattempo si assiste a una serie di fenomeni che dimostrano come lo scontento non sia più solo verbale, e mentre a Mosca l’attività di piazza continua intensamente, sono in corso mobilitazioni a livello anche locale – proteste di carattere ambientalista, politico, per i diritti umani, in difesa degli imprenditori vessati dalle autorità e dalla polizia ecc. – che dimostrano come l’apatia degli anni precedenti stia venendo meno e come il vasto consenso a Putin e al suo modello paternalista e nazionalista si stia erodendo, una volta che lo shock economico e ideologico della fine del comunismo diventa più lontano nel tempo e subentrano nuove generazioni postsovietiche.
Le Ong anticorruzione di Alexei Navalny, il blogger considerato leader della protesta, le mobilitazioni dei verdi della foresta di Khimki di Evgenia Chirikova, le pratiche di monitoraggio dei brogli elettorali dell’associazione Golos vengono esportati nelle regioni russe come know-how di lotta politica.
Segnali importanti arrivano anche dalle élite, con alcune defezioni illustri dei sostenitori del governo, come quella dell’ex ministro del Tesoro Alexei Kudrin, che in questi mesi sta tentando una mediazione tra opposizione e Cremlino per una transizione, oppure di Olga Kryshtanovskaya, sociologa di fama che ha abbandonato Russia unita per ‘studiare la rivoluzione in corso’.
Una fuga di capitali senza precedenti segnala una mancanza di fiducia nelle garanzie offerte dal governo, mentre diversi esponenti delle grandi imprese finanziano più o meno apertamente l’opposizione.
Gli analisti prospettano una nuova ondata di crisi economica che aumenterà lo scontento, anche alla luce delle cospicue promesse elettorali fatte dal presidente ai suoi sostenitori tradizionali: i dipendenti statali, gli insegnanti, i medici, i militari, i pensionati. Nel contempo, la parte più attiva della popolazione – in primo luogo la neoborghesia nata principalmente nei servizi, nel commercio, nelle libere professioni e nelle grandi società – e la neointellighenzia di Internet e delle università, insieme ai giovani, stanno alimentando il processo faticoso della nascita di un’opposizione che, nonostante una grande eterogeneità ideologica, manifesta una organizzazione sempre più strutturata, accogliendo anche lo scontento sociale della provincia russa.
Un ‘petro-Stato’?
Il peso dei proventi delle esportazioni petrolifere nell’economia russa è tale che molti analisti la considerano un ‘petro-Stato’ come il Venezuela e l’Iran: regimi autoritari in grado di finanziare i loro apparati statali, e di conquistarsi consenso tra i propri cittadini, grazie appunto al petrolio. Questo fa sì che una variabile indipendente dal controllo del Cremlino, ma decisiva per gli sviluppi politici interni alla Russia, sia il prezzo dell’energia. Un ribasso di quest’ultimo potrebbe infatti compromettere seriamente la sostenibilità finanziaria delle politiche di Putin, non diversamente da come il crollo dei prezzi petroliferi negli anni Ottanta e Novanta accelerò irrimediabilmente il declino economico dell’Unione Sovietica e rese di fatto impraticabili le riforme propugnate da Mikhail Gorbacëv.
Pussy Riot, musica antiregime
È ormai diventato un caso politico-giudiziario quello del collettivo punk-rock tutto femminile che ama esibirsi con passamontagna colorati, e non solo per difendersi dal freddo pungente dell’inverno russo. Formato da una decina di ragazze, è assurto agli onori delle cronache dopo l’arresto di tre appartenenti al gruppo, le studentesse Nadezhda Tolokonnikova (22 anni), Yekaterina Samutsevich (29 anni) e Maria Alyokhina (24 anni), finite in carcere nel marzo 2012 dopo aver eseguito, a febbraio (mentre l’opposizione contestava la regolarità delle elezioni presidenziali), un’ironica preghiera contro Vladimir Putin nella cattedrale di Cristo Salvatore, a Mosca. La loro incursione (peraltro bloccata quasi subito dalla polizia, ma ripresa con videocamere e diffusa via Internet) aveva suscitato il risentimento del patriarca russo Cirillo I ed era stata seguita dall’accusa di teppismo e istigazione all’odio religioso da parte delle autorità civili. Dopo la prima sentenza di fine luglio, che ha prorogato la carcerazione preventiva delle tre Pussy Riot, è montata la mobilitazione in loro favore: i media occidentali si sono impadroniti del caso, e anche Madonna, durante il suo concerto moscovita del 7 agosto, ha chiesto a gran voce la liberazione delle ‘punk girls’. La vicenda ha provocato qualche imbarazzo a Putin, soprattutto quando il presidente russo si è recato a Londra per assistere alle Olimpiadi; ma proprio mentre iniziavano a trapelare segnali di ‘ammorbidimento’ da settori dell’establishment (e della stessa Chiesa ortodossa) è arrivata (il 17 agosto) la condanna in primo grado, confermata (il 10 ottobre) in appello, a 2 anni di reclusione, ma concedendo la libertà condizionale alla sola Yekaterina Samutsevich per non aver partecipato, perché impedita, all’esibizione nella cattedrale.
I libri
■ Jacques Allaman, Cecenia. Ovvero l’irresistibile ascesa di Vladimir Putin, 2003.
■ Stefano Grazioli, Vladimir Putin. La Russia e il nuovo ordine mondiale, 2003.
■ Fernando Mezzetti, Il mistero Putin. Uomo della provvidenza o del ritorno al passato?, 2003.
■ Leonardo Coen, Putingrad. La Mosca di zar Vladimir, 2008.
■ Osvaldo Sanguigni, Putin il neozar, 2008.
■ Edward Lucas, La nuova Guerra fredda. Il putinismo e le minacce per l’Occidente, 2009.
■ Francesca Mereu, L’amico Putin. L’invenzione della dittatura democratica, 2011.
■ Masha Gessen, Putin. L’uomo senza volto, 2012.