vocabolo (vocabulo)
È la parola considerata come unità lessicale semanticamente espressiva. V. oltre, Teoria dei Vocaboli.
Il Convivio è l'opera nella quale v. compare il maggior numero di volte (trenta), più di quante non siano le occorrenze di ‛ vocabulum ' nel De vulg. Eloq. (venticinque); ciò non ostante i problemi connessi con il valore dei v. e con la loro storicità sono affrontati nel Convivio in modo sporadico e occasionale.
Un accenno alla funzione connotativa e particolarizzante propria dei v. è implicito nell'uso che del termine si fa in III XI 7 però che l'essenziali passioni sono comuni a tutti, non si ragiona di quelle per vocabulo distinguente alcuno partecipante quella essenza; più evidente è il richiamo all'uso estensivo della parola nel passo che segue: talvolta l'uno e l'altro termine de li atti e de le passioni si chiamano e per lo vocabulo de l'atto medesimo e de la passione (§ 16).
Maggior attenzione è rivolta al problema della storicità dei v., cioè al loro necessario adeguarsi al mutamento delle strutture sociali e della civiltà. Il primo accenno all'evoluzione dei v. si ha nel capitolo che chiarisce per quali ragioni il trattato sia stato redatto in volgare e non in latino: I V 9 vedemo ne le cittadi d'Italia... da cinquanta anni in qua molti vocabuli essere spenti e nati e variati. Il tema è poi ripreso nel passo in cui si esamina l'analogia tra cielo della Luna e Gramatica (v.). Come la luna, questa scienza ha due proprietà: ché, per la sua infinitade, li raggi de la ragione in essa non si terminano, in parte spezialmente de li vocabuli; e luce or di qua or di là in tanto quanto certi vocabuli, certe declinazioni, certe construzioni sono in uso che già non furono, e molte già furono che ancor saranno (II XIII 10); tesi, questa, suffragata nello stesso paragrafo con la citazione e la traduzione di un passo (vv. 70-71) dell'Ars poetica di Orazio: Molti vocaboli rinasceranno che già caddero.
Gli esempi più numerosi si hanno quando D. vuol richiamare l'attenzione del lettore sul significato esatto di una parola, sull'uso che lo scrittore ne fa o sull'origine storica del suo valore: Vn XL 6 E dissi ‛ peregrini ' secondo la larga significazione del vocabolo: che peregrini si possono intendere in due modi, in uno largo e in uno stretto; Cv II X 8 si tolse questo vocabulo [cortesia] da le corti, e fu tanto a dire cortesia quanto uso di corte (altro esempio nello stesso paragrafo); IV XVI 4 è prima da vedere... che per questo vocabulo ‛ nobilitade ' s'intende... se volemo riguardo avere de la comune consuetudine di parlare, per questo vocabulo ‛ nobilitade ' s'intende perfezione di propria natura in ciascuna cosa. E così, a proposito dei v. cielo (II XIII 1), terzo (§ 2), maraviglia (XV 11), mente (III II 16 e IV XV 11), luce e splendore (III XIV 5; qui compare il plurale), antico (IV XIV 3), nobile (XVI 6) e ancora nobilitade (§ 8).
In due casi il valore di una parola è chiarito mediante la sua etimologia dal greco.
In Cv III XI 5, dopo aver narrato che Pittagora, domandato se egli si riputava sapiente, negò a sé questo vocabulo [qui vale " denominazione "; ha la stessa accezione in IV VI 14], e disse sé essere non sapiente, ma amatore di sapienza, D. prende in esame I due vocabuli greci ‛ philos ' e ‛ sophos ', per dedurne che ‛ filosofo '... tanto vale a dire quanto ‛ amatore di sapienza ': per che notare si puote che non d'arroganza, ma d'umilitade è vocabulo (da interpretarsi qui in senso traslato come " espressione "); altri tre esempi, a proposito di filosofia, al § 6.
Analogamente in Cv IV VI, posto il problema cosa questo vocabulo [‛ autorità '] vuol dire (§ 2), esso viene risolto mediante l'esame del vocabulo... ‛ autore ' (§ 3) e l'affermata discendenza di questo da uno vocabulo greco che dice ‛ autentin ', che tanto vale in latino quanto ‛ degno di fede e d'obedienza ' (§ 5; altro esempio nello stesso paragrafo).
V. compare come plurale collettivo con il valore di " lessico ", in Rime LXXXIII 45 E' parlan con vocaboli eccellenti; vale " citazioni ", in Cv II XII 5 io che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocabuli d'autori e di scienze e di libri.
Nella Commedia, se si prescinde dall'esempio generico di Pd XVIII 94, è riferito sempre al " nome proprio " di un fiume (dell'Archiano in Pg V 97; dell'Arno in XIV 26) o di un pianeta: di Venere in Pd VIII 11, di Saturno (sia la divinità pagana sia il pianeta) in XXI 25.
Teoria dei vocaboli. - Alla scelta dei v. adatti allo stile ‛ tragico ' D. dedica tutto un apposito capitolo (II VII) del De vulg. Eloq., che fa seguito a quelli sui versi e sul tipo di constructio congruenti al medesimo stile. Nei limiti di sinteticità propri dell'opera (per cui alla fine D. avverte di aver dato solo indicazioni di massima, che vanno integrate dal naturale discernimento di utenti e applicatori), la trattazione dell'argomento è assai ricca e dettagliata sia per la cura delle distinzioni concettuali che per la copia di esempi concreti.
Questa precisione classificatoria e questa concretezza fanno spicco sullo sfondo della tradizione retorica in cui l'opera si colloca. Nella retorica latina classica il problema della selezione lessicale è naturalmente presente, ma di norma non con quell'ampiezza e sistematicità con cui sono svolti altri aspetti dell'elaborazione stilistica, come la collocazione delle parole, le figure retoriche e altro. Cosicché per esempio un'auctoritas come la Rhetorica ad Herennium è del tutto priva di pagine dedicate espressamente all'argomento; e poco più compare nell'Orator ciceroniano (XXXIX 134-135), che si limita a questo proposito a precetti generali di gusto (ad es. " verbum ex ore nullum nisi aut elegans aut grave exeat "). Caratteristica l'impostazione del De Oratore, dove pure Cicerone discorre abbastanza a lungo " de singulorum laude verborum ". Anche in questo caso prevale l'emissione di precetti estetici generali sui vizi da fuggire (bisogna evitare tanto " rusticam asperitatem " quanto " peregrinam insolentiam ", III XI 44; occorre esprimersi " non aspere... non vaste, non hiulce, sed presse et aequabiliter et leviter ", XII 45; si deve stare in guardia " ne inculta sit... oratio, ne vulgaris, ne obsoleta ", XXV 97, e così via). La scelta dei v. all'interno dei " propria verba ", che dovrebb'essere il nucleo della trattazione, è affidata al buon gusto naturale, con l'avvertenza sempre generica che qui la " laus oratoris " consisterà in questo: " ut abiecta et obsoleta fugiat, lectis atque inlustribus utatur, in quibus plenum quiddam et sonans inesse videatur. Sed in hoc verborum genere propriorum dilectus est habendus quidam atque is aurium quoque iudicio ponderandus est " (III XXXVII 150); non ci vien detto come in concreto si realizzi, nel corpo del vocabolario, quel " dilectus ". Maggior concretezza di discorso e di esemplificazione è invece dedicata, caratteristicamente, ai mezzi verbali per " exornare " e " inlustrare " l'" oratio ", riassunti in tre categorie, l'" inusitatum verbum ", il " novatum " e il " tralatum ". Altrimenti la scelta verbale è subordinata al momento dell'accorta collocazione sintattica e dell'ornatus. Questo tipo d'impostazione passa in sostanza ai testi retorici posteriori, come le Institutiones oratoriae di Quintiliano (VIII II-III) o il De Nuptiis di Marziano Capella (V 509 ss.). Di fatto e in conclusione, manca proprio l'attenzione ai problemi capitali della scelta lessicale: da un lato la discriminazione fra sinonimi stilisticamente connotati in modo diverso, dall'altro il collegamento della trattazione del lessico a quella sui vari livelli di stile, importando in sostanza la definizione di un piano uniforme e ottimale di discorso elegante e polito e, all'interno di questo, dei mezzi a disposizione dello scrittore per impreziosire il proprio dettato.
Non molto diversamente vanno le cose nel Medioevo. Con questo però, che la forte accentuazione, propria di quell'età, del problema stilistico come problema di una congruenza a priori fra linguaggio e tipo di materia prescelta, piuttosto che, come fondamentalmente nei classici, libera scelta elocuzionale che mira a un livello ottimo di eleganza, se da un lato irrigidisce il rapporto stile-materia in una corrispondenza meccanica di determinati oggetti poetici ad altrettante situazioni astrattamente fissate, dall'altro però, postulando come legittima una scala di stili, introduce in re una differenziazione stilistica all'interno del vocabolario che non è solo dipendente dalle qualità formali o sociali dei v. in sé e per sé, ma dalla loro adeguatezza a una certa materia della trattazione. Ciò dà modo d'impostare, se non altro, il problema capitale dello sfruttamento della sinonimia lessicale come mezzo di caratterizzazione stilistica (così già negli Scholia Vindobonensia all'Ars poetica di Orazio, di età carolingia, i sinonimi lychnus-lucerna-testa sono visti, rispettivamente, come propri dello stile alto, del mezzano e dell'umile).
Si tratta però, occorre avvertire, tutt'al più di spunti che non hanno séguito organico. Anche nel Medioevo testi fondamentali come il Documentum de arte versificandi di Goffredo di Vinsauf possono mancare totalmente di una sezione dedicata al lessico, e la stessa Ars versificatoria di Matteo di Vendôme, che pur si diffonde parecchio sull'argomento, risolve di fatto la sua precettistica, salvo parchi accenni ai vizi da fuggire (il più ampio, II 46, sulla necessità di evitare i " syncategoreumata " in poesia), in elenchi di " verba venusta " e " minus a plebeio contactu ventilata ", distribuiti nelle varie categorie grammaticali, con cui abbellire il discorso poetico. Tipica la trattazione della Poetria di Giovanni di Garlandia: in cui da un lato il discorso stilistico sui v. s'intreccia alla casistica grammaticale, dall'altro la scelta dei v. è nettamente subordinata a problemi di collocazione accorta e di abbellimento tramite le figure dell'ornatus (" callida iunctura ", conversio o circonlocucio, transumptio, ecc.). Di più promettono le esemplificazioni concrete dei tre gradi di stile, in particolare la Rota Vergilii, con l'avvertenza però che la ricerca dei " verba cognata materiae " non consiste tanto nel reperimento di un repertorio lessicale, quanto di un repertorio di oggetti e situazioni poetiche, quindi di contenuti, adatti via via ai vari stili: insomma ci viene prescritto che nello stile X bisogna parlare degli animali o delle piante y, ma non ci si dice come bisogna regolarsi se per quelle nozioni esiste più di un termine.
Qualcosa della visione contenutistica propria dei teorici medievali permane anche in D., laddove in particolare egli presenta un elenco di parole adatte allo stile tragico che in realtà è piuttosto un elenco di temi caratteristici di essa. Ma la peculiarità della sua posizione sta nella forza con cui le categorie sociologiche sono risolte puntualmente in categorie formali, all'interno delle quali è il gusto ad arbitrare: il tal v. non è rifiutato perché rustico, ma perché una data origine sociale si risolve in un determinato vizio formale. Dopo aver avvertito che le specie (maneries) dei v. sono tante, sicché occorre la vigilanza della ‛ discretio ', D. procede a una classificazione generale, dapprima su base sociologica e poi formale. Anzitutto i v. vanno secondo lui divisi in infantili, femminei e virili, categoria quest'ultima presente forse anche in Cv I I 16, dove alla prosa fervida e passionata della Vita Nuova è contrapposta quella temperata e virile del trattato (mentre l'opposizione di v. virili e femminei è anche, con diverso accento, nella Poetica e nella Retorica di Aristotele; e v. anche Boezio Inst. mus., ediz. Friedlein, p. 181). E le parole virili possono a loro volta esser proprie della città (urbana) o della campagna (silvestria), dove agisce ancora quella contrapposizione città-campagna che (v. urbanus) gioca un ruolo non secondario nella strategia concettuale del trattato. A questo punto si passa dal piano sociologico a quello formale. I v. ‛ urbani ' si suddividono in due categorie fondamentali, quelli levigati (pexa et lubrica) e quelli aspri (yrsuta et reburra), sennonché nelle due coppie solo il primo termine è valido: i v. grandiosi sono i pexa e gli yrsuta, mentre i lubrica e i reburra ne rappresentano la rispettiva degenerazione in una ridondanza e un eccesso di morbidezza o di ruvidezza (in superfluum sonant); e cfr. per un'analisi più dettagliata le quattro voci relative.
Perciò il lettore (§ 3) deve fare la massima attenzione nel discriminare e scegliere (cribrare) i materiali adatti alla poesia ‛ tragica ', cui si adatteranno solo i v. eccellenti per nobiltà: In quorum numero neque puerilia propter sui simplicitatem, ut ‛ mamma ' et ‛ babbo ', ‛ mate ' et ‛ pate ', neque muliebria propter sui mollitiem, ut ‛ dolciada ' et ‛ placevole ', neque silvestria propter austeritatem [" ruvidezza "], ut ‛ greggia ' et ‛ cetra ', neque urbana lubrica et reburra, ut ‛ femina ' et ‛ corpo ', ullo modo poteris conlocare. È bene soffermarsi partitamente sugli esempi addotti. Mamma e babbo sono i v. per eccellenza del linguaggio infantile, come indicava già il Régime du corps di Aldobrandino da Siena (nella traduzione di Zucchero Bencivenni, presso Schiaffini, Testi fiorentini 190): " ... incomincia [il bambino] a dire parole ove non ae lettere che faccia la lingua troppo muovere, sì come ‛ mama ', ‛ pappa ' e ‛ babbo ' ", con cui va lo stesso D., If XXXII 9 lingua che chiami mamma e babbo (e cfr. Pg XI 105); naturalmente entrambi i termini sono assenti dalle Rime - e dalla prosa dantesca -, mentre è caratteristico che mamma compaia, oltre che nel contesto tecnico citato, ancora tre volte nella Commedia, di cui due nel Paradiso, sempre in rima (Pg XXX 44; Pd XIV 64 per le mamme, ma per li padri; Pd XXIII 121). Quanto a mate e pate è interessante che si tratti di forme non toscane, ma centro-meridionali (di Iacopone ad es.), attestate fino ad Arezzo (v. Monaci-Arese, Crestomazia, gloss. ad vv.): dunque qui D. recupera implicitamente la dimensione ‛ geografica ' che dominava il primo libro del trattato. Ciò avviene altrettanto chiaramente, nei confronti ora dei dialetti settentrionali, per la successiva coppia di vocaboli ‛ femminei ': già l'accostamento muliebris-mollities ricalca quanto D. aveva detto in VE I XIV 3 del romagnolo, e al corada che lo esemplificava risponde perfettamente il dolciada di questo passo; sempre per l'aspetto fonetico si confronti poi placevole, col nesso muta + liquida, con l'odo sempre del romagnolo o ancor meglio col plaghe del veneziano (§ 6); quindi l'implicito rilievo sul carattere regionale o municipale dei due v. si somma a una probabile valutazione tonale, se dolciato appare attestato precisamente in testi, o contesti, popolareggianti (Bianco da Siena; Boccaccio Dec. III 8 66, VIII 9 17) ed entrambi, soli o in coppia, si caratterizzano per femminea sdolcinatezza.
Le due categorie, nozionale e formale, s'intrecciano anche per gli esempi di v. ‛ silvestri ', e diremmo più precisamente ‛ bucolici ' (grex in Giovanni di Garlandia è tipico v. di una materia " de pastore "), anche se D., col rilievo sull'austeritas o ruvidezza (Dionigi d'Alicarnasso opponeva similmente ἀυστερὸς a γλαφυρὸς e Alberico da Montecassino [Flores rhetorici VII] metteva in antitesi v. " austera " e " mollia ") che certamente si appunta al nesso muta + liquida che interessa entrambi (v. il § seguente), insiste su fattori formali. Anche qui va osservato che i due termini sono assenti dalle Rime, e il secondo appare nel Convivio solo nella forma non sincopata e quindi non ruvida, citara o cetera, e per contro che ambedue fanno la loro comparsa nella Commedia, greggia più volte (una anche nel Paradiso), cetra in Pd XX 22, e sempre in rima. Quanto a femina e corpo, urbani entrambi ma rispettivamente " lubrico " e " reburro ", l'usus dantesco ne chiarisce ancora una volta il valore stilistico. Al primo infatti si contrappone il sinonimo donna (che riteneva nell'uso lirico la connotazione nobile di domina), proprio invece dello stile tragico, anzi della fascia più pregevole dei v. che lo formano (come chiarisce il paragrafo successivo); rileva esplicitamente Vn XIX 1 pensai che parlare di lei non si convenia che io facesse, se io non parlasse a donne in seconda persona, e non ad ogni donna, ma solamente a coloro... che non sono pure femmine (e cfr. anche Vn XXVI 2 e Pg XIX 7 e 26 con la contrapposizione tra la femmina balba e la donna... santa e presta), in accordo con un uso durato a lungo (cfr. per es. Francesco da Barberino Docum. II 138; Machiavelli Mandragola a. II sc. 6); sicché la lirica dantesca conosce solo donna (mentre femmina è corrente nel Fiore), e anche nella prosa e nel poema femmina è specializzato in accezione sessuale o anche moralmente negativa. Si aggiunga che i glossari medievali (Uguccione compreso) legavano femina a fòs, " quia vehementer concupiscit ", o a fetidas, per cui è probabile, come vuole il Marigo, che la ‛ lubricità ' cumuli qui due valori, quello concretamente fonico (collegato alla forma sdrucciola del v.) e quello morale. Qualcosa di simile si dica per corpo, che assomma asprezza di suono e fisicità troppo immediata e trasparente di significato, di fronte al sinonimo persona: di qui la specializzazione dell'uso dantesco, in cui persona è esclusivo della lirica cortese e stilnovistica, con espansione nella prosa nella Vita Nuova e anche nella petrosa Così nel mio parlar, nonché, sintomaticamente, nella bella persona di If V 101; mentre corpo è della prosa e del poema, e l'unico esempio lirico si trova per l'appunto nella canzone Le dolci rime, dichiarata da D. stesso aspr'e sottile.
Dunque, conclude D., le parole nobilissime, membra del volgare illustre, sono i v. urbani pexa yrsutaque, restando aperto il problema se e come quelli in precedenza rifiutati siano (come probabile) legittimamente utilizzabili negli stili inferiori. Et pexa vocamus illa, quae trisillaba vel vicinissima trisillabitati, sine aspiratione, sine accentu acuto vel circumflexo, sine ‛ z ' vel ‛ X ' duplicibus, sine duarum liquidarum geminatione vel positione inmediate post mutam, dolata [" levigate "] quasi, loquentem cum quadam suavitate relinquunt, ut ‛ amore ', ‛ donna ', ‛ disio ', ‛ vertute ', ‛ donare ', ‛ letitia ', ‛ salute ', ‛ securtate ', ‛ defesa ' (VE II VIII 5).
Va notata anche qui la motivazione esclusivamente formale: i v. che formano il nucleo dello stile tragico sono eletti in base alla loro proporzionata consistenza fonica e sillabica. Il privilegio concesso alla misura dei trisillabi piani (cui le parole, per esser pexa, dovranno almeno accostarsi, cioè esser bi- o quadrisillabiche) sarà stato variamente motivato: dal simbolismo numerico del tre, dalla presenza di un equilibrio fonico perfetto, con la tonica incastonata fra due atone, dal fatto che il trisillabo piano conclude la cadenza del cursus planus e che la sua misura è media fra eccessiva brevità ed eccessiva lunghezza, infine dalla considerazione che la rima piana è in assoluta prevalenza nella tradizione lirica italiana. E la caratterizzazione delle proprietà foniche che impediscono a un v. di essere ‛ pettinato ', che s'inserisce bene nel formalismo della tradizione grammaticale e retorica, è estremamente puntigliosa: non ci dev'essere l'acca, verosimilmente iniziale come chiarisce il successivo esempio di honore, in quanto " aspirationis nota " (come ancora ripetono i grammatici medievali, per esempio Giovanni da Genova, e D. trasferisce piuttosto macchinalmente al volgare); non l'ossitonia (se così si deve interpretare, col Marigo, la non limpida menzione dell'accento " acuto " e " circonflesso ": molto probabile che con quest'ultimo D. intendesse indicare parole " sincopate " del tipo di virtù, bontà, e infatti nell'elenco di vocaboli " irsuti " compare impossibilità); non le consonanti, invise a grammatici e retori, Z e X (chiamate " duplices " perché tradizionalmente analizzate come dentale + s, velare + s; e per la Z v. quanto D. stesso dice del genovese in VE I XIII 5); non doppie liquide (cfr., fra i v. irsuti, terra e alleviato), né i gruppi di muta + liquida (cfr. le rifiutate placevole, greggia, cetra, e più avanti gravitate). Detto ciò, va tuttavia osservato che l'elenco dei v. positivi è tutt'altro che semanticamente neutrale: le nove parole che lo compongono (numero magico !) sono infatti, a tre a tre, v. caratteristici e addirittura parole-chiave della poesia dei tre magnalia, nell'ordine amore, virtù e salus, anzi la prima di ogni triade ne è il vocabolo eponimo (si ricorda che ben sei di quelle parole ricorrono in Donne che avete intelletto d'amore: v. CANZONE).
Ma ai v. pexa vanno mescolati gli yrsuta, ed è proprio questa mescolanza che crea pulcram... armoniam compaginis, secondo una visione dell'armonia come contemperamento di contrari, dolcezza e asprezza, che risale in ultima analisi a Boezio e che, già accennata a proposito dell'equilibrato dialetto bolognese (I XV 5), tornerà esplicitamente in II XIII 12 nam lenium asperorumque rithimorum mixtura ipsa tragoedia nitescit. I vocaboli irsuti sono bipartiti in necessari, cioè inevitabili, e ornativi (la dicotomia ornatus-necessitas è gia donatiana, Ars gramm. [maior] III 6, e la ripete ad es. Vincenzo di Beauvais Spec. doctr. II 192): ai primi appartengono, fra altri v., i monosillabi (cfr. monosillabo) - e la più duttile posizione dantesca va utilmente comparata con lo sfratto rigoroso che Matteo di Vendôme dava ai " syncategoreumata " (v. sopra); ai secondi, v. che variamente esibiscono le caratteristiche foniche estranee ai pexa (aspirazione, lunghezza e così via). L'elenco che D. ne dà (terra, honore, speranza, gravitate, allevïato, impossibilità, impossibilitate, benaventuratissimo, inanimatissimamente, sovramagnificentissimamente, II VII 6) è questa volta meno rapportabile a un quadro concreto di usi poetici, personali e no. Si ha l'impressione che in questo elenco, che copre callidamente lo spazio dalle due alle undici sillabe, per cui l'ultimo termine citato, come avverte D. stesso, è un endecasillabo, l'autore si lasci una volta tanto andare a una sorta di ludismo esemplificatorio, eventualmente influenzato dalle liste di parole preziose, e spesso così improbabili, che solevano stendere gli autori di poetiche e di artes dictaminis; in particolare la serie finale di v. più prolissi (si confronti l'avversione oraziana per i " sesquipedalia verba ") sembra precisamente ubicarsi in un gusto stilistico che è impossibile non definire guittoniano, e s'intenda il Guittone - e seguaci - delle Lettere (composti con sovra, superlativi, avverbi lunghi in -mente); nell'uso della tradizione poetica più prossima al gusto del De vulg. Eloq. si arriva al massimo, per quanto concerne questi ultimi, alla parola-verso meravigliosamente del Notaio (nell'omonima canzone e in Amando lungiamente 5) o all'inamoratamente che chiude l'incipit dell'unica canzone di Brunetto. Questa propensione ludica traspare nella scelta dell'ultimo esempio, teorico perché di lunghezza superiore all'endecasillabo, cioè il mostruoso honorificabilitudinitate (v. che ha un posto stabile presso grammatici e retori medievali come esempio tipico di " longissima dictio ", e che D. avrà rilevato con ogni probabilità dal solito Uguccione da Pisa).
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