vocale breve
La nozione di vocale breve si presta a diverse interpretazioni, anche a seconda dell’intento descrittivo, che può essere orientato verso finalità fonetiche o fonologiche. Nel trattare la vocale breve in una prospettiva fonetica si utilizzerà il termine di durata; in prospettiva fonologica, per quelle lingue (quali, ad es., il latino e l’ungherese) ove differenze di durata vocalica veicolano contrasti fonologici (➔ vocali), si parlerà piuttosto di quantità o lunghezza (che è la durata con valore distintivo; ➔ quantità fonologica).
L’unità di misura della durata è il millesimo di secondo (in sigla ms o msec). Come le altre caratteristiche prosodiche (➔ prosodia), rispetto ai fenomeni di tipo segmentale questa nozione va presa in senso relativo, dipendente anche dalla velocità d’elocuzione (➔ pronuncia): ad es., una vocale di 70 ms può essere considerata breve se inserita in una frase pronunciata lentamente (dal momento che le altre vocali avranno durate sensibilmente maggiori), lunga se inserita in un parlato molto rapido.
La probabilità che la quantità faccia parte del sistema vocalico aumenta con l’aumentare del numero dei contrasti di qualità: lingue con molte vocali qualitativamente distinte possono aggiungere differenze di lunghezza per distinguere ulteriormente tali vocali; parimenti, lingue con un originario contrasto di lunghezza possono rafforzare le differenze quantitative anche con contrasti timbrici (Maddieson 1984: 129-130). In entrambi i casi l’uso combinato di differenze quantitative e qualitative rafforza la distintività del contrasto vocalico.
Da un punto di vista tipologico, ci sono significative asimmetrie concernenti la quantità: nelle lingue del mondo è più probabile che sia lunga una vocale medio-alta che una vocale medio-bassa; che sia lunga una vocale bassa anteriore o posteriore piuttosto che una vocale bassa centrale; che sia lunga una vocale anteriore arrotondata rispetto a una vocale anteriore non arrotondata. Inoltre, le vocali medie tendono ad essere innalzate se allungate, o abbassate se abbreviate. Si creano così associazioni tra altezza e quantità e le differenze quantitative diventano anche differenze di ➔ timbro. Tuttavia le lingue divergono nell’estensione e nel tipo d’influenza che la quantità ha sul timbro, anche se si registra una correlazione tra vocali lunghe e articolazioni periferiche da un lato, e dall’altro tra vocali brevi e articolazioni generalmente abbassate e centralizzate (Lehiste 1970: 30). Il grado di tensione tende dunque ad accompagnarsi a una maggiore durata.
Anche nelle lingue dove la durata non ha ruolo fonologico (➔ fonologia) certe vocali appaiono più lunghe di altre. Ogni vocale ha una sua durata intrinseca, correlata con l’altezza della lingua: a parità di altri fattori, le vocali alte sono più brevi delle vocali basse, le aperte sono più lunghe delle chiuse (per l’italiano, Ferrero et al. 1978; Albano Leoni, Cutugno & Savy 1998).
Nel passaggio dal latino alle lingue romanze si è persa la distinzione quantitativa (➔ latino e italiano). È verosimile che già in latino classico le differenze temporali fossero correlate a differenze timbriche, con le vocali aperte meno periferiche o meno tese e le vocali lunghe più periferiche o più tese: pertanto le vocali brevi del latino ĭ, ĕ, ŏ, ŭ sarebbero state articolate rispettivamente come /ɪ/, /ɛ/, /ɔ/, /ʊ/. Questa distinzione timbrica, ridondante in latino, è diventata pertinente nella maggioranza dei vocalismi romanzi, ove si è persa la distinzione di lunghezza (➔ quantità fonologica).
In italiano le vocali sono fonologicamente brevi: non esistono coppie minime (➔ coppia minima) in cui, per es., /e/ sia contrapposto a /eː/. Quasi tutti gli studiosi concordano che esistono però vocali foneticamente lunghe, contestualmente determinate, sulla base di una precisa regola allofonica (➔ allofoni; ➔ variante combinatoria): in sillaba aperta non finale di parola le vocali toniche sono lunghe, mentre in sillaba chiusa sono brevi. Ad es., la /a/ tonica di [ˈpaːla] pala è lunga mentre quella di [ˈpalːa] palla è breve, pur essendo la distintività affidata alla lunghezza della consonante.
L’allungamento della vocale tonica in sillaba aperta (meramente allofonica in toscano, in sardo e in molte varietà meridionali) è resa distintiva in buona parte delle varietà settentrionali (escluso il Veneto): qui la durata vocalica costituisce un’opposizione distintiva, come nel cremonese [tus] «tosse» ~ [tuːs] «tosato» (Loporcaro 2009: 91). L’allungamento in sillaba aperta è visto da molti come la causa scatenante della dittongazione di ĕ e ŏ del fiorentino (pĕde > p[jɛ]de, fŏco > f[wɔ]co), che – com’è noto – non dittongano se sono in sillaba chiusa (cfr. Lausberg 19762: 206-208). In realtà, l’assunto vocale lunga in sillaba aperta e vocale breve in sillaba chiusa vale soprattutto per il parlato controllato, ovvero letto in particolari condizioni sperimentali (Bertinetto 1981). Sono trattate come semilunghe le vocali toniche dei proparossitoni e quelle con accento secondario ma sono ancora pochi gli studi sperimentali in proposito (Bertinetto 1981; Marotta 1985).
Da un punto di vista schiettamente sincronico, si assume dunque che in italiano le vocali siano brevi se toniche in sillaba chiusa (porto), o toniche finali di parola (portò), o atone. La regola fonologica che riassumerebbe le restrizioni sopra delineate è pertanto la seguente: le vocali possono essere lunghe solo nelle sillabe toniche aperte non finali. In realtà, se la maggiore durata nelle sillabe aperte può essere ricondotta a un principio piuttosto generale (vocali toniche come vocali pesanti o bimoraiche; ➔ prosodia), l’accorciamento vocalico in fine di parola appare piuttosto una restrizione idiolinguistica (Basbøll 1989).
È stata dimostrata sperimentalmente (Farnetani & Kori 1982; Vayra 1994) la maggiore brevità delle vocali ossitone in italiano: questa caratteristica acustica viene collegata alla presenza di un’occlusiva glottidale, a sua volta interpretata come traccia delle consonanti finali latine negli ossitoni italiani. Tale relitto fonetico è per Vayra (1994) da mettere in relazione con la presenza di strategie peculiari nei processi di affissazione degli ossitoni italiani e, soprattutto, con il fenomeno del ➔ raddoppiamento sintattico.
Albano Leoni, Federico, Cutugno, Franco & Savy, Renata (1998), Il vocalismo dell’italiano televisivo. Analisi acustica di un corpus, in Atti del XXI congresso internazionale di linguistica e filologia romanza, Centro di studi filologici e linguistici siciliani (Palermo, 18-24 settembre 1995), a cura di G. Ruffino, Tübingen, Niemeyer, 6 voll., vol. 4° (Le strutture del parlato. Storia linguistica e culturale del Mediterraneo), pp. 3-16.
Basbøll, Hans (1989), Phonological weight and Italian raddoppiamento fonosintattico, «Rivista di linguistica» 1, 1, pp. 5-31.
Bertinetto, Pier Marco (1981), Strutture prosodiche dell’italiano. Accento, quantità, sillaba, giuntura, fondamenti metrici, Firenze, Accademia della Crusca.
Farnetani, Edda & Kori, Shiro (1982), Lexical stress in spoken sentences. A study on duration and vowel formant pattern, «Quaderni del Centro di studi per le ricerche di fonetica» 1, pp. 104-133.
Ferrero, Franco E. et al. (1978), Some acoustic characteristics of the Italian vowels, «Journal of Italian linguistics» 3, 1, pp. 87-96.
Lausberg, Heinrich (19762), Linguistica romanza, Milano, Feltrinelli, 2 voll. (ed. orig. Romanische Sprachwissenschaft, Berlin, de Gruyter, 1956-1962, 3 voll.).
Lehiste, Ilse (1970), Suprasegmentals, Cambridge (Mass.), The MIT Press.
Loporcaro, Michele (2009), Profilo linguistico dei dialetti italiani, Roma - Bari, Laterza.
Maddieson, Ian (1984), Patterns of sounds, Cambridge, Cambridge University Press.
Marotta, Giovanna (1985), Modelli e misure ritmiche. La durata vocalica in italiano, Bologna, Zanichelli.
Vayra, Mario (1994), Phonetic explanations in phonology: laryngealization as the case for glottal stops in Italian word-final stressed syllables, in Phonologica 1992. Proceedings of the 7th International phonology meeting, edited by W.U. Dressler, M. Prinzhorn & J.R. Rennison, Torino, Rosenberg & Sellier, pp. 275-293.