cantata, voce
Un inveterato luogo comune vuole l’italiano come la più adatta tra le lingue al canto, soprattutto per una ragione fonetica e una sintattica: la ricchezza di suoni vocalici, specie in fine di parola, e la scarsità di consonanti aspre, gutturali e aspirate; la libertà nell’ordine delle parole, supposta come superiore al francese, all’inglese e ad altre lingue moderne (➔ immagine dell’italiano).
Il mito dell’italiano come «lingua per musica» acquista la massima risonanza nel Settecento, vale a dire il secolo di Metastasio (Pietro Trapassi), Lorenzo Da Ponte, Carlo Goldoni (il librettista più prolifico dell’epoca) e dell’italiano come lingua di cultura europea. Non soltanto i nostri musicisti (Niccolò Jommelli, Tommaso Traetta, Antonio Salieri, Baldassarre Galuppi, Giovanni Paisiello, Domenico Cimarosa), ma anche i nostri poeti per musica sono contesi dalle principali corti: da G.F. Händel a W.A. Mozart, da J.A. Hasse a F.J. Haydn, numerosi compositori stranieri optano per opere su libretto italiano; si ricordi, oltre ai nomi già citati, Paolo Rolli, il principale librettista di Händel. L’ampia circolazione della nostra lingua fuori dai confini nazionali, soprattutto in Austria, Germania, Inghilterra, Francia e Russia, fino a tutto il Settecento, fu in gran parte favorita proprio dal successo ottenuto dal melodramma italiano (Folena 1983): Lorenzo Magalotti, Metastasio, Da Ponte, tra gli altri, testimoniano la possibilità di vivere a Vienna parlando soltanto italiano.
L’estrema propaggine della diffusione all’estero dell’italiano operistico è rappresentata da Gioachino Rossini, che però per il teatro parigino compone su libretti scritti o tradotti in francese. L’affermarsi delle identità nazionali e del binomio lingua-patria, prettamente romantico, segnerà il declino di tale supremazia, sebbene il mito dell’italiano come «dolce idioma» del canto arrivi almeno fino alla fine dell’Ottocento (Pacini 1875: 31) e la circolazione della lingua italiana attraverso i palcoscenici lirici e le scuole di canto mondiali sia una realtà tuttora florida e un indubbio veicolo culturale.
Numerose sono le dichiarazioni, più o meno fantasiose, di nobili e intellettuali sei-settecenteschi sulla superiorità dell’italiano come lingua per musica. L’imperatore Leopoldo I (metà del XVII secolo) era convinto che valesse di più «un’aria italiana cantata da un cavallo che un’aria tedesca in bocca di brava e bellissima artista» (Bonomi 1998: 44). Naturalmente non mancano opinioni opposte. La polemica tra Italia e Francia sulla supremazia in ambito canoro risale al Cinquecento, allorché Henri Estienne giudica l’italiano monotono e poco cantabile a causa dell’esclusiva terminazione vocalica. Analoga posizione, un secolo dopo, assume Dominique Bouhours, che aggiungerà, ai meriti del francese contrapposto all’italiano, la regolarità accentuale e la maggiore linearità sintattica. Celebre il suo stigma: «Les Chinois et presque tous les peuples de l’Asie chantent; les Allemands râlent; les Espagnols déclament; les Italiens soupirent; les Anglais sifflent, il n’y a proprement que les Français qui parlent» (Bouhours 1920: 57). Nel 1702, François Raguenet riconosce la superiorità canora dell’italiano per via della maggiore sonorità delle sue vocali, soprattutto la a, e della maggior pienezza delle sue sillabe, rispetto alla frequenza di vocali mute, di sillabe sincopate e di suoni dittongati e turbati in francese. Oltre mezzo secolo più tardi J.-J. Rousseau, tra i massimi estimatori della musica italiana, invocherà, in parte, gli stessi argomenti: l’italiano è più cantabile del francese perché ha più vocali, incontri consonantici meno aspri, un maggior numero di elisioni, un minor numero di dittonghi, meno suoni nasali, più inversioni sintattiche.
Ben presto la polemica si sposta dal piano linguistico a quello stilistico, oppure ai piani musicale e teatrale. Da un lato, l’italiano è esaltato come lingua del canto in quanto l’Italia è ritenuta terra di grandi poeti, dall’altro si vitupera l’eccesso di virtuosismi nelle arie italiane: l’intento è quello di demolire la cantabilità dell’una o dell’altra lingua per far risaltare la letteratura poetica, teatrale e musicale dell’una o dell’altra nazione.
Molti intellettuali italiani settecenteschi (letterati, più che musicisti: Giovanni Mario Crescimbeni, Gian Vincenzo Gravina, ➔ Ludovico Antonio Muratori, successivamente Francesco Algarotti, Giuseppe Baretti e altri) reagiranno alle accuse del Bouhours e di altri francesi (Voltaire), ribadendo da un lato la maggior cantabilità dell’italiano rispetto al francese (di cui si riconoscono talora i meriti culturali e la maggiore attitudine alla prosa e all’argomentazione), ma confermando, dall’altro, le critiche al cattivo gusto e alle intemperanze del mondo melodrammatico italiano (➔ immagine dell’italiano).
Che lo stereotipo della superiorità dell’italiano come lingua cantabile per antonomasia sia basato più sul convincimento della superiorità artistico-letteraria del nostro paese che su rigorosi fondamenti si dimostra senza difficoltà. A sostegno della supposta superiorità, in effetti, vengono citati autori di drammi per musica (Metastasio in testa) e la florida corrente petrarchistica, assunta, a partire dal suo capostipite, come emblema di armoniose sonorità ed equilibrio ineguagliato. Quasi nessuno invoca motivi quali la struttura sillabica (➔ sillaba), il ritmo accentuale (➔ ritmo), l’escursione tonale degli enunciati e simili questioni, del resto non comuni neppure nella trattatistica dell’epoca.
Se si considerasse il ritmo, infatti, la regolarità prosodica dell’inglese renderebbe quest’ultimo idioma un candidato alla cantabilità ben più credibile dell’italiano, lingua tendenzialmente isosillabica, con la durata delle sillabe più o meno uniforme. Le lingue germaniche come l’inglese vengono dette, per converso, isoaccentuali, ovvero con una tendenziale omogeneità nella durata degli intervalli intercorrenti tra un accento e l’altro nell’ambito della frase (Bertinetto 1981). E proprio riguardo alla durata delle sillabe, ben più cantabili sarebbero lingue (classiche, come il latino o il greco, ma anche moderne, come il finlandese) che hanno un sistema quantitativo, e dunque ritmico (per l’alternanza di vocali lunghe e brevi), piuttosto che uno accentuale come il nostro. Dal punto di vista dell’intonazione, poi, l’amplissima estensione prevista dalle lingue cosiddette a toni (come il cinese) escluderebbe l’italiano, e le altre lingue ad intonazione cosiddetta assoluta, dal novero delle lingue eufoniche e ben cantabili (Boilès 1977). Le lingue a toni, infatti, assegnano all’altezza delle sillabe non soltanto un valore espressivo, o tutt’al più sintattico e pragmatico in certi contesti, bensì propriamente semantico e lessicale. Vale a dire che una parola può cambiar di significato, in quelle lingue, soltanto in base alla differenza del tono con cui viene pronunciata una sua sillaba.
Quasi tutti gli intellettuali intervenuti citano infine l’ordine delle parole come prova di musicalità, portando acqua al mulino ora della maggiore regolarità e simmetria francese, ora della maggiore inventività delle inversioni italiane. Come si vede, ancora una volta, il problema è qui più stilistico che metrico-musicale. Con precoce buon senso, Voltaire sostiene che il confronto tra italiano e francese è mal posto, poiché non può esistere la lingua perfetta: ciascuna ha pregi e difetti. Tra i difetti dell’italiano, si annoverano la monotonia delle terminazioni, tutte vocaliche, l’assenza di vocali mute e l’abbondanza di diminutivi, secondo Voltaire puerili. Tra i pregi, la ricchezza di inversioni, che facilitano la versificazione, e la minor quantità di regole. La superiorità di una lingua, sottolinea Voltaire (in una lettera del 1761; Bonomi 1998: 78-79), non dipende dalla sua cantabilità e non è mai intrinseca, sibbene estrinseca e culturale: la lingua migliore è quella che possiede le opere migliori.
Un’osservazione conclusiva sulla voce cantata in italiano va fatta a proposito delle differenze fondamentali rispetto alla voce parlata, che riguardano soprattutto l’intonazione, il timbro e il ritmo. In primo luogo, ad una minima escursione tonale degli enunciati parlati, corrisponde la più ampia oscillazione delle frasi cantate, che possono tranquillamente superare le due ottave. Le vocali nel canto lirico (➔ melodramma, lingua del) tendono ad essere oscurate, e dunque la a può talora assomigliare ad o, mentre la o ad u o uo. Anche le consonanti, negli attacchi di frase particolarmente acuti o in passaggi d’agilità particolarmente veloci, possono talvolta essere deformate; mai le nasali (che, anzi, agevolano una corretta impostazione della voce cantata), spesso le occlusive e le fricative, che tendono addirittura alla caduta: una famosa aria verdiana dal Don Carlo, «Tu che le vanità», viene a volte eseguita come se fosse: «U che le vanità». D’altro canto, l’energia articolatoria impiegata in alcuni passaggi musicali può comportare un indebito raddoppiamento consonantico e l’inserimento di un’aspirazione davanti a una sillaba iniziante per vocale o a suoni vocalici più volte ripetuti. Ovviamente, poi, le sillabe del parlato sono di norma più brevi di quelle cantate.
Anche nell’accentazione, il canto può talvolta operare delle modificazioni (ritrazioni o avanzamenti) indotte dall’accentazione musicale, non necessariamente coincidente con quella prosodica. In questo, una lingua ad accentazione mobile, sebbene perlopiù piana, come l’italiano è senza dubbio facilitata rispetto ad un’altra ad accentazione fissa (tronca) come il francese. Ancora più mobili sono gli accenti dell’inglese e del tedesco, che dunque si configurano, ritmicamente, come lingue adattissime al canto, nonostante il luogo comune che le vorrebbe cacofoniche.
Dal punto di vista metrico, è nota la tendenza dell’italiano cantato ad utilizzare versi perlopiù brevi, regolari e legati da rime spesso baciate, caratteristiche che, in gran parte, il melodramma lascerà in eredità alla canzone pop fino ai giorni nostri.
Un ultimo carattere distintivo del canto rispetto al parlato risiede nella diversa importanza assegnata alla frequenza fondamentale (➔ intonazione), vale a dire l’intonazione di base di qualunque linea melodica, rispetto alle cosiddette formanti, ovvero i suoni armonici, e dunque accessori, che contribuiscono, tuttavia, alla completa riconoscibilità dei suoni principali:
La melodia del parlato deve usare una fondamentale per poter produrre i formanti, gli armonici tonali, che differenziano le vocali. [...] Nel parlato la fondamentale è di secondaria importanza rispetto ai formanti prodotti, sebbene abbia una funzione importante nel linguaggio parlato in quanto comunica nozioni di sintassi e di ‘affetto’ [...]. La melodia del canto ha a che fare piuttosto con la fondamentale e [...] i formanti, benché siano importanti per il testo cantato, sono di secondaria importanza rispetto alla fondamentale (Boilès 1977: 549).
Bouhours, Dominique (1920), Les entretiens d’Ariste et d’Eugène (1671), introd. et notes de R. Radouant, Paris, Bossard.
Pacini, Giovanni (1875), Le mie memorie artistiche (edite ed inedite). Autobiografia riscontrata sugli autografi e pubblicata da F. Magnani, Firenze, Successori Le Monnier.
Bertinetto, Pier Marco (1981), Strutture prosodiche dell’italiano. Accento, quantità, sillaba, giuntura, fondamenti metrici, Firenze, Accademia della Crusca.
Boilès, Charles L. (1977), Canto, in Enciclopedia, diretta da R. Romano & C. Vivanti, Torino, Einaudi (1977-1984), 16 voll., vol. 2°, pp. 548-571.
Bonomi, Ilaria (1998), Il docile idioma. L’italiano lingua per musica, la diffusione dell’italiano nell’opera e la questione linguistico-musicale dal Seicento all’Ottocento, Roma, Bulzoni.
Folena, Gianfranco (1983), L’italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento, Torino, Einaudi.