volgari medievali
Si intendono per volgari medievali d’Italia le varietà linguistiche diverse dal latino scritte in Italia nel medioevo e nel primo Rinascimento prima dell’imporsi del fiorentino, chiamato ben presto toscano e da un certo punto in poi, come facciamo noi oggi, italiano.
Inizialmente anche il fiorentino non è che uno dei volgari d’Italia. L’influenza del fiorentino sugli altri volgari comincia a farsi sentire in alcune parti d’Italia già dal XIV secolo (Sgrilli 1988; Bruni 1992). Una vera e propria egemonia del fiorentino si stabilisce nel corso del Cinquecento (➔ Umanesimo e Rinascimento, lingua dell’), quando l’italiano prende gran parte del posto che nella lingua scritta occupavano appunto, territorio per territorio, i vari volgari d’Italia, per sostituirsi nel corso dei secoli successivi anche al latino. È sempre nel Cinquecento che per designare un volgare diverso dal toscano letterario si diffonde in Italia il termine di origine greco-latina dialetto (Dionisotti 1968; Alinei 1984). Mentre però nel mondo greco antico i dialetti erano varietà, tutte provviste di prestigio, destinate a generi letterari diversi, nell’Italia del Rinascimento questo termine viene a designare le varietà linguistiche subordinate culturalmente alla varietà egemone dell’italiano su base fiorentina. Da questo momento in poi non si parla più di volgari ma di dialetti.
Questa vicenda riguarda sostanzialmente l’uso scritto della lingua. L’uso orale dei volgari /dialetti continua invece in Italia con grande vitalità, anche se è scalfito nel suo prestigio dall’italiano-fiorentino. Ma l’uso scritto dei dialetti regredisce e si limita ad alcuni generi letterari (teatro dialettale, satira, ecc.; ➔ dialetto, usi letterari del): la lingua scritta per eccellenza è l’italiano. La grandissima parte della popolazione parla invece il dialetto, in tutte le classi sociali, e spesso solo il dialetto (è la cosiddetta dialettofonia esclusiva): questa situazione si perpetua fino all’unità d’Italia (1861) e anche oltre (De Mauro 1963: 25-43; Castellani 1982).
Caduto l’Impero romano d’Occidente, il latino evolve in forma divergente nei vari territori che lo avevano composto, tanto che si arriva già nell’alto medioevo a una miriade di varietà dette romanze (➔ latino e italiano). In Italia, in particolare, ogni località ha il suo volgare romanzo, che proseguiva con caratteristiche proprie il latino. Arrivarono ad essere scritti solo i volgari di alcune grandi abbazie benedettine (in particolare Montecassino) o, prevalentemente, dei maggiori centri urbani dalla struttura sociale e amministrativa complessa.
I volgari italiani, quando emergono nella scrittura, sottraggono spazio al latino, fino ad allora usato in quegli stessi centri. Così, per es., lo statuto di una corporazione che era scritto in latino viene redatto la volta successiva in volgare. La stessa cosa vale per altri tipi di documenti ‘pratici’, cioè di testi non letterari finalizzati a usi specifici: documenti notarili e amministrativi, scritture private, ecc.
Della concorrenza del volgare con il latino, e della preferenza per il primo, ci sono alcune testimonianze dirette. Nel giugno del 1402 il signore di Padova Francesco Novello da Carrara raccomandava a Uguccione dei Contrari, ministro di Niccolò III d’Este, che lo informava sulla guerra di Bologna, di scrivergli in volgare e non in latino. La sua lettera è nel volgare padovano del tempo:
perché jo aldo [odo] volentera le novelle, che me scriviti, ve prego che ve piaça scriverme per vulgari, perché, scrivando per letera [in latino], jo non so tanto, ch’el no me convegna andare per le man de altri a farmele leçere; et jo le vorìa leçere mi stesso, per pì piacere e dileto (Pastorello 1915: 225; Ineichen 1957: 45)
D’altra parte, Francesco Novello, membro dell’aristocrazia terriera, si serviva nella sua cancelleria di dotti umanisti, come Giovanni Conversini, Pier Paolo Vergerio e Sicco Polenton (➔ cancellerie, lingua delle): la cultura volgare e una precoce cultura umanistica, che si esprimeva in latino, convivevano nello stesso ambiente.
In un periodo di rapida evoluzione sociale come quello del XIII e XIV secolo, il fenomeno decisivo per l’affermazione dell’uso scritto del volgare è l’ascesa dei nuovi ceti borghesi che, perlopiù ignari di latino, esprimono l’esigenza di elaborare per finalità pratiche una lingua scritta il cui apprendimento non costi anni di studio. Così, per es., mercanti e banchieri tengono i libri contabili e fanno le loro annotazioni, ma anche corrispondono tra di loro, nella lingua nativa (➔ mercanti e lingua). Importante è anche il contributo di quei professionisti, come i notai, che, in una società dove il peso dei ceti medi diviene sempre maggiore, si trovano a svolgere il ruolo di mediatori tra le istituzioni ancora legate al latino, e una clientela illetterata (come si diceva) che in genere non lo sa (➔ notai e lingua). L’uso del volgare si afferma precocemente negli statuti delle numerose confraternite laiche organizzate dagli ordini mendicanti, che annoverano tra i loro membri cittadini provenienti da fasce sociali differenti. La crescente partecipazione dei ceti popolari alla vita politica di quelle nuove istituzioni che sono i Comuni diede un forte impulso all’uso del volgare nei documenti pubblici (statuti, ordinamenti, leggi, ecc.), dove, comunque, almeno fino al pieno XIV secolo, l’uso del latino rimarrà prevalente.
La prassi liturgica cristiana resta legata al latino (➔ cristianesimo e lingua; ➔ Chiesa e lingua). Nel corso del Trecento e ancor più nel Quattrocento circolano sì volgarizzamenti della Bibbia, del Messale e del Breviario, ma si tratta sempre di traduzioni destinate all’uso privato. Al contrario, i testi di tipo paraliturgico (uffici, preghiere, canti in uso presso le confraternite laiche sorte a fini di penitenza e assistenza) sono sempre più spesso in volgare. Le confraternite di Laudesi, diffusesi a partire dalla Toscana (probabilmente da Siena) nella seconda metà del Duecento, sono all’origine della fortuna della lauda-ballata (➔ ballata), che – grazie anche al contributo di poeti come Garzo e Jacopone da Todi – si propagò in tutta Italia nel Trecento e nel Quattrocento. Sotto la spinta degli ordini mendicanti, molti religiosi non solo predicano in volgare, come era già l’abitudine, ma anche preparano le loro prediche direttamente in volgare (➔ predicazione e lingua). Le più importanti raccolte di prediche in volgare sono quelle del domenicano Giordano da Pisa (circa 1260-1311) e quelle del francescano Bernardino da Siena (1380-1444), che ci sono giunte in trascrizioni a opera di fedeli.
Non si hanno testimonianze di come i predicatori itineranti, originari di varie parti d’Italia, si adattassero ad ambienti linguistici diversi. Sembra tuttavia che il rapporto orizzontale (cioè in sostanza paritetico) tra i diversi volgari (e poi tra i dialetti) non creasse particolari problemi. Probabilmente chi parlava adattava parzialmente la propria lingua ad alcuni tratti di quella d’arrivo, ma soprattutto chi ascoltava trasformava mentalmente alcuni fonemi e morfemi in quelli propri, come facevano, mutatis mutandis, i copisti che, per es., copiando un manoscritto siciliano in toscano, lo toscanizzavano, o, copiando dal fiorentino al veneziano, lo venezianizzavano. I rapporti tra i volgari, in altre parole, non erano conflittuali, e i parlanti erano portati a diminuirne le differenze.
Nel corso del Duecento e più nel Trecento, il volgare strappa gradualmente delle posizioni al latino in molti generi letterari e non letterari, come nell’agiografia, la letteratura didattica e allegorica, l’epistolografia, la cronachistica e la memorialistica, la prosa scientifica, le scritture esposte (iscrizioni epigrafiche, testi inseriti in dipinti), senza mai, tuttavia, sostituirlo del tutto (➔ Duecento e Trecento, lingua del).
A parte va considerato il caso della poesia lirica, che è un fenomeno nuovo in cui il volgare, questa volta, non prende il posto del latino. La produzione lirica, benché sia limitata almeno inizialmente ad ambienti ristretti, ha una grandissima importanza per lo sviluppo del volgare in Italia. Nel caso della lirica della ➔ Scuola poetica siciliana non c’è sostituzione del latino con il volgare, ma si passa da un volgare straniero, il provenzale (in cui avevano effettivamente poetato diversi italiani, dal mantovano Sordello da Goito, ai genovesi Bonifacio Calvo e Lanfranco Cigala, al veneziano Bartolomeo Zorzi, al bolognese Rambertino Buvalelli), a un volgare italiano, il siciliano. Successivamente il toscano si sostituì al siciliano come lingua della lirica, e si impose via via in tutta Italia anche nelle altre forme di scrittura letteraria, e poi anche non letteraria, e, infine, come lingua d’Italia senza limitazioni.
Nella gran parte d’Italia, l’uso scritto non sporadico del volgare nativo comincia nel Duecento, con quasi un secolo di ritardo rispetto alle aree romanze più precoci, quelle della Francia del Nord e della Provenza. I documenti volgari conservati precedenti al Duecento sono molto pochi (➔ origini, lingua delle), e riflettono un uso ancora molto limitato, anche se ci sono state certamente molte perdite casuali; si moltiplicano invece nel corso del Duecento (dopo il 1230-1240) e ancora di più nel Trecento.
L’entità della documentazione in volgare varia di molto da centro a centro. Sulla base di due variabili, ossia la precocità e la frequenza delle testimonianze, si possono suddividere approssimativamente i centri di produzione di testi volgari in quattro categorie:
(a) centri in cui le testimonianze appaiono precocemente (XIII sec.) e si infittiscono progressivamente nei secoli successivi: Venezia, Padova e Verona; Mantova; Bologna; Firenze con tutti i centri della Toscana; Città di Castello, Foligno; Macerata; la Sicilia;
(b) centri in cui una tradizione scrittoria in volgare emerge più tardi (XIV sec.), ma si consolida rapidamente: Genova; Treviso; il Friuli (Cividale, Gemona e Udine); Modena; Perugia e altri centri dell’Umbria come Assisi, Gubbio e Orvieto; Napoli; il Salento (in cui è documentata una ➔ scripta volgare in caratteri greci);
(c) centri in cui le testimonianze in volgare sono precoci (XIII sec.), in alcuni casi precocissime (XII sec.), ma permangono sporadiche fino almeno alla fine del XIV secolo: Savona; Milano, Bergamo e Cremona; Belluno; Piacenza; Roma e Viterbo;
(d) centri in cui le testimonianze volgari sono sporadiche fino almeno alla fine del XIV secolo: Piemonte; Como, Brescia, Lodi e Pavia; Trentino; Vicenza; Parma, Reggio nell’Emilia e Ferrara; Urbino e Ascoli Piceno; Rieti; L’Aquila.
Come si vede, non tutti i maggiori centri italiani compaiono in queste serie. Ciò può dipendere o da perdite particolarmente gravi di documenti, o dalla circostanza che un’area è rimasta particolarmente fedele al latino e chiusa al volgare, o infine dal fatto che si è sviluppata culturalmente e qualche volta anche socialmente, economicamente e perfino demograficamente solo più tardi.
Un caso a parte è rappresentato dalle grandi fondazioni abbaziali (Montecassino, Farfa) e dalle loro ramificazioni nell’Italia mediana (Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo e Molise), in cui l’uso del volgare è molto antico (Placiti capuani, Montecassino, 960) e prosegue con una certa frequenza fino al XIII secolo, quando, con l’ascesa del francescanesimo, l’importanza del monachesimo benedettino si ridimensiona.
I volgari d’Italia non si presentano sempre in una veste linguistica pura. In molti casi i testi esibiscono una lingua composta di tratti di aree diverse, ora vicine, ora anche lontane. Il fatto è dovuto prevalentemente alla copiatura di manoscritti che viaggiavano di mano in mano in varie parti d’Italia. Un esempio estremo è quello della lirica siciliana della corte di Federico II, che è pervenuta praticamente tutta in veste siculo-toscana. In uno dei più antichi manoscritti della Commedia di ➔ Dante, l’Urbinate latino 366 della Biblioteca Apostolica Vaticana, sul fiorentino originario si è depositata una spessa patina emiliano-romagnola. Gli esempi si potrebbero moltiplicare.
Capita, inoltre, con una certa frequenza che importanti testi non siano localizzabili con precisione: i cosiddetti Sermoni subalpini (XIII sec.), considerati piemontesi, sono redatti in realtà in un volgare che, accanto al piemontese, contiene numerosi tratti francesi e provenzali. La loro localizzazione è dunque problematica. Secondo Gasca Queirazza (1996) potrebbero essere stati composti in Alta Val di Susa, al confine tra il dominio linguistico piemontese e l’area occitanica.
L’uso del volgare nell’amministrazione si impone precocemente nelle repubbliche di Venezia e di Genova, senza escludere naturalmente il latino: a Venezia è attestato già dalla fine del XIII secolo e si intensifica nel corso dei secoli XIV e XV; a Genova i testi cancellereschi in volgare cominciano nel terzo quarto del XIV secolo e si infittiscono verso la fine del secondo quarto del Quattrocento.
Tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento il volgare comincia ad essere impiegato accanto al latino dagli apparati esecutivi di alcune delle più importanti signorie dell’Italia centro-settentrionale e di lì a poco viene adottato anche nella corrispondenza diplomatica a Urbino (dal 1378), a Mantova (dal 1401) a Milano (dal 1438), a Ferrara (dal 1445). Tale uso tende a generalizzarsi verso la metà del Quattrocento. La lingua di queste scritture risulta fin dall’inizio depurata dei tratti municipali più marcati e appare orientata verso forme di ➔ koinè interregionale, che risente più dell’esempio del latino umanistico che della norma toscana trecentesca (Breschi 1986: 179-182; Tavoni 1992: 47-55) L’influsso della lingua letteraria volgare su quella amministrativa, inizialmente contenuto, aumenta nella seconda metà del XV secolo. Particolarmente importante è il volgare in uso presso la corte estense di Ferrara, che divenne strumento di espressione artistica nelle opere di ➔ Matteo Maria Boiardo.
L’uso del volgare nella corrispondenza ufficiale è documentato precocemente anche in alcune lettere della corte angioina di Napoli (1356). La prassi resta saltuaria fino all’avvento della dinastia aragonese (1442), che fece uso nella cancelleria – oltre che del latino e del catalano – di un volgare ricco ancora di tratti locali, ma aperto a ➔ latinismi e influssi toscani.
L’esistenza di queste lingue di koinè, usate nelle scritture amministrative e diplomatiche (e qualche volta anche nella letteratura), ma non così lontane dalle varietà effettivamente parlate nelle corti, indusse alcuni letterati del Cinquecento a proporre la cosiddetta lingua cortigiana come lingua letteraria comune d’Italia, in alternativa al modello toscano (➔ cortigiana, lingua).
La Sardegna costituisce un caso unico in Italia e nel dominio romanzo più in generale. Il latino vi era usato molto sporadicamente, e appare invece precocemente il volgare locale sardo. I più antichi testi pratici, le cosiddette carte (documenti giuridici redatti nelle cancellerie dei sovrani che governavano l’isola, i giudici), cominciano ad essere redatti interamente in sardo già alla fine dell’XI secolo, e si moltiplicano nei secoli successivi. Un po’ più tardi (XII sec.), ma sempre precoci rispetto al resto d’Italia, sono i primi condaghi (sing. condaghe), registri in cui venivano trascritti gli atti giuridici relativi a comunità religiose. Alla diffusione del sardo in ambito documentario, però, non corrispose – come invece nel resto d’Italia – lo sviluppo di una letteratura scritta in volgare (Merci 1982).
La Scuola poetica siciliana fiorisce alla corte itinerante di Federico II di Svevia tra il 1230 e il 1250, a opera di un gruppo di rimatori originari della Sicilia e del Meridione d’Italia (ma c’era probabilmente anche un toscano, Paganino). La lingua usata da tutti è un siciliano non localizzato in nessun centro preciso dell’isola, nobilitato dal provenzale, da cui i poeti traevano il modello letterario per la loro produzione. La ➔ rima, in particolare, riflette il sistema vocalico del siciliano antico (conservato nel dialetto moderno), smentendo ogni ipotesi alternativa a quella della sicilianità originaria dei testi. La produzione della Scuola siciliana è circolata sostanzialmente in copie toscane, in cui la lingua era stata decisamente toscanizzata, anche se con resti visibili del siciliano originario.
La Scuola siciliana ha una prosecuzione nei cosiddetti rimatori siculo-toscani (seconda metà del Duecento). Nella loro produzione l’impronta siciliana della prima lirica volgare è mantenuta, e la lingua delle loro poesie è simile a quella delle copie toscane della prima Scuola (Coluccia 2008).
Una pausa di settant’anni segna il distacco tra questo primo episodio e un uso stabile, questa volta alternato a quello del latino, del volgare siciliano. Non si tratta più di poesia, ma di testi amministrativi, compresi quelli del Regnum Siciliae, in volgare palermitano, conservati dal 1320 in poi (Rinaldi 2005: vol. 1°, XIV) e diventati nel tempo sempre più numerosi. La cancelleria regia di Palermo scriveva generalmente in latino, ma non mancano casi in cui usava il volgare. Nel Trecento la cultura alta si sviluppa in latino nei centri di Palermo, Catania e Messina, ma dopo il 1320 (circa nello stesso periodo in cui appaiono i primi testi documentari) sono prodotte anche delle grandi traduzioni in prosa siciliana di carattere sia religioso (San Gregorio di Giovanni Campoli da Messina) che laico (La istoria di Eneas, tradotta dal toscano da Angilu di Capua, messinese; Libru di Valeriu Maximu, volgarizzato da Accursio di Cremona).
Nella storiografia, il siciliano (Historia sicula, 1293) si affianca al latino scritto precedentemente, ma anche posteriormente. Durante il Trecento si compongono in volgare siciliano statuti, opere religiose originali in versi e in prosa, anche di notevole estensione.
Non potendo passare in rassegna tutti i volgari medievali d’Italia, ci si limita a trattarne sommariamente tre (quelli di Bologna, di Venezia e di Roma). Si tralascia di parlare qui del volgare toscano e di quello fiorentino in particolare, che diventerà quello che verrà chiamato italiano (➔ italiano antico).
A Bologna la precoce circolazione della poesia siculo-toscana, testimoniata dagli inserti inclusi nei Memoriali bolognesi a partire dal 1286, porta alla rapida affermazione in ambito lirico di una lingua ibrida, in cui convivono tratti locali ed elementi di ascendenza letteraria, siciliani e toscani (Stella 1994; Gasca Queirazza 1995). Tra i poeti che se ne servono c’è Guido Guinizzelli (1230-1276), importante per la formazione di Dante, e quindi per il destino della lirica e della letteratura italiana successive.
Parallelamente a questa tradizione poetica alta, è documentata l’esistenza di una produzione locale che comprende componimenti religiosi (tra cui l’arcaica Lauda dei servi di Maria, XIII sec.), testi di argomento civile (Serventese dei Lambertazzi e dei Geremei, probabilmente del 1280), poesie di tono popolareggiante e giullaresco (ballate in stile «comico» e «canzoni di donna» dei Memoriali bolognesi, fine del XIII - inizio del XIV sec.). Un precoce ma isolato esempio di uso del volgare nella prosa è costituito dalla tardo-duecentesca o primo-trecentesca Vita di San Petronio. Nel Trecento il volgare si afferma anche nelle cronache.
Bologna, con la sua università, era il centro più importante d’Italia per la cultura latina, soprattutto giuridica, e le più antiche scritture volgari nascono dal seno stesso della cultura universitaria. Guido Faba, professore presso lo Studio bolognese, attua precocemente il tentativo di estendere al volgare i precetti della retorica latina. All’interno di un trattato di dictamen in latino, la Gemma purpurea (1239/1248), Guido Faba inserisce quindici formule in volgare modellate secondo i precetti dell’epistolografia latina, e in un manuale di eloquenza latino, i Parlamenta et epistole (1243 circa), presenta anche dei modelli di discorso in volgare. Interamente in volgare sono le Arringhe del notaio Matteo dei Libri, un trattato di oratoria pubblica redatto nella seconda metà del XIII secolo. In queste opere il volgare appare fortemente influenzato dal latino (e nelle Arringhe, anche dal toscano) e si presenta privo dei caratteri municipali più marcati.
Per il resto, in testi pratici e documentari il volgare comincia ad essere usato nel terzo quarto del XIII secolo e guadagna spazio nel corso del secolo successivo. Verso la metà del Trecento compaiono anche le prime scritture pubbliche in volgare.
La produzione in volgare del Veneto è la più ricca della penisola dopo quella toscana, e fiorisce in diversi centri importanti, soprattutto a Verona e a Padova. Il primo posto tocca però a Venezia, dove una tradizione scrittoria in ambito documentario si afferma molto presto (Pellegrini & Stussi 1976; Tomasoni 1994; Stussi 1995b).
Le attestazioni, ancora sporadiche nella prima metà del Duecento, si fanno più frequenti a partire dalla metà del secolo, aumentano notevolmente alla fine del Duecento e si infittiscono nel corso del XIV e XV secolo (Stussi 1965). Un po’ più tarda (XV sec., con alcune anticipazioni nei due secoli precedenti) è l’affermazione del veneziano nell’uso cancelleresco (Tomasin 2001), dove il latino prevale peraltro fino al XVI secolo. I caratteri più schiettamente locali della scripta vanno attenuandosi soprattutto dal XV secolo sotto la spinta congiunta di latino e toscano. I primi esempi letterari (XII-XIII secc.) sono i testi trasmessi dal ms. Hamilton 390 (Proverbia quae dicuntur super natura feminarum, volgarizzamenti dei Disticha Catonis e del Pamphilus de amore), che tradizionalmente vengono assegnati a Venezia, ma che presentano una veste linguistica piuttosto ibrida (Stussi 1995a: 791-798). La produzione letteraria è abbondante nei secoli seguenti, anche se sempre più influenzata dal modello toscano, che a Venezia è già riflesso nell’opera poetica di Giovanni Quirini (1295 - 1333 circa). Nella prima metà del Quattrocento la poesia lirica raggiunge uno dei suoi vertici con Leonardo Giustinian (1385 circa - 1446), autore di poesia religiosa e amorosa. Le sue canzonette e strambotti in veneziano, destinati all’esecuzione musicale, hanno grandissima fortuna anche al di fuori di Venezia e dell’Italia settentrionale (Balduino 1980: 304-325).
Come esempio di veneziano antico si riportano alcuni versi (2797-2802) della Legenda de Santo Stadi (cioè sant’Eustachio), un poemetto agiografico composto da Franceschino Grioni nel 1321:
Madonna, quel Dio te sostegna,
che tu as dito, e mantenga
en alegreça et in paxe.
Or[a] ne di’ ço che te plaxe,
che nui faremo tuto a plen
lo to voller, s’ell’è de ben
(F. Grioni, La legenda de Santo Stadi, p. 101)
A livello fonetico si segnalano: la metafonesi (➔ metafonia) in nui < /ˈnoi/ < nos; la conservazione di /e/ atona in te «ti» ed en «in», mentre il fiorentino presenta l’innalzamento a /i/; l’apocope di /e/ finale dopo /n/ e /r/ (ben, voller «volere») e di /o/ finale dopo /n/ (plen); l’esito /ʧ/ > /z/ (grafia x) in contesto intervocalico in paxe < pacem, plaxe < placet; l’evoluzione /ʧ/ > /ʦ/ a inizio di parola (e più in generale in contesto non intervocalico) in ço < (ec)ce hoc; la conservazione del nesso latino /pl/ in plaxe, plen; lo scempiamento della consonante geminata in alegreça, dito, tuto (il raddoppiamento in Madonna, voller ell’è sarà soltanto grafico); la conservazione di /i/ di dito «detto». A livello morfologico: la conservazione di -s latina in as < habes; i congiuntivi sostegna e mantegna, regolari continuazioni di sustinĕat e manutenĕat; la forma proclitica del possessivo to (lo to voller); l’uso della forma originaria dell’articolo lo < (il)lum in contesto postconsonantico (plen / lo to voller). A livello sintattico, la presenza del pronome personale nella subordinata s’ell’è de ben.
A Roma l’emersione del volgare è antichissima (D’Achille & Giovanardi 1984; De Mauro 1989; Trifone 1992). Il Graffito della Catacomba di Commodilla (prima metà del IX sec.) e l’Iscrizione di San Clemente (fine dell’XI sec.) costituiscono due tra i più antichi testi volgari d’Italia e, più in generale, del dominio romanzo. A tale precoce fioritura non corrisponde però nei secoli successivi l’affermarsi di una consolidata tradizione scrittoria.
I pochi testi in volgare prodotti nel Duecento e nel Trecento sono perlopiù prose di carattere storico-letterario: si tratta dei volgarizzamenti (➔ volgarizzamenti, lingua dei) delle Storie de Troja et de Roma e delle Miracole de Roma del XIII secolo, e della celebre Cronica dell’Anonimo Romano del XIV secolo. Se si eccettuano alcuni testi poetici religiosi tardo-trecenteschi, in poesia l’uso del romanesco appare limitato ai componimenti del poeta ebreo Immanuel Romano (1265 circa - 1350), che comunque presentano una veste linguistica già notevolmente toscanizzata (➔ giudeo-italiano). Si devono attendere gli ultimi decenni del Trecento perché il volgare incominci ad essere usato in testi documentari e nelle scritture esposte. Nel corso del Quattrocento la produzione in volgare romanesco aumenta rapidamente in tutti gli ambiti. La politica culturale della Curia pontificia, nel momento in cui, nel corso del Quattrocento, si orienta verso una prospettiva politica italiana, favorisce l’adeguamento della varietà scritta ufficiale alla norma linguistica toscana. Le scritture popolari o popolareggianti conservano invece in misura maggiore quei tratti linguistici centro-meridionali che originariamente accomunavano il romanesco alle varietà vicine. Nei primi decenni del Cinquecento, l’influsso del modello linguistico promosso dalla corte pontificia, e soprattutto la massiccia immigrazione a Roma di popolazione proveniente dalla Toscana e dall’Italia settentrionale, avrebbero portato alla toscanizzazione anche della lingua parlata dalle classi medio-basse (Ernst 1970).
La lingua della Cronica rappresenta un esempio significativo di volgare romanesco anteriore al processo di toscanizzazione:
Ora prenne audacia Cola de Rienzi, benché non senza paura, a vaone una collo vicario dello papa, e sallìo lo palazzo de Campituoglio anno Domini MCCCXLVII. Aveva in sio sussidio forza da ciento uomini armati. Adunata grannissima moitudine de iente, sallìo in parlatorio, e sì parlao e fece una bellissima diceria della miseria e della servitute dello puopolo de Roma. Puoi disse ca esso per amore dello papa e per salvezza dello puopolo de Roma esponeva soa perzona in pericolo. Puoi fece leiere una carta nella quale erano li ordinamenti dello buono stato (Anonimo Romano, Cronica, cap. 18, pp. 154-155)
Tra i fenomeni più notevoli, segnaliamo: il dittongamento metafonetico (➔ dittongo) di ĕ e ŏ per effetto di -ī e -ŭ finali in ciento, Campituoglio, puopolo, uomini, puoi; il mancato innalzamento di /e/ atona a /i/ in de; il passaggio di g davanti a vocale anteriore a /j/: gentem > iente; legĕre > leiere; l’esito -nd- > /nː/: prenne, grannissima; il passaggio di /s/ a /ʦ/ dopo liquida: perzona; la conservazione dell’occlusiva sorda intervocalica /t/: Campituoglio, servitute; il passaggio di /l/ preconsonantica a /i̯/: moitudine; gli articoli lo < (il)lum e li < (il)li; la terza persona singolare in -ao (vaone «ne va»); il perfetto in -ao < -au(it) (parlao), e la forma analogica sallìo; il possessivo maschile sio, analogico su mio; il complementatore ca, continuatore di quia.
La fioritura scritta dei volgari si indebolisce e comincia a tramontare nel corso del Quattrocento. Da un lato, con l’Umanesimo, una parte della produzione letteraria torna, per qualche tempo, ad essere scritta in latino. Ma soprattutto comincia a imporsi in tutta Italia il fiorentino, sia nell’espressione letteraria che nell’attività amministrativa delle signorie d’Italia.
La diffusione di una lingua letteraria di base toscana era cominciata già attorno alla fine del XIII secolo a Bologna; nel secolo successivo i principali poli di irradiazione furono le città del Veneto (Venezia, Treviso, Padova) e la corte dei Visconti a Milano. Nel 1332 il metricologo e poeta padovano Antonio da Tempo dichiara la lingua tusca, cioè il toscano, magis apta [...] ad literam sive literaturam quam aliae linguae «più adatta all’espressione scritta e alla letteratura delle altre lingue». Sempre nel Trecento, il modello fiorentino si diffonde anche in centri dell’Italia centrale e meridionale come Perugia e Napoli. Il processo di unificazione della lingua letteraria, anzitutto poetica, procede – anche se con esitazioni e regressioni – nel Quattrocento, accelerando alla fine del secolo, grazie soprattutto all’affermarsi del petrarchismo.
Più tarda è l’adozione del toscano nella lingua amministrativa. La prima corte che adotta il fiorentino trecentesco come modello, oltre che nella letteratura, anche nella prassi cancelleresca, è quella di Ludovico il Moro, signore di Milano tra il 1480 e il 1499 (Vitale 1988).
Le lingue in uso nelle corti d’Italia tra Quattrocento e Cinquecento avevano abbandonato i tratti dialettali più evidenti, ma facevano pur sempre concessioni nella fonetica e nella morfologia ai volgari locali. Il successo della proposta arcaizzante di ➔ Pietro Bembo, che appoggiava la lingua letteraria all’uso degli autori fiorentini del Trecento, soprattutto ➔ Francesco Petrarca e ➔ Giovanni Boccaccio, spezza il filo che le lingue cortigiane mantenevano con la lingua parlata, e dunque anche con i volgari locali.
Nell’ambito cancelleresco, amministrativo, giuridico, ecc., l’uso dell’italiano-fiorentino restava basato su conoscenze approssimative e condizionato dal volgare locale più a lungo di quanto accada nella lingua letteraria. Così, per es., le relazioni degli ambasciatori veneziani al Senato della Serenissima all’inizio del XVI secolo appaiono scritte in un volgare sostanzialmente toscano, cioè italiano, ma che conserva ancora elementi fonologici, morfologici e lessicali veneziani. Questo genere di lingua è chiamata spesso tosco-veneto. Nei decenni successivi i tratti locali vennero progressivamente abbandonati, e si giunse entro la fine del secolo a una pressoché completa toscanizzazione (Durante 1981: 163-164; Tomasin 2001: 158-164). L’adozione del modello toscano nel secondo Cinquecento e nel Seicento è un fenomeno che riguarda più in generale la lingua degli scriventi colti di tutta Italia. Da questo termine in avanti solo le scritture dei semicolti (➔ italiano popolare) presentano fenomeni di ibridismo tra la norma scritta nazionale, l’italiano, e la lingua parlata locale, il dialetto (Bartoli Langeli 2000).
Anonimo Romano (1981), Cronica, a cura di G. Porta, Milano, Adelphi.
Grioni, Franceschino (2009), La legenda de santo Stadi, a cura di M. Badas, Roma - Padova, Antenore.
Alinei, Mario (1984), “Dialetto”: un concetto rinascimentale fiorentino, in Id., Lingua e dialetti. Struttura, storia e geografia, Bologna, il Mulino, pp. 169-199 (già in «Quaderni di semantica» 2, 1981, pp. 169-199).
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