Volontariato
di Marco Vitale
SOMMARIO: 1. Volontariato: natura, funzioni, dimensioni. ▭ 2. Volontariato e settore non profit: convergenze e divergenze. ▭ 3. Il non profit italiano al bivio; il ruolo del volontariato. ▭ Bibliografia.
1. Volontariato: natura, funzioni, dimensioni.
Con il termine volontariato si intende quell'insieme di attività, svolte per libera scelta e gratuitamente, finalizzate a obiettivi sociali e culturali in favore degli altri e/o della collettività. I tre elementi tradizionalmente considerati a fondamento del volontariato sono dunque: spontaneità della scelta, gratuità delle prestazioni, beneficio arrecato ad altri. Questa definizione tradizionale è considerata insoddisfacente da alcuni studiosi contemporanei che hanno dedicato un'approfondita attenzione alla materia, come Stefano Zamagni, il quale sottolinea la necessità di identificare la caratteristica che "differenzia l'azione autenticamente volontaria, tipica delle organizzazioni di volontariato, dalla beneficenza privata, tipica della filantropia. Infatti, la forza del dono gratuito non sta nella cosa donata o nel quantum donato (così è invece nella filantropia, tanto è vero che esistono le graduatorie o le classifiche di merito filantropiche), ma nella speciale qualità umana che il dono rappresenta per il fatto di costituire una relazione tra persone" (v. Zamagni, Senza interesse…, 2002, p. 30). La specificità del volontariato e di una organizzazione di volontariato starebbe, dunque, nella costruzione di nessi e relazionalità fra persone: "Laddove l'organizzazione filantropica fa per gli altri, l'organizzazione di volontariato fa con gli altri" (ibid.).
Questa posizione è condivisibile, e rappresenta un serio e utile approfondimento del concetto di volontariato, anche se alcune conseguenze estreme che vengono tratte da questa premessa non sono altrettanto condivisibili. Essa non contrasta, ma anzi integra utilmente la definizione data dal nostro legislatore nella legge-quadro sul volontariato dell'11 agosto 1991, n. 266, che nei primi articoli recita: "La Repubblica Italiana riconosce il valore sociale e la funzione dell'attività di volontariato come espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo, ne promuove lo sviluppo salvaguardandone l'autonomia e ne favorisce l'apporto originale per il conseguimento delle finalità di carattere sociale, civile e culturale individuate dallo Stato, dalle regioni, dalle province autonome di Trento e Bolzano e dagli enti locali" (art. 1, 1); "Ai fini della presente legge per attività di volontariato deve intendersi quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l'organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà" (art. 2, 1); "È considerato organizzazione di volontariato ogni organismo liberamente costituito al fine di svolgere l'attività di cui all'art. 2, che si avvalga in modo determinante e prevalente delle prestazioni personali, volontarie e gratuite dei propri aderenti" (art. 3, 1).
In poche righe i tre commi citati riassumono efficacemente cosa rappresenti il volontariato per il nostro Stato, cosa debba intendersi per attività di volontariato e come debba svolgersi.
Il volontariato è una scelta personale che ha le sue radici nella morale, nella visione della vita, nel desiderio di arricchire il mondo relazionale di ogni singola persona. Ma, nell'insieme, queste scelte hanno un rilevante impatto sull'organizzazione e sul funzionamento della società. Per questa ragione sono oggetto di studio da parte di sociologi ed economisti, e non solo di teologi, moralisti e psicologi. La presenza e l'azione del volontariato contribuiscono infatti, e in modo determinante, alla generazione di quell'insieme di relazioni, valori, comportamenti, conoscenze, attività associative designato con l'espressione 'capitale sociale' (social capital), il quale è ormai diventato la vera risorsa scarsa nelle società avanzate (per una storia e definizione del concetto di capitale sociale, v. Putnam, 2002). Presenze e azioni come quelle del volontariato sociale, culturale e civico rappresentano, insieme ad altre, antidoti contro gli eccessi di individualismo, competizione, isolamento, egoismo che i nostri meccanismi di gestione e selezione economica comportano.
Il complesso di realtà e azioni comprese nell'espressione capitale sociale è più ricco e articolato rispetto al puro volontariato in senso stretto, ma il contributo di quest'ultimo allo spessore e alla qualità del capitale sociale è essenziale. Esistono ormai molti studi che pongono in luce strette relazioni tra un elevato livello di capitale sociale e le performances, anche economiche, di una collettività. In questo senso, Robert D. Putnam scrive: "Studi dalla Tanzania, allo Sri Lanka all'Italia hanno riscontrato che lo sviluppo economico può, in determinate circostanze, essere sostenuto e alimentato da un adeguato livello di capitale sociale" (ibid., p. 6). Sono queste esperienze e questi studi che hanno fatto pronunciare al premier inglese Tony Blair - presentando, nell'ottobre del 2002, il risultato di uno studio approfondito avviato dal suo governo il 3 luglio 2001 su charities and wider notforprofit sector (http://www.strategy-unit.gov.uk) - queste parole: "nel mondo moderno è semplicemente impossibile avere una società e un'economia dinamica e vibrante, senza un settore del volontariato dinamico e vibrante". E probabilmente le stesse esperienze e studi hanno spinto il segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, a dichiarare alla 56a Assemblea generale (5 dicembre 2001) che "il volontariato contribuisce alla formazione del prodotto nazionale lordo".
Tali asserzioni sono respinte con vigore da Zamagni, alla luce della sua impostazione sopra ricordata: secondo Zamagni, infatti, il volontariato deve certamente mantenere rapporti di "buon vicinato" con i vari soggetti dell'economia sociale e dell'economia civile, ma al tempo stesso deve da questi differenziarsi. E dunque quando Kofi Annan dichiara che "il volontariato contribuisce alla formazione del prodotto nazionale lordo", dice cose fuorvianti da cui può discendere un solo esito certo: quello di annientare la fisionomia propria del volontariato e decretarne una lenta eutanasia (v. Zamagni, Senza interesse…, 2002, p. 31).
Queste conclusioni, per quanto comprensibili nella loro motivazione, non sono accettabili nei termini radicali in cui vengono formulate. Ferma e condivisa l'esigenza di differenziazione, fermo e condiviso il fatto che l'obiettivo - esplicito o implicito - del volontariato non è quello di contribuire alla crescita del prodotto nazionale lordo (sostituendosi a costi più bassi e con maggiore efficienza allo Stato), ma di creare nuove e più umane relazioni tra gli uomini, resta il fatto che studi su periodi storici del passato e analisi socio-economiche contemporanee su vaste aree del mondo dimostrano inequivocabilmente che nuove e più umane relazioni tra gli uomini e un più elevato livello di capitale sociale contribuiscono anche allo sviluppo economico. Vi è una contraddizione tra l'affermare che il capitale sociale giova al tessuto socio-economico e che il volontariato rappresenta una componente determinante del capitale sociale, e il rifiutare, per principio, un contributo, sia pure indiretto, del volontariato alla formazione del prodotto nazionale lordo, o addirittura vedere in ciò una minaccia per il volontariato stesso.
Il volontariato 'può' essere ascetico, ma non 'deve' esserlo. Non può non 'contaminarsi' e non collaborare con tutti gli altri settori della società che operano per renderla più giusta e più civile. Non può porsi in una sorta di sublime isolamento, alimentato da un'antica tradizione cattolica che vede nel denaro 'lo sterco del demonio' e che ha portato, troppo a lungo, componenti importanti della Chiesa a far coincidere l"opzione per i poveri' con l"opzione per la povertà'. Il volontariato moderno porta con sé l'opzione per i poveri e per i diseredati della Terra (e non per niente tante sue componenti determinanti sono cristiane e cattoliche), ma rifiuta l'opzione per la povertà che, anche con la sua azione, vuole combattere.
Fissate così la natura, la specificità e le funzioni del volontariato, ci resta qualcosa da dire sulle sue dimensioni. Ma questo esame può essere condotto solo inserendo il volontariato nel più ampio settore denominato non profit, al quale esso, come illustreremo nel capitolo successivo, è strettamente legato.
Il 3 agosto 2001 l'ISTAT ha reso noti i risultati della prima rilevazione censuaria sulle istituzioni e sulle imprese non profit attive in Italia al 31 dicembre 1999. La nozione di istituzione non profit accolta nella rilevazione è quella desunta dalla definizione adottata dalle Nazioni Unite e dai principali organismi statistici internazionali nel Manuale dei conti economici nazionali. Secondo tale definizione le istituzioni non profit sono "enti giuridici o sociali creati allo scopo di produrre beni e servizi il cui status non permette loro di essere fonte di reddito, profitto o altro guadagno finanziario per le unità che le costituiscono, controllano e finanziano". Anche se, come tutte le prime rilevazioni, necessiterà di approfondimenti, raffinamenti e arricchimenti, la rilevazione ISTAT è un contributo prezioso per tutti coloro che si interessano di questi problemi. Nel complesso, dal grande affresco tracciato dall'ISTAT, le istituzioni non profit italiane emergono come un insieme diversificato, in gran parte costituito da piccole unità poco visibili (domiciliate presso famiglie, ospedali, comuni e altri enti), insieme a istituzioni di grandi dimensioni, con un numero rilevante di addetti, bilanci consistenti, strutture organizzative complesse. In totale le istituzioni non profit sono 221.412 (pari a 38 enti ogni 10.000 abitanti - nel Regno Unito sono 600.000), la metà delle quali è localizzata nell'Italia settentrionale; i due terzi circa svolgono la loro attività prevalentemente nei settori della cultura, dello sport e della ricreazione. In totale occupano 630.000 lavoratori retribuiti, una quota di occupazione rilevante anche ai fini dei conti economici nazionali. A questi vanno ad aggiungersi 3,2 milioni di volontari, 96.000 religiosi e 28.000 obiettori di coscienza. I volontari, dunque, costituiscono una presenza assai importante, portando il loro contributo e la loro testimonianza nel sempre più articolato e complesso mondo del non profit: nelle fondazioni, nelle ONLUS (Organizzazioni Non Lucrative di Utilità Sociale), nelle cooperative sociali, nelle imprese sociali, nelle ONG (Organizzazioni Non Governative).
Ma, ultimamente, si sono levate voci preoccupate sulla tenuta di questa presenza. Nella relazione presentata al convegno su "L'Osservatorio sulle risorse umane del non profit" (CNEL, Roma, 6 maggio 2002), Renato Frisanco ha infatti rilevato che le organizzazioni di volontariato composte da soli volontari sono passate dal 34% del 1992 al 21,7% del 2000 e che quelle dotate di personale remunerato, che nel 1997 rappresentavano il 12,3% del totale, hanno raggiunto nel 2000 il 21,2% del totale. Anche Enrico Finzi (v., 2002) ha sottolineato come le rilevazioni Astrea Demoskopea evidenzino una crisi numerica e motivazionale del volontariato a partire dal 2001; la loro stima è infatti di una diminuzione del 15% in Italia, concentrata tra i giovani, tra il 2000 e il 2001.
Anche se si tratta di dati che richiedono ulteriori approfondimenti e verifiche nel tempo, essi sono sufficienti per aprire, come è avvenuto, una franca e allarmata discussione su convergenze e divergenze tra volontariato e settore del non profit.
2. Volontariato e settore non profit: convergenze e divergenze.
Per capire il momento presente, è indispensabile un cenno, sia pur breve, alla storia più recente del non profit (per un approfondimento in merito, v. Speranzini, 2002).
Il principio di sussidiarietà orizzontale era contenuto in un ordine del giorno presentato alla Ia sottocommissione dell'Assemblea Costituente da Giuseppe Dossetti, nel settembre 1946. Secondo questa proposta, nel quadro di un pluralismo ordinato che andava dalla famiglia allo Stato, le formazioni sociali di più ampie dimensioni sarebbero dovute intervenire solo per lo svolgimento dei compiti ai quali i gruppi sociali minori non erano in grado di provvedere. Il principio di sussidiarietà orizzontale rimase escluso dall'art. 2 della Costituzione, che affidò in sostanza (salvo il principio di libertà d'associazione dell'art. 18) l'intera rappresentanza sociale a partiti e sindacati. Lo sviluppo storico dell'economia sociale degli ultimi 50 anni è stato perciò affidato in modo pressoché esclusivo alla regolazione pubblica, con lo Stato sostanzialmente unico finanziatore e gestore dei servizi di assistenza sociale. Tale scelta costituzionale spiega perché il settore non profit e il volontariato abbiano avuto, a lungo, una funzione residuale e modestissima. Secondo la rilevazione ISTAT, la quota delle istituzioni sorte prima degli anni settanta e attualmente operative è solo del 10,4%. Nel decennio 1970-1980 si aggiunse un ulteriore, modesto 11,1%. È a partire dal 1981 che si registra una rapida accelerazione: il 23,3% delle attuali istituzioni non profit italiane sorge tra il 1981 e il 1990. Ma è negli anni novanta che avviene l'esplosione: più della metà (55,2%) delle organizzazioni oggi operanti è sorta infatti in questo decennio. Ciò non è frutto di una lungimirante scelta - diversa da quella fatta in sede di Assemblea Costituente - ma, da un lato, di una pressione dal basso, dall'altro, della progressiva crisi del modello del welfare centralistico, crisi connessa a sua volta a quella finanziaria dello Stato, che pertanto affida in misura crescente a soggetti del non profit (sulla base di apposite convenzioni) compiti che non riesce più a svolgere direttamente. E il non profit cresce, avendo come unico o prevalente cliente l'amministrazione pubblica. A ben guardare non siamo di fronte a un ingresso, di fatto, nel nostro ordinamento del principio di sussidiarietà orizzontale. Anzi, siamo di fronte al suo autentico rovesciamento: siamo al principio di surrogazione. Il non profit e/o le organizzazioni del volontariato surrogano l'amministrazione pubblica, dietro pagamento da parte della stessa, per servizi che da essa vengono esternalizzati. Questa tendenza sostiene la crescita del settore, ma lo rende psicologicamente e culturalmente, oltre che operativamente, sempre più dipendente dall'amministrazione pubblica. Quest'ultima, inoltre, ha finito col diffondere nel settore cattive metodologie amministrative - tipiche dell'amministrazione pubblica - poiché è abbastanza sicuro che il tipo di finanziamento influenza la governance e i metodi gestionali dell'organizzazione non profit. Naturalmente esistono vistose eccezioni, come l'Ospedale San Raffaele di Milano, ente non profit con cliente prevalente lo Stato e che, tuttavia, è riuscito a darsi un'organizzazione di avanguardia. A tale evoluzione corrisponde anche un mutamento delle attività prevalenti del non profit (a tale proposito, v. Maggio, 2002, p. 195): sino all'inizio degli anni novanta, queste restano sostanzialmente di tipo ridistributivo; quindi si trasformano in attività produttive che implicano diversi livelli di complessità organizzativa, diverse interrelazioni tra dipendenti e specialisti professionali e volontari, diverso rapporto tra istituzione e mercato finanziario.
L'evoluzione è intuita più che guidata dal legislatore, che interviene con una serie di provvedimenti non sempre cattivi. Tra i più significativi possiamo ricordare: la legge 266/1991, che disciplina l'attività di volontariato; la legge 381/1991 sulle cooperative sociali, che introduce una nuova figura di ente non profit; la legge 328/2000, che pone l'accento sulle forme di integrazione pubblico/privato; la legge 383/2000, che disciplina una particolare categoria di enti non profit, l'associazionismo; il decreto legislativo n. 460 del 1997, che rappresenta un pessimo riordino, a giudizio di chi scrive, della materia fiscale degli enti che non svolgono attività commerciali e delle ONLUS; la legge costituzionale del 3 ottobre 2001 n. 3 recante modifica al Titolo V della parte seconda della Costituzione, con la quale, finalmente, entra nel nostro ordinamento il principio di sussidiarietà. Purtroppo, ancora una volta, la scelta esclude la sussidiarietà orizzontale e sociale, e include solo la sussidiarietà istituzionale tra enti. Ma l'ingresso del principio di sussidiarietà incomincia a dare dei frutti nella legislazione ordinaria, soprattutto in quella regionale. E infine è opportuno ricordare la proposta di legge pendente sull'impresa sociale.
Questo tumultuoso sviluppo degli anni novanta, sia legislativo che operativo, rende più complesso il rapporto tra non profit e volontariato, nella misura in cui privilegia le organizzazioni di maggiori dimensioni e le entrate di fonte pubblica e non stimola, se anche non scoraggia, le donazioni private.
Alla fine degli anni novanta oltre il 70% delle organizzazioni non profit censite dall'ISTAT registrava entrate complessive annue inferiori ai 50.000 euro, mentre il 9% aveva entrate annue medie superiori a 1.600.000 euro e nell'insieme realizzava l'88% delle entrate complessive del settore. Le organizzazioni con minori entrate erano gestite da una forza lavoro composta al 90% da volontari, mentre le organizzazioni più grandi si basavano su lavoratori retribuiti per oltre l'80% della propria forza lavoro. La dicotomia è forte e marcata, e da essa bisognerà partire per ogni indicazione circa il futuro. Così bisognerà partire dal fatto che, contrariamente a quello che si verifica in momenti di particolare emotività, la propensione degli italiani a donazioni per obiettivi di costruzione del capitale sociale rimane, in questa fase storica, particolarmente bassa: nel 1999 le donazioni effettuate alle organizzazioni non profit italiane raggiungevano la cifra complessiva di circa 1,2 miliardi di euro, a fronte degli 1,3 miliardi del più piccolo Belgio, dei 4,6 della Francia, dei 3,5 della Germania, dei 5,3 della Spagna, dei 7,5 del Regno Unito. Per non parlare dei 164 miliardi di dollari donati dagli statunitensi nel 2001, con una crescita del 50% rispetto ai 110 miliardi di dollari del 1990 e con un trend che porta verso il trilione di dollari per la fine del decennio (ma qui è incluso tutto; anche l'aborrita filantropia).
Mentre sul campo la crescita dimensionale dei soggetti non profit porta a una sempre maggior fusione e confusione tra organizzazione non profit e volontariato, dall'altro la dicotomia fra le forme più proprie dei due settori si rafforza, così come si accentua la differenziazione ideologica. Due citazioni contrapposte saranno più che sufficienti per dare concretezza a questa dicotomia: "Con il mondo del volontariato non abbiamo niente a che fare, anzi il volontariato è un limite allo sviluppo dell'impresa sociale. In sostanza del volontariato non c'è più bisogno" (Sandro Salvato, esponente della cooperazione sociale veneta, in "La Repubblica", 4 maggio 2002); "È necessario fare chiarezza, impedendo che le organizzazioni di volontariato facciano impresa e assumano dipendenti. Insomma tornare insieme a insistere sulla purezza dell'azione volontaria. Una società che abbandona la cultura del dono in nome dell'efficienza perde umanità" (Stefano Zamagni, in "L'Avvenire", 26 giugno 2002). È tra queste due posizioni estreme che bisogna cercare un sentiero stretto che possa portare verso il futuro.
3. Il non profit italiano al bivio; il ruolo del volontariato.
Il non profit è dunque al bivio. E al bivio è il volontariato, così strettamente collegato al non profit da confondersi spesso con esso.
Il bivio fondamentale del non profit è quello tra il ripiegare su una pura funzione di surrogazione del Welfare State e il crescere e consolidarsi come soggetto dell'imprenditoria sociale e civile, capace di stare sul mercato ma senza essere del mercato; capace non soltanto di rispondere a sollecitazioni e commesse dello Stato, ma anche di contribuire attivamente a influenzarne la rotta; capace, infine, di contribuire a dare una qualche risposta a due grandi disfunzioni del nostro tempo e del nostro sistema economico, rilevate, tra gli altri, da Zamagni: 1) dobbiamo "prendere atto che i tratti antisociali del comportamento economico hanno raggiunto, oggi, livelli preoccupanti; Angelo Antoci, Pierluigi Sacco, Paolo Vanin (v., 2002) dimostrano che una crescita ipertrofica della sfera privata dell'economia, determinando un calo della partecipazione sociale delle persone, può condurre ad una trappola di povertà sociale, cioè ad un equilibrio Pareto-dominato dell'economia, a seguito della decumulazione del capitale sociale" (v. Zamagni, Senza interesse…, 2002); 2) "Le diseguaglianze economiche nei paesi avanzati, che erano diminuite dal 1945 in poi, sono tornate scandalosamente a crescere negli ultimi vent'anni e non ci sono affatto segni di inversione di tendenza. Se ne conoscono bensì le ragioni: le nuove tecnologie; l'affermazione nei mercati globali di forme di ipercompetizione; l'avanzata terziarizzazione e così via. Ma il punto non è questo; piuttosto è sapere come mai le ineguaglianze sono oggi aumentate rispetto al passato, nonostante i massicci interventi dello Stato nell'economia (nel caso dell'Italia, lo Stato intermedia circa il 50% della ricchezza generata nel paese ed è a tutti noto che la pressione tributaria ha raggiunto livelli - 44% circa - non ulteriormente aumentabili) […]. Se ci ostiniamo a pensare che la ridistribuzione debba essere compito esclusivo dello Stato e che a questo compito lo Stato debba provvedere con la sola imposizione fiscale assisteremo inerti, e forse ipocritamente sconsolati, all'aumento delle ineguaglianze e delle ingiustizie. Ecco perché occorre intervenire anche sul momento della produzione della ricchezza e non solo su quello della sua ridistribuzione. Agire sulla sola ridistribuzione è, spesso, troppo tardi" (ibid.).
L'alternativa è, come si è detto, quella di ripiegare su una crescente funzione di surrogazione dello Stato, nell'ambito della crisi del welfare e/o di un affarismo mascherato da non profit (tendenza che mostra particolare vivacità negli ultimi anni) con effetti distorsivi sul mercato e sulle imprese.
Crescere richiede uno sforzo culturale e organizzativo importante, al quale il non profit italiano più serio deve accingersi non isolatamente ma in rete. Una rete, però, che non tenti di unire tutto il complesso mondo del non profit, ma solo i soggetti tra loro simili. E con un'apertura internazionale, come ha saputo fare il gruppo di testa delle ONG, ottenendo risultati e visibilità internazionale significativi e rivelandosi - a giudizio di chi scrive - culturalmente all'avanguardia nel settore. La coscienza del ruolo essenziale di un settore non profit come forza dinamica e vibrante della società (per citare ancora una volta le parole di Tony Blair) è ben presente, da tempo, in culture meno bizantine, politicizzate, ideologizzate e causidiche della nostra.
Adolf Berle - il grande studioso, amministratore pubblico e consulente della Casa Bianca - identificava nel non profit, sin dal 1963, un fattore costituente essenziale della "Repubblica Economica Americana" (v. Berle, 1963). Dopo aver passato in rassegna gli sforzi che gli uomini di Chiesa, gli intellettuali, gli accademici, i letterati esercitarono per decenni per convincere i ceti più abbienti a contribuire alla formazione del capitale sociale - che non si stava per niente formando da solo come effetto del mercato e della competizione - Berle ricorda che, a poco a poco, si capì che queste contribuzioni al capitale sociale facevano bene anche all'economia: "L'effetto economico offrì una luce agli uomini di affari ed ai teorici. La diversione per fini impersonali o altruistici di una notevole porzione del reddito corrente non costituì un impaccio per l'economia. Al contrario essa mantenne una corrente di attività economica indipendente dal motivo del profitto e perciò più costante. In conclusione essa rese più stabile, e più fruttuoso allo stesso tempo, il processo produttivo. È facile spiegare perché questo risultato non fosse stato previsto. Gli impieghi filantropici del reddito e del capitale non erano motivati dalla speranza di una produzione maggiore: lo scopo era umanitario e mirava ad avere migliori scuole, migliori ospedali, giovani con una migliore educazione. La spinta verso la legislazione sociale non era sostenuta dalla fiducia che in seguito ad essa si sarebbe accresciuto il reddito nazionale, ma dalla convinzione che si sarebbero aiutati esseri umani. L'idea che una politica umanitaria potesse anche essere una buona politica economica si formò soltanto a mano a mano che i risultati cominciarono ad apparire.
Durante il decennio 1950-1960, tuttavia, i risultati furono tanto chiari che chiunque li poté vedere. Il sistema politico-economico americano continuò a fondarsi sull'impresa privata, eccettuate alcune parti, e continuò a basare le sue operazioni sui profitti delle imprese come remunerazioni degli individui. Ma da questo flusso totale di reddito esso separò tre grandi elementi e li destinò a scopi impersonali. Uno di questi elementi, e il maggiore, fu costituito dalle imposte federali, statali e locali. Un secondo elemento fu costituito dall'insieme dei contributi, volontari e involontari, ai fondi di Sicurezza Sociale, ai fondi per pensioni e ad altri istituti simili. Il terzo elemento fu, ed è tuttora, costituito dalle donazioni volontarie, fatte per scopi filantropici privati e per servizi sociali: esso continua a crescere sia in valore assoluto sia in proporzione al reddito nazionale. Tutti e tre gli elementi accelerarono la formazione di capitale, e tutti e tre mantennero un processo distributivo parzialmente, se non del tutto, indipendente dai motivi del profitto e dello scambio e non influenzato dalle loro fluttuazioni. Essi si sono rivelati un sostegno essenziale per le operazioni commerciali basate sul puro interesse egoistico, operazioni che, due generazioni prima, si supponeva costituissero l'intera trama del sistema politico ed economico (ibid., pp. 227-228) […]. Il profitto personale o il desiderio del potere non inducono a fare grandi sforzi per accrescere le capacità o espandere la cultura degli altri uomini, o per accrescere le risorse umane nella collettività o per sviluppare attività diverse da quelle puramente commerciali. Se il sistema economico dipendesse soltanto dal movente del profitto, tale sistema tenderebbe a stagnare" (ibid., p. 233).
Per stimolare il non profit italiano a cogliere la sfida nelle sue reali e importanti dimensioni il cardinale Carlo Maria Martini - nell'intervento fatto alla sessione finale del Convegno internazionale Governance e fiscalità negli enti non profit. Quali prospettive?, tenutosi a Milano il 13-14 giugno 2002 - ha giustamente parlato di "rilievo costituzionale". Non si tratta di invocare speciali provvedimenti legislativi, e soprattutto bisogna sottrarsi alla tentazione di invocare una normativa organica di valore generale: è la stessa articolazione della materia, la differenziazione dei soggetti e delle attività comprese nel settore, che sconsiglia interventi di questo tipo. La via intrapresa nel 1991, con la buona legge sul volontariato, di interventi-quadro e poi di interventi settoriali e per specifici problemi, sembra la più realistica. Alcune leggi devono essere aggiornate, altre corrette, altre introdotte (sull'impresa sociale e, forse, una legge-quadro sulle ONG), ma non si tratta di grandi innovazioni sul piano dell'ordinamento, e anzi è opportuno tenersi fedeli ai capisaldi dello stesso, che non sono cattivi (ivi compresa la distinzione tra i soggetti del Libro I e del Libro V del Codice Civile, che non deve essere abbandonata).
Vi sono due temi sui quali un intervento legislativo è essenziale e urgente. 1) Se si vuole che il non profit italiano si ponga a un livello adeguato, affrancandosi dall'eccessiva dipendenza finanziaria dallo Stato, per cercare più fondi sul mercato, è necessario introdurre - come nella maggior parte dei paesi più avanzati - una significativa detraibilità fiscale delle donazioni da parte delle persone fisiche. L'argomento secondo cui ciò è impossibile per la perdita di gettito che ne deriverebbe non è credibile. L'attività del non profit non è aggiuntiva alla spesa pubblica ma sostitutiva della stessa. E se è vero che le organizzazioni non profit operano, di norma, a livelli di costo molto più bassi e a livelli di produttività molto più alti di quelli propri dell'amministrazione pubblica, il gettito netto, da un punto di vista economico e fiscale, ne guadagna, come è dimostrato dall'esperienza degli altri paesi più avanzati. Chi conosce le attività di lavoro sviluppate da importanti enti non profit sa con certezza che questi, con la loro attività e vivacità, non sottraggono gettito fiscale, ma lo generano. 2) È necessario altresì imporre una trasparenza assoluta dei dati di bilancio, come per le società commerciali. Oggi esistono ancora enti morali, che contano milioni di membri, i quali non pubblicano i bilanci sul loro sito Internet e si rifiutano di fornirli a chi li richieda. Invece la totale trasparenza dei dati e la loro organizzazione e pubblicità - in modi efficaci, intelligenti e utili - è una necessità assoluta. Come ha detto il cardinale Carlo Maria Martini: "per il non profit il controllo sociale vero, cioè rendere ragione di ciò, del perché e del come si fa, è un ineludibile passaggio etico". Tutto questo si risolverà anche in un grande vantaggio per il non profit, per la sua affidabilità, per la fiducia del pubblico, per la capacità di raccolta. Ma ci vorrà del tempo perché il non profit si renda conto di ciò. Nel frattempo, una imposizione e regolamentazione legislativa appaiono necessarie. L'obbligo di trasparenza potrebbe essere l'unica contropartita utile alla detraibilità fiscale.
E in questo quadro, qual è il ruolo del volontariato? Chi scrive non ritiene che esso debba chiudersi in una torre isolata di purezza. Deve, invece, portare nel sempre più complesso e articolato mondo del non profit la sua testimonianza e la sua energia. Appare condivisibile, dunque, l'impostazione del ministro del Welfare, Roberto Maroni (v., 2002), quando dice: "Il volontariato dunque non è in contraddizione con le altre forme di non profit. Di queste altre forme, il volontariato è stato l'origine e continua e esserne il sale. Dentro una fondazione, una ONLUS, dentro una cooperativa o un'impresa sociale, il ruolo del volontariato è essenziale. Fa di quella realtà una realtà sociale, diversa dalle altre; perché c'è qualcuno che, con la sua sola presenza, richiama tutti, anche chi esegue lo stesso lavoro per professione, al valore della gratuità, valore da cui tutto nasce. La sola presenza di volontari puri, accanto a lavoratori retribuiti, mantiene la matrice ideale dell'impresa di volontariato. Il volontario non retribuito ricorda al dipendente il motivo per cui questi ha scelto quel particolare lavoro. E così, nell'impresa sociale, il volontario richiama l'impresa al valore per cui è fatta, all'idealità che la fonda. Per il volontariato sarà vera crisi solo quando verranno a mancare i richiami ideali, i riferimenti ai valori e alla cultura del dono e dell"interesse' all'altro. Il fatto, dunque, che oggi da parte delle organizzazioni di volontariato vi sia una ricerca di maggiore professionalità, non mi scandalizza. Più professionalità è segno di qualità e di serietà. E proprio le associazioni che fanno interventi di emergenza, come le Misericordie, presenza secolare nella regione Toscana che ha ospitato la quarta Conferenza nazionale del volontariato, hanno professionalità retribuite accanto a volontari puri. Ecco, questa coesistenza virtuosa, (e non solo dal punto di vista economico) non deve far gridare allo scandalo o far crescere i lamenti circa l'imminente 'esaurimento del volontariato'.
Naturalmente le organizzazioni del volontariato, come definite dalla legge 266/1991, resteranno ben distinte dalle cooperative sociali, dalle imprese sociali, dalle fondazioni bancarie e simili. Rimarranno quello che la nostra legge le definisce. E continueranno a occupare quei precisi e crescenti spazi della società dove solo persone mosse dall'amore e dalla ricerca della reciprocità possono ottenere risultati veri e duraturi. Ma anche qui è necessario un processo di maturazione e di crescita i cui passaggi fondamentali sembrano essere: un grande sforzo per abbassare il tasso di ideologizzazione e politicizzazione che, in numerose organizzazioni, resta ancora spaventosamente elevato; un assoluto predominio dei volontari e dell'attività volontaria, soprattutto nei vertici amministrativi e direttivi; programmi di preparazione per i giovani, magari elaborati congiuntamente con le maggiori università; regole di assoluta trasparenza sui dati economico-finanziari; un sistema di crediti che possa essere fatto valere in certi campi (ad esempio in occasione di concorsi pubblici) da parte di quei giovani che hanno trascorso un periodo di lavoro presso un'organizzazione del volontariato in senso stretto.
Chi scrive ritiene, inoltre, che una fondazione o cooperativa di servizio con l'esclusivo compito di sostenere operativamente tali organismi nelle loro necessità amministrative, nell'organizzazione di programmi di fund raising, nella comunicazione, negli studi e nelle ricerche possa avere una grande utilità, sempreché si riesca a organizzarla e a gestirla in modo apolitico. Ma, per ora, si tratta di un'idea minoritaria.
Soprattutto, però, se volontariato e umanitarismo devono coincidere, crediamo che questo mondo debba rinnovare continuamente uno strenuo impegno per la neutralità e il sostegno imparziale a chiunque abbia bisogno e, al tempo stesso, debba educare i giovani a questo spirito. Il volontariato non morirà sino a che tra i suoi punti di riferimento vi saranno personaggi come madre Teresa di Calcutta e sino a che i suoi insegnamenti non saranno semplicemente divulgati, ma anche seguiti da chi ne ha raccolto, per quanto possibile, il testimone. Infatti, gli istituti creati a Calcutta dall'esperienza di madre Teresa, che sopravvivono alla sua scomparsa, sono istituti sanitari, assistenziali, educativi di alta professionalità e organizzazione (e anche per questo rispettati e riconosciuti dal governo), nei quali volontariato e professionalità si fondono per impegnarsi insieme, per i poveri e con i poveri, contro la povertà.
Bibliografia.
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