VÒLTA (fr. voûte; sp. bóveda; ted. Gewölbe; ingl. vault)
In architettura s'indicano genericamente con questo termine le strutture di copertura caratterizzate dalla concavità geometricamente definita della superficie interna. Da ciò si deduce che l'uso di tale parola si basa sulle caratteristiche formali ed esteriori della vòlta, non sulle sue particolarità costruttive e intrinseche; tant'è vero che sulle prime si fonda la classificazione delle vòlte nei varî tipi (v. oltre); mentre le seconde possono talora non corrispondere o essere anzi addirittura in contraddizione con essa. Non per questo tuttavia il problema strutturale della vòlta può essere trascurato, ché anzi dalle possibilità e dalle esigenze di essa hanno spesso avuto origine in un primo tempo quelle forme che, divenute successivamente mezzo d' espressione artistica, debbono, per essere chiaramente comprese, essere considerate dall'uno e dall'altro punto di vista.
La nomenclatura degli elementi essenziali della vòlta è simile a quella dell'arco (v.). Questo può in effetto essere considerato come una vòlta a botte nella quale una delle dimensioni di pianta, la luce, abbia una forte preponderanza sull'altra, la profondità.
Distingueremo pertanto nella vòlta come nell'arco le seguenti parti (fig. 1): intradosso, la superficie concava della vòlta (a, b, c, d, f); estradosso, la superficie esterna convessa (b′, c′, d′, e′) o piana (b′, e′, h, k); piano d'imposta, il piano orizzontale d'appoggio della vòlta (a′ c′ d′ j′); linea d'imposta, la linea con la quale esso piano taglia la superficie d'intradosso (a, f; c, d) o d'estradosso (c′ d′), dalle quali, al disopra di detta linea, incomincia l'andamento curvo. Chiave della vòlta è il punto o l'elemento centrale al sommo della curva del profilo (punti b, e).
Le caratteristiche sulle quali si basa la classificazione dei varî tipi di vòlte si riferiscono alla forma dell'intradosso che geometricamente s'identifica con quella di particolari superficie generate dal movimento secondo certe direttrici o da rotazioni intorno a certi assi di rette e di curve. Si tratta per lo più di superficie cilindriche o coniche a generatrici orizzontali od oblique (vòlte a botte, a padiglione, a crociera; pennacchi a tromba o conici); di superficie generate dalla rotazione di linee curve, come sfere, ellissoidi e simili (calotte, cupole, vòlte a vela, volte anulari, pennacchi sferici) o da movimenti a spirali (vòlte elicoidali). Dalle numerose possibilità di combinazione di tali forme semplici descritte nelle rispettive voci, altre ne derivano più varie e complesse (fig. 2).
Dalla compenetrazione trasversale di vòlte a generatrici ortogonali alla parete di piedritto (unghie o vele) su vòlte a generatrici parallele a essa (vôlte a botte, a padiglione) o costituite da superficie di rotazione (cupole, calotte, vòlte anulari) derivano le varietà di queste ultime che prendono il nome di lunettate.
Dall'avvicinamento invece di analoghi elementi opportunamente adattati l'uno all'altro derivano le vòlte a crociera a meno o più di quattro vele e in ultima analisi le cupole a spicchi, ciascuno dei quali può considerarsi una vela di concavità attenuata e di profilo accentuatamente curvilineo.
Dalla sovrapposizione d'una calotta sopra strutture di raccordo (pennacchi) sia a nicchia sia sferiche deriva il tipo della vòlta a cupola su pianta poligonale o quadrata.
Il comportamento statico della vòlta varia naturalmente secondo le particolarità della sua forma derivata appunto dalla reciproca contrastante azione delle varie parti e degli elementi di ciascuna parte, e può essere conosciuto esattamente solo quando tale azione si possa stabilire con sicurezza. Ciò è possibile solo quando la vòlta è formata da elementi separati bene identificabili o privi di collegamento (vòlte in pietra da taglio non cementate) o tenuti insieme da mezzi di collegamento esattamente apprezzabili, come grappe o arpioni metallici. Elementare ma superflua è invece l'analisi statica delle vòlte di materiale leggiero (incannucciati, reti metalliche) su armature elastiche lignee o metalliche, poiché in tale caso si tratta in sostanza di una struttura puramente pesante, come un coperchio concavo sovrapposto alle pareti. Del tutto sicura può essere infine l'analisi delle vòlte in materiali elastici calcolate in base agli odierni sistemi della scienza delle costruzioni secondo i principî dell'arco elastico.
Quando invece nel comportamento della vòlta interviene in maggicr o minor misura un'azione coesiva non esattamente determinabile, e cioè nella massima parte dei casi delle vòlte in muratura con l'uso di conglomerati artificiali (malte), vengono a mancare gli elementi necessarî all'analisi certa, giacché la reale situazione della struttura nel suo complesso varia caso per caso fra due possibilità estreme: che la massa sia perfettamente continua, equivalente cioè a un monolite concavo artificiale agente per puro peso, il che è in contrasto con l'esperienza pratica in materia; o che essa sia suddivisa in tutti i suoi elementi, ad esempio i mattoni, che ne costituiscono l'intradosso, agenti fra loro come altrettanti cunei tenuti insieme solo dalla loro reciproca azione. La difficoltà di determinare l'esatta realtà delle cose rende ardua e approssimativa l'analisi del comportamento di tali strutture che va studiato caso per caso, cercando di conoscere e apprezzare le particolari condizioni di ciascuna di esse.
Storia.
Il processo formativo della vòlta deve essere ricercato nell'evoluzione di primitivi sistemi di copertura ottenuti mediante elementi disposti in modo da ridurre o eliminare la sollecitazione a flessione propria delle coperture a elementi orizzontali pesanti. I primi tentativi di tali sistemi furono perciò di due categorie: all'una appartengono le strutture di blocchi sovrapposti e gradatamente aggettanti, nelle quali la flessione di ciascun elemento si riduceva all'azione prodotta, essendo in ritiro l'elemento inferiore, dal peso di quelli superiori; all'altra appartengono le strutture di elementi disposti a capanna appoggiati l'uno all'altro alla sommità e sostenuti quindi dalle reciproche azioni orizzontali.
Della prima categoria sono rimasti esempî veramente grandiosi nei nuraghi (v.) sardi risalenti all'età del bronzo, nei quali i blocchi in filari anulari sporgono l'uno sull'altro con la loro rude forma appena sbozzata priva di ogni altro intendimento che non sia quello dello scopo pratico costruttivo. Non molto più evoluta è la copertura a blocchi aggettanti appena squadrati delle mura di Tirinto, mentre ben diverso è già l'intento artistico delle analoghe strutture micenee, che si possono far risalire alla metà del II millennio a. C., nelle quali gli aggetti dei singoli filari di conci sono raccordati in un unico profilo curvilineo dall'andamento complessivo a sesto acuto, conchiuso alla sommità da un grande blocco piano che può considerarsi come la chiave pesante della cupola, alla quale, in conformità dell'uso derivato dal comportamento statico dei tipi più diffusi di vòlte, è stato dato da taluno il nome di pseudo-cupola.
L'uso di strutture del genere si continuò anche in periodi successivi in Grecia e in Italia, in edifici di destinazione prevalentemente pratica, come le mura urbiche del tipo detto comunemente ciclopico, alcune tombe etrusche (Cerveteri, Castellina in Chianti, Casalmarittimo), cisterne (Tullianum, a Roma) fino ad epoca più recente, come dimostrano i ponti della Via Iulia Augusta in Liguria, nei quali il sesto dell'arcata è per la parte più bassa costruito in grossi filari aggettanti, per la parte più alta in piccoli blocchi disposti radialmente.
Della derivazione da strutture a capanna, che pure è staticamente il punto di partenza delle vòlte a cunei, restano più scarsi e tardi esempî nella copertura della grotta di Delo e in una cisterna di Tuscolo che, costruita di blocchi aggettanti nelle parti basse, è coperta al sommo da due blocchi disposti a capanna e lavorati internamente secondo la stessa curva dei filari inferiori, riunendo in sé in modo evidente le due derivazioni della costruzione a vòlta. È poi dell'inizio del sec. I a. C. un edificio la cui caratteristica copertura costituisce in ritardo un esempio degli stadî intermedî fra la vòlta primordiale a capanna e quella a blocchi cuneiformi: l'orologio idraulico di Andronico Cirro, detto comunemente la Torre dei Venti nell'Agorà Romana di Atene. La vòlta di esso su pianta circolare è composta in sezione da tre elementi: due grandi lastre appoggiate sul muro perimetrale e contrapposte alla sommità per il tramite di un terzo blocco centrale di chiave. La funzione di quest'ultimo, data la disposizione radiale degli altri, è staticamente superflua, ma, considerata in relazione con due soli di essi diametralmente opposti, è veramente quella della chiave di una vòlta composta di tre soli elementi.
Gli esempî fin qui citati non devono, come dimostra la data dell'ultimo, essere presi come corrispondenti cronologicamente alla formazione della costruzione a vòlta, ché alcuni di essi sono invece posteriori talora anche di secoli ad opere di una tecnica perfettamente evoluta, e debbono essere considerati piuttosto come sopravvivenze dovute a ragioni varie e non sempre accertabili di sistemi più antichi e rudimentali.
I più antichi esempî di copertura a vòlta già perfetta come forma e come tecnica sono quelli che ci fornisce l'antico Egitto, dove entrambi i sistemi già accennati furono conosciuti e adoperati fin da tempi estremamente remoti. Applicazioni sistematiche di vòlte di pietra o di mattoni presentano anche gli edifici mesopotamici della prima metà del 1° millennio a. C., nei quali la vòlta è sempre del tipo più semplice a botte e di un profilo rialzato, a sesto acuto o parabolico, che permetteva ai filari di conci una minore inclinazione e ne facilitava quindi la posa in opera.
L'arte greca ignorò quasi completamente l'uso della vòlta e dell'arco di conci cuneiformi. Infatti, dopo l'esempio inconsueto, e rimasto isolato, della vòlta monolitim del monumento coregico di Lisicrate ad Atene (sec. IV a. C.), fu solo in periodo ellenistico che si cominciarono ad usare coperture voltate, ma limitatamente a strutture di sostegno e prive di intendimento d'arte, come i passaggi nascosti del teatro di Eretria in Eubea e la nota scala del ginnasio di Pergamo in Asia Minore. In Italia frattanto, specialmente nell'ambito dell'arte etrusca, si era venuta grandemente sviluppando la tecnica della costruzione ad arco applicata a partire dal sec. IV nelle porte delle città e successivamente dai Romani anche in altre opere pubbliche, come, ad es., la Cloaca Massima a Roma, lungo canale sotterraneo coperto da una botte di grandi blocchi di pietra e, fra i tentativi più antichi, la vòlta pure a botte irregolare e molto ribassata con la quale fu mozzata la precedente copertura a conci aggettanti del Tullianum. Ma lo sviluppo veramente meraviglioso della costruzione a vòlta si ebbe sotto l'impero con l'adozione pressoché esclusiva delle vòlte in conglomerato cementizio, che eliminando le difficoltà della stereotomia e delle laboriose manovre intrinseche della costruzione in pietra, e adattandosi, grazie alla plastica omogeneità della materia, alle più varie forme permisero ben presto le più ardite e feconde trasformazioni.
Furono infatti note ai Romani le vòlte a botte, a padiglione, a crociera, a vela; le cupole sferiche e a spicchi; i pennacchi di raccordo, benché non sempre ben definiti geometricamente, a nicchia e sferici; oltre ai tipi che da questi potevano derivare mediante innesti reciproci. Tale varietà di forme corrispose per tutto il periodo dell'impero di Roma alla costante ricerca di effetti artistici sempre più varî e fantasiosi, ché non fu solo il desiderio degl'immensi spazî quello che fece preferire agli architetti romani l'ariosa linea curva delle grandi vòlte, ma quello stesso bisogno di spezzare con la varietà delle concave superficie ricche di chiaroscuro e di movimento la troppo rigorosa limitazione spaziale dei piani squadrati; quello stesso bisogno che moltiplicò le nicchie nelle pareti, dilatò di absidi curve gli spazî chiusi, spezzò in esedre le fronti monumentali degli edifici.
A simili intendimenti artistici ben si prestava la tecnica costruttiva romana basata su un sapiente, ma generoso uso delle masse murarie disposte e sfruttate in modo da consentire varietà e ricchezza di effetti volumetrici, assicurando in pari tempo l'equilibrio costruttivo dell'edificio, grazie alle reciproche azioni di sollecitazione e di resistenza esercitate dalle varie parti di esso. A questo scopo è possibile constatare come la ricerca costante dei costruttori romani fu orientata nel senso di individuare le azioni, specie oblique, delle vòlte, concentrandole in punti precisi: così dalle vòlte a botte e a padiglione e a calotta, agenti su tutto il perimetro coperto, si passò a quelle a crociera, a spicchi, a vela, agenti solo in alcuni punti di essa, precorrendo di secoli i sistemi, in tale senso perfezionatissimi, degli architetti medievali.
Nella tecnica esecutiva delle vòlte romane si riscontrano analoghe ricerche di perfezionamento, come l'uso di materiali leggieri (pomice) e talora addirittura di fittili vuoti affogati nel getto cementizio e specialmente nei rinfianchi, l'introduzione di nervature di mattoni entro la massa di conglomerato, non sempre però rispondenti a razionali criterî di irrobustimento, sia per la loro distribuzione sia per il loro conseguente effettivo comportamento statico. Il getto, che per così enormi masse doveva essere fatto in più riprese, fu di regola eseguito a strati orizzontali, ciascuno dei quali per la curvatura del profilo interno veniva a sporgere sul sottostante, in modo da realizzare artificialmente le condizioni della pseudo-vòlta a blocchi aggettanti di periodi tanto più remoti. Ma si trattava in realtà di pura modalità esecutiva, giacché, come dimostra la prudente disposizione delle masse resistenti alle azioni oblique, gli stessi costruttori sapevano che il comportamento statico di tali strutture corrispondeva alla suddivisione in blocchi approssimativamente cuneiformi e non già alla sovrapposizione di filari orizzontali sporgenti.
Indubbio ed evidente era poi il comportamento statico delle vòlte di pietra da taglio il cui uso si mantenne nei paesi dell'Oriente mediterraneo e specialmente in Siria, superando con rara perizia complesse difficoltà d'esecuzione insite della costruzione in pietra concia. Unico esempio di vòlta di pietra agente invece per solo peso è quella della tomba di Teodorico a Ravenna, ricavata in un unico colossale blocco scavato internamente a forma di calotta e sovrapposto alla muratura anulare dell'edificio come un enorme coperchio, in modo da realizzare in un monolite naturale le condizioni ideali così difficilmente raggiungibili nei monoliti artificiali delle vòlte di calcestruzzo.
Alla varietà e alla ricchezza delle vaste superficie concave contribuim poi la decorazione sia architettonica a lacunari incavati e adorni di sagomature e di rilievi, sia plastica di ornati e figurazioni di stucco, sia pittorica di musaici e affreschi.
Lo sviluppo della costruzione a vòlta proseguì fino a quando, permanendo l'organizzazione politica dell'impero, si mantenne quella delle corporazioni edili alle quali era affidato il compito di provvedere alla grandiosa attività costruttrice di Roma. Dopo la scomparsa dell'Impero d'Occidente tale attività si continuò nell'ambito di quello d'Oriente dove fin dal trasporto della capitale a Bisanzio, aveva cominciato a manifestarsi in edifici mirabili per ardimento e novità di aspetto. Si iniziò così l'architettura bizantina che continuò per ancora quasi un millennio lo sviluppo degli schemi architettonici formatisi dagli ultimi secoli dell'Impero romano e basati appunto su un accorto uso di strutture a vòlta. I tipi di queste strutture rimasero sostanzialmente gli stessi noti ai Romani: solo si perfezionarono ancora alcuni di essi, quali i pennacchi sferici che furono usati sistematicamente per raccordare le calotte di pianta circolare a piedritti di pianta poligonale; si generalizzò l'uso di lunette specie all'imposta delle cupole per consentire l'apertura di finestre nel vano stesso della vòlta. Per facilitare l'esecuzione pratica in modo da ridurre al minimo la funzione delle armature di legno i Bizantini ricorsero a varî espedienti, fra cui sono da ricordare la collocazione non perfettamente radiale dei mattoni, tendenti piuttosto a un andamento più vicino all'orizzontale e aggettanti l'uno sull'altro; la loro disposizione secondo anelli leggermente inclinati, formati da elementi contrastanti di costa, così che il combaciamento di piatto e l'inclinazione di un anello sull'altro riduceva sensibilmente l'azione di peso da vincere con la centinatura provvisoria di sostegno che poteva talora essere addirittura sostituita dall'azione coesiva della calce a presa rapida. Si continuarono altresì scuole e correnti locali caratterizzate da tradizioni tecniche e artistiche proprie, come quelle di Siria, d'Armenia, d'Egitto, delle quali fu comune l'uso della pietra lavorata con complessa esattezza secondo la funzione di ciascun pezzo. Fra i ritrovati tecnici più originali è pure da ricordare l'uso preordinato di laterizi vuoti di speciale forma cilindrica appuntiti a un estremo, infilati l'uno nell'altro e disposti ad anelli orizzontali affogati in un unico getto di malta. Questa struttura leggiera, usata nel sec. VI d. C. specialmente a Ravenna per coprire absidi e cupole, era poi necessariamente nascosta sotto un tetto indipendente che ne proteggeva la fragile resistenza.
Opposto orientamento seguirono invece nel campo dell'architettura esterna gli architetti dell'Impero d'Oriente che preferirono decisamente l'uso di vòlte, specialmente cupole, estradossate, apparenti cioè all'esterno con una convessità pressoché parallela alla concavità interna. In questa preferenza si manifestò all'esterno degli edifici quello stesso desiderio di movimento e di varietà di chiaroscuro che fin dall'arte romana aveva tanto favorito lo sviluppo dell'architettura a vòlta.
L'adozione delle vòlte estradossate, non ignote ma meno diffuse nell'architettura romana, che preferì più spesso di racchiudere le sue complesse composizioni entro squadrate masse di tetti e di terrazze piane, si affermò, come si è accennato, specialmente nelle cupole, ora affacciantisi al disopra di larghe masse cubiche, ora sollevate al sommo di snelli tamburi cilindrici, ora dominanti al centro degli edifici, ora moltiplicate e disposte in serie numerose.
Per la decorazione interna delle vòlte l'arte bizantina preferì dapprima i rivestimenti musivi, le cui tessere lucenti, nella varia luminosità delle superficie curve, si presentano ancora oggi sotto aspetti mutevoli e fantastici; decaduta col tempo l'abilità dei musaicisti, prevalse la pittura che, con una certa monotonia di schemi, invase oltre le pareti anche le vòlte degli edifici tardo-bizantini fino a quelli del secolo XIX.
Sugli esempî bizantini, sparsi per tutto il territorio dell'impero, l'Islām modellò i proprî edifici tanto sacri quanto profani, diffondendone quindi i tipi per i suoi vasti dominî dall'India al Marocco. Le modificazioni portate dagli architetti arabi agli schemi architettonici bizantini si limitarono agli aspetti formali specialmente per quanto riguarda la curvatura delle vòlte per la quale si adottarono nuovi profili acuti e rialzati e alla veste decorativa che seguì il generale orientamento dell'arte musulmana basato sull'ornato geometrico. Esclusa infatti per ragioni religiose qualsiasi rappresentazione naturalistica, l'arte islamica vi sostituì composizioni puramente ornamentali sia pittoriche, dette arabeschi, sia plastiche in forma di poliedri rientranti e sporgenti a nido di vespa, note col nome di decorazione a stalattiti. Notevoli invece, oltre che dal lato decorativo anche da quello costruttivo, sono alcune cupole a nervature intrecciate, come quella dalla moschea di Cordova in Spagna, che ricollegandosi forse a strutture romane ad archi di scarico alternati, precorrono analoghe manifestazioni dell'arte barocca.
Nell'Europa occidentale la costruzione a vòlta, quasi del tutto abbandonata dopo la caduta dell'Impero, risorse con l'arte romanica, che trovò nella vòlta a crociera la copertura più rispondente all'organismo architettonico della chiesa, in quanto, consentendo il razionale concentramento dei pesi in pochi punti determinati e liberando da ogni funzione resistente i lati compresi fra detti punti, si prestava ad essere applicata a edifici a navate, quali erano per tradizione le chiese del Medioevo. Non mancano tuttavia esempî di chiese coperte da vòlte a botte o suddivise a campate coperte ciascuna, sull'esempio bizantino, da una calotta o da una vòlta a vela o a padiglione. La vòlta a cupola, talora sferica ma più spesso poligonale, a padiglione o a spicchi, fu pure elemento di frequente uso negli edifici a pianta basilicale, nei quali, sospesa mediante pennacchi di varia forma sull'incrocio della navata centrale con il transetto e dominando col suo vano più alto e luminoso le lunghe oscure navate, costituiva il conchiusivo coronamento dell'intero organismo; fu poi elemento indispensabile nei battisteri, rimasti per tradizione fedeli al tipo di edificio a pianta centrale dei più antichi e venerandi esempî.
In tutti questi tipi di vòlte i costruttori romanici introdussero gradatamente varie innovazioni, intese soprattutto a migliorare le qualità statiche della costruzione pur riducendone la massa verso forme sempre più leggiere e luminose. Con questo intendimento, che fu poi portato alle estreme conseguenze dall'arte gotica, si cercò di scaricare da ogni funzione portante le parti della vòlta non interessate all'equilibrio statico dell'intero edificio; furono così liberate le vele delle crociere dal peso del tetto che si appoggiò solo sugli archi e muri perimetrali. In punti ben definiti e debitamente rafforzati di questi ultimi, e precisamente in quelli corrispondenti agli angoli delle crociere, si concentrarono le spinte e le controspinte degli archi trasversali delle navate e degli spigoli diagonali delle vòlte, i quali ultimi furono fasciati da nervature sporgenti che presero il nome di ogiva (dal lat. augeo "accresco"). La funzione statica di queste nervature diagonali, per lungo tempo considerata unanimemente come una notevolissima conquista tecnica dei costruttori medievali, è oggi molto discussa e da taluni assolutamente negata. In realtà, mentre sarebbe errato attribuire a tale elemento troppa importanza, sia come funzione statica di intelaiatura che avrebbe reso superflua ogni azione resistente delle vele intermedie, sia come determinante artistica che avrebbe portato all'adozione costante dell'arco acuto, non è lecito negare che nell'uno e nell'altro campo si siano avute ripercussioni diverse dell'uso di un simile elemento a un tempo strutturale ed estetico. Strutturalmente esso costituì il sostegno talora indipendente delle vele, che poterono così essere costruite successivamente e come fine a sé stesse; artisticamente la sua curvatura, dapprima ellittica, poi divenuta con l'adozione del sesto acuto quasi circolare, accentuò l'effetto cupoliforme delle crociere rialzate così caratteristico delle vòlte gotiche.
L'uso delle nervature non si applicò soltanto alla vòlta a crociera, ma anche a vòlte di altro tipo, specialmente alle calotte a spicchi, che gradatamente sostituirono nelle cupole e nei catini delle absidi medievali le calotte e le semicalotte sferiche.
Come elemento artistico la nervatura sporgente ebbe poi importanza di primissimo piano durante il periodo dell'arte gotica che dal punto di vista della costruzione voltata può considerarsi come l'estremo sviluppo dei sistemi romanici, caratterizzato dall'uso ormai sapientissimo e di funzione prevalentemente estetica degli accorgimenti tecnici di quelli, specialmente delle ogive divenute elemento decorativo, con le loro ramificazioni costituenti una ritmica rete in rilievo lungo la superficie delle vòlte, interrotta da chiavi ornate e fortemente sporgenti. La stessa ricerca dell'effetto mediante abili composizioni geometriche, a cui corrispondeva una straordinaria abilità stereotomica, si manifestava nel moltiplicare le soluzioni planimetriche dell'edificio, aumentando il numero delle navate, legate tra loro da precisi rapporti dimensionali, dettati dalla luce delle vòlte, svolgendo intorno alle absidi traforate ambulacri poligonali nei quali le crociere dovevano adattarsi a piante oblique e irregolari, risolte mediante suddivisioni insolite e strane forme di vele.
Data la loro limitata funzione statica, la struttura delle vele delle vòlte gotiche si ridusse allo spessore minimo indispensabile a sostenerne il peso proprio. A consentire tale leggerezza comtribuì l'abilità esecutiva della muratura in conci di pietra o mattoni disposti accuratamente secondo gli andamenti delle curvature, tagliati esattamente secondo la forma particolare corrispondente alla funzione di ciascun elemento, e legati da buone malte distribuite in strati sottili e omogenei.
La decorazione di questi complessi organismi, che dal virtuosismo tecnico e dalla preziosità formale di ogni loro parte traevano le più salienti caratteristiche, si riduceva più spesso al giuoco contrastante dei valori lineari e spaziali, accentuato dall'effetto chiaroscurale dei complicati profili ricchi di sottosquadri e di curve, e intimamente collegato a quello delle corrispondenti membrature di piedritto. Si arricchì però talora anche di composizioni pittoriche svolgentisi sia sulle nervature in minuti motivi geometrici sia sulle vele in più vasti cicli figurati.
Il Rinascimento segnò anche in questo campo il ritorno alle forme dell'arte romana, pur non rigettando le eredità tecniche e artistiche dei secoli di mezzo. Così l'architettura del Quattrocento, benché formatasi interamente in Italia dove il gusto per i sovreccitati slanci gotici non aveva mai attecchito profondamente, rimase fedele in un primo tempo ad alcune forme usate specialmente nei secoli immediatamente precedenti, come la cupola a spicchi o a padiglione, dalle quali lo stesso Brunelleschi non si staccò, e le vòlte lunettate che furono caratteristico mezzo di copertura dei palazzi e degli edifici pubblici del tempo. E anche il nuovo ideale della cupola estradossata, costituente con la sua linea esterna dominante isolata il fastigio di coronamento degli edifici, è uno sviluppo delle analoghe aspirazioni romaniche e gotiche, tendenti in Italia a sostituire i tiburi a tetto o cuspidati con più ricche e varie superficie curve. Né di questi ultimi fu dimenticata la funzione statica intesa ad equilibrare con il peso verticale del tetto le spinte oblique della vòlta interna, funzione che fu in parte sostituita da quella di una seconda calotta più slanciata sull'alto tamburo e destinata precipuamente a migliorare l'effetto esterno della cupola, che vista dal basso tende a scomparire dietro la sua stessa convessità, ma abilmente realizzata per essere utile anche staticamente. Di tale innovazione e in pari tempo del permanere di tradizioni e ideali ancora trecenteschi il più stupendo esempio resta la cupola di S. Maria del Fiore a Firenze, nella quale l'abilità tecnica dei costruttori gotici è messa a contributo per la realizzazione della più significativa fra le opere architettoniche del Quattrocento.
In prosieguo di tempo prevalsero sempre di più i tipi prettamente classici di vòlte: crociere piane, botti e padiglioni lunettati, calotte sferiche, sulle quali riapparve l'ornamentazione a lacunari incavati ornati di stucchi e dorature, o grandi cicli pittorici che furono tra le più gloriose opere dell'arte del Rinascimento.
Tecnicamente si ebbe l'abbandono graduale di tutti quegli accorgimenti che erano stati oggetto di così costanti ricerche da parte dei costruttori medievali, poiché l'uso dei grossi muri di piedritto e delle gravi vòlte massiccie fu del tutto simile a quello seguito dai Romani. Artisticamente invece la proclamata imitazione degli antichi modelli non bastò a diminuire l'originalità delle opere nuove, diverse da quelli, sia per le mutate condizioni e proporzioni degli edifici, sia per l'accentuata funzione di più definita e raccolta spazialità che a essi venne ora dalla brevità ritmica di elementi ripetuti, ora dalla loro stessa continuità decorativa con l'ambiente.
L'arte barocca fu in tale senso più vicina a quella che era stata l'arte romana nei periodi di maggiore sapienza architettonica. Nel Sei e nel Settecento le vòlte, per la cui costruzione si cominciarono talvolta a usare materiali leggieri su armature di legno, sorsero da movimenti di masse in contrasto, delle quali ora continuarono gli andamenti con novità e ricchezza di effetti prospettici, ora fusero i giuochi contrastanti in linee più ampie e riposate. Da questi criterî nacquero le vaste chiese barocche voltate a botte sui vani delle navate maggiori, dominate dalla grande cupola terminale, ma coperte di cupolette di forme varie sulle cappelle e le navi minori; le cupole guariniane e le vòlte borrominiane intersecate da nervature oblique, traforate da finestre di ogni forma; le grandi sale dai soffitti spartiti in vele di diversa curvatura e andamento. In queste complicate strutture, realizzate talora mediante abili accorgimenti tecnici, ma più spesso grazie all'uso più generoso che accorto di grandi masse murali, trovò consona sede e cornice la fantasiosa decorazione di stucchi, pitture, dorature, che fu caratteristica di quei secoli.
Col gusto neoclassico del sec. XIX coincise l'applicazione del nuovo materiale elastico, il ferro; l'uno e l'altro fatto contrari all'uso delle coperture a vòlta, il primo per ragioni stilistiche derivanti dalla preferenza data all'imitazione dell'arte greca che aveva di regola usato coperture piane, il secondo per la pratica utilità delle nuove strutture basate sull'uso di un materiale ben resistente alla flessione. Non mancarono tuttavia tentativi di utilizzazione dei nuovi sistemi misti di costruzione, nella esecuzione di coperture curve come nelle fabbriche dell'Antonelli, le cui opere, e specialmente la Mole torinese, presentano notevoli esempî di cupole murarie armate da intelaiature di elementi metallici. Né sono da tacere le coperture curvilinee delle grandi tettoie ad armature metalliche che formano le più caratteristiche costruzioni a vòlta dell'Ottocento.
Il cemento armato, con le sue larghissime possibilità statiche, offre oggi il mezzo migliore per realizzare coperture di sagoma curva, capaci tuttavia, grazie alla loro costituzione intima, di resistere non solo alla pressione come le vòlte in muratura, ma anche ad altre sollecitazioni di trazione e flessione, e calcolabili esattamente con i sistemi che appresso si diranno. Per ora però l'estrema duttilità di tale mezzo costruttivo non ha trovato espressione artistica conveniente, sì che il suo uso s'è limitato all'imitazione delle forme caratteristiche dei sistemi del tutto diversi che si sono detti sopra.
Bibl.: Oltre alle opere generali di storia dell'architettura e a quelle relative ai varî periodi di essa, per le quali si rimanda alle rispettive voci, si vedano le trattazioni dello stesso argomento nel Dictionnaire raisonné de l'architecture française, del Viollet-le-Duc (Parigi 1854-68), e nel Wasmuth, Lexicon der Baukunst (Lipsia 1929 e segg.) e le opere seguenti: A. Choisy, l'art de bâtir chez les Romains, Parigi 1873; id., l'art de bâtir chez les Byzantins, ivi 1883; G. T. Rivoira, Le origini dell'architettura lombarda, Roma 1901-07; J. Dürm, Die Baukunst der Etrusker. Die Baukunst der Römer, Stoccarda 1905; id., Die Baukunst der Griecher, Lipsia 1910; A. Kingley Porter, The construction of Lombard and Gothic vaults, Londra 1912; R. de Lasteyrie, L'architecture religieuse en France à l'époque romane, Parigi 1912; G. T. Rivoira, Architettura mussulmana, Milano 1914; id., Architettura romana, Milano 1921; G. B. Milani, L'ossatura murale, Torino 1911; G. Giovannoni, La tecnica della costruzione presso i romani, Roma 1924; R. de Lasteyrie, L'architecture religieuse en France à l'époque gothique, Parigi 1926-27; G. Cozzo, Ingegneria romana, Roma 1928; J. Eberesolt, Monuments de l'architecture byzantine, Parigi 1934.
Sui problemi particolari delle vòlte gotiche e specialmente sull'ogiva si vedano i recenti studi: V. Sabouret, L'évolution de la voûte romane du milieu du XIe siècle au début du XIIe, Parigi 1934; M. Aubert, Les plus anciennes croisées d'ogive, leur rôle dans la construction, ivi 1934; H. Focillon, Le problème de l'ogive, in Bulletin périodique dell'Office des Instituts d'archéologie et d'histoire de l'art, marzo 1935, n. 3; P. Abraham, Le problème de l'ogive, novembre 1935, n. 5 dello stesso periodico.
Calcolo delle vòlte.
Vòlte a botte. - Possiamo distinguere le vòlte a botte in vòlte massicce e vòlte nervate. Le prime hanno spessore costante lungo le generatrici, per lo più crescente dalla chiave alle imposte; esse sono generalmente vincolate a incastro.
Le seconde sono costituite da una serie di archi sostenente i pannelli che formano la copertura (fig. 3). I pannelli possono avere la struttura di un solaio continuo sugli archi o anche, per poter assegnare a essi spessore minore e quindi conseguire maggior leggerezza, di piccole vòlte a sesto molto ribassato impostate sugli archi portanti. Gli archi possono avere profilo diverso: circolare, parabolico o preferibilmente, specie se si tratta di strutture importanti, coincidente con la curva funicolare dei carichi; possono essere a tre cerniere (es., fig. 4), a due cerniere o incastrati.
Le vòlte nervate offrono il vantaggio di una maggior leggerezza rispetto alle massicce e permettono perciò di realizzare una notevole economia in confronto a queste ultime. Però, data la maggiore complessità delle loro armature, il loro uso è preferito per coperture di grandi ambienti, come hangars, tettoie per stazioni, ecc., nei casi cioè in cui prevalga il fattore economico.
Per l'aspetto statico le vòlte a botte si possono riguardare come costituite da una serie di archi elementari disposti l'uno in continuazione dell'altro e aventi larghezza unitaria (generalmente di un metro) se la vòlta è massiccia, o eguale all'interasse degli arconi se la vòlta è nervata. Poiché tutti i carichi agenti sull'estradosso sono generalmente distribuiti in modo uniforme lungo le generatrici, la verifica di stabilità può limitarsi all'esame di un solo arco elementare.
Esporremo partitamente i criterî da seguirsi per la verifica di stabilità di un arco a tre cerniere, a due cerniere e incastrato.
L'arco a tre cerniere è una struttura isostatica. Le reazioni si possono facilmente determinare in base alle considerazioni seguenti. Per l'equilibrio del semiarco AC (fig. 5) le reazioni esercitate su di esso dalle cerniere A e C debbono equilibrare il sistema di forze agenti su di esso; analoghe considerazioni valgono per il semiarco CB. Inoltre per l'equilibrio della cerniera C le azioni esercitate tra i due semiarchi attraverso di essa debbono essere eguali e opposte. Da tutto ciò segue che le linee d'azione delle reazioni SA e SB sono lati del poligono funicolare connettente i carichi che passa per i centri delle tre cerniere. Tale poligono può tracciarsi con i noti metodi della statica grafica.
Più semplicemente si può procedere nella seguente maniera: dette R1 e R2 le risultanti dei carichi applicati rispettivamente ai due semiarchi AC e CB, immaginiamo in un primo tempo agente la sola R1; la reazione S′B della cemiera B, dovendo per l'equilibrio del semiarco CB scarico, essere eguale e opposta a quella esercitata sul semiarco dalla cerniera C, avrà per linea d'azione la retta BC. Unendo il centro della cerniera A con il punto d'incontro D della retta BC con la linea d'azione della R1, si otterrà la linea d'azione della S′A. Scomponendo la R1 secondo quelle due direzioni, si avranno le reazioni S′A e S′B dovute al solo carico insistente sul semiareo AC. Analogamente si possono determinare le reazioni S″A e S″B dovute al carico insistente sul semiarco CB. Componendo infine la S′A con la S″A e la S′B con la S″B si ottengono le reazioni SA e SB dovute al carico totale gravante sull'arco ACB.
Si può quindi tracciare il poligono delle pressioni. A tale scopo si divide l'arco in conci, possibilmente di lunghezza costante, con linee normali all'asse medio dell'arco; si applica al baricentro di ciascun concio la risultante dei carichi che lo gravano e si compone una delle reazioni, ad esempio la SA, successivamente con tutti i carichi. I lati del poligono delle pressioni daranno per le varie sezioni cui si riferiscono le risultanti degli sforzi agenti su di esse e in base a queste si possono verificare le sezioni.
L'arco a due cerniere presenta un solo grado d'iperstaticità. La ricerca delle reazioni dà luogo a 4 incognite, le due componenti verticali e le due orizzontali; le tre equazioni fornite dalla statica non sono quindi sufficienti a determinare le reazioni incognite, ma a esse bisogna aggiungerne una quarta da ricavarsi dalla considerazione dell'elasticità del sistema.
Negli archi a due cerniere bisogna distinguere il caso che le cerniere siano fisse alle imposte (fig. 7 a) o collegate da un tirante elastico (fig. 7 b, arco a spinta eliminata). Nel primo caso dalla rigidità delle spalle è impedito qualsiasi spostamento degli estremi dell'arco; nel secondo caso è permesso un allontanamento delle sezioni estreme eguale all'allungamento subito dal tirante per effetto della spinta.
Dalle equazioni fornite dalla statica:
ricaviamo che, nel caso più comune di carico verticale, le spinte alle due imposte risultano eguali e che le componenti verticali YA e YB delle reazioni sono le stesse che per una trave semplicemente appoggiata agli estremi e avente eguale luce l e condizione di carico, cioè (v. fig. 8):
(v. trave).
Per determinare la spinta X applichiamo l'equazione dei lavori virtuali, semplificata dal termine relativo al taglio:
dove i simboli hanno i significati noti (v. iperstatici, sistemi) e Δl è la variazione di lunghezza della corda.
In prima approssimazione la risoluzione del problema può semplificarsi trascurando l'effetto della compressione normale.
Facciamo riferimento a una coppia d'assi aventi l'origine in A, l'asse x orizzontale e l'asse y rivolto verso l'alto.
Il momento M per una sezione generica S è uguale alla somma del momento m indotto dai carichi esterni e dalla reazione verticale YA: e del momento indotto dall'incognita iperstatica X cioè:
Per l'ipotesi virtuale di carico X = 1 (v. iperstatici, sistemi) si ha:
Sostituendo i valori di M, M′ e N′ nella prima equazione e risolvendo rispetto a X si ottiene:
Gl'integrali che compaiono nella precedente formula risolutiva sono difficilmente, o almeno laboriosamente, calcolabili, perciò si preferisce, in pratica e con sufficiente approssimazione, sostituirli con sommatorie; ne deriva l'espressione per la spinta:
La spinta risulta dovuta quindi per la parte:
(parte principale) al momento flettente; per la parte:
all'influenza della temperatura; per la parte:
alla variazione della corda.
Per il calcolo delle sommatorie si divide l'arco in tronchi di lunghezza Δs possibilmente costante; i carichi gravanti su ciascun tronco si immaginano composti in una risultante applicata al baricentro del tronco. I valori delle quantità m, y, J, si assumono riferendosi alle sezioni corrispondenti ai baricentri dei tronchi.
Per l'arco a cerniere fisse sarà la variazione di corda Δl = 0 e quindi la spinta assumerà il valore:
Per l'arco a spinta eliminata la variazione di corda sarà uguale all'allungamento del tirante e questo sarà risultante dall'allungamento elastico Δle e dall'allungamento dovuto all'influenza di una variazione di temperatura ± t; si avrà cioè:
Sostituendo nella formula generale si avrà:
In questa relazione si nota che non compare più il termine dovuto all'influenza della temperatura, e ciò è naturale in quanto questa agisce provocando eguale allungamento nell'arco e nel tirante; l'arco è teoricamente a dilatazione libera. In realtà la dilatazione è parzialmente contrastata dall'attrito dei carrelli di appoggio.
Se il tirante ha sezione metallica Ωf indicando con Ef il modulo di elasticità del ferro (2.000.000 kg./cmq.) l'allungamento elastico può esprimersi con la relazione:
dove per X è sufficiente prendere il valore della parte principale della spinta.
L'influenza della compressione normale sulla spinta X è generalmente molto piccola. Volendo, può essere valutata approssimativamente supponendo che la componente normale N lungo l'asse dell'arco risulti proporzionale alla sezione Ω cui si riferisce.
Con tale ipotesi la variazione unitaria di lunghezza assiale:
sarà uguale per tutte le sezioni e in particolare eguale a quella della sezione di chiave:
Lo stesso effetto sarebbe prodotto da un'adeguata variazione di temperatura ϑ tale che:
Risulta quindi l'incremento di spinta dovuto all'effetto della compressione normale:
in cui per X può porsi la parte principale della spinta.
L'arco incastrato presenta tre gradi di iperstaticità. Infatti sono incognite le due componenti verticali e le due componenti orizzontali delle reazioni e i due momenti d'incastro. Alle tre equazioni fornite dalla statica occorre quindi aggiungere altre tre equazioni che si debbono ricavare dall'elasticità del sistema.
Assunte come incognite iperstatiche le reazioni X, YA, MA all'incastro A (fig. 9 a) può, come per il caso precedente, applicarsi l'equazione dei lavori virtuali semplificata dai termini relativi al taglio e allo sforzo normale:
Il momento M per una sezione generica si potrà esprimere mediante la:
se con MA, indichiamo il momento all'incastro A e con m il momento indotto dai carichi esterni.
Per l'ipotesi di carico virtuale M = 1 si ha:
e sostituendo tali valori nell'equazione di partenza si ottiene:
Per l'ipotesi di carico virtuale X = 1 si ha:
e sostituendo:
Per l'ipotesi di carico virtuale Y =1 si ha:
e sostituendo:
Introducendo nelle tre equazioni trovate l'espressione di M si ottiene un sistema da cui possono ricavarsi i valori delle incognite.
Analogamente al caso dell'arco a due cerniere può ancora tenersi conto dell'influenza dello sforzo normale.
Ma nel caso dell'arco incastrato risulta di applicazione più semplice ed elegante il metodo dell'ellisse di elasticità (v. iperstatici, sistemi.
Innanzi tutto immaginando applicato a ogni elemento ds dell'arco il relativo peso elastico dw = ds/EJ, consideriamo il baricentro elastico G (fig. 9 b). Assumiamo poi G come origine degli assi di riferimento Gx, Gy. Immaginando G collegato rigidamente con la sezione estrema A dell'arco, possiamo pensare che le reazioni siano applicate in G anziché in A; portando X e YA a passare per G risulta modificato il valore del momento d'incastro in:
indicando con l la corda dell'arco e con y0 l'altezza del baricentro elastico sulla linea d'imposta.
Ricordiamo dalla teoria dell'ellisse di elasticità che la rotazione dϕ dovuta alla deformazione di un elemento generico ds dell'arco e all'azione di una generica forza F è data dal prodotto di F per il momento statico del peso elastico dw dell'elemento ds rispetto a F, cioè:
se f è la distanza dell'elemento ds da F, o anche, essendo il prodotto F × f eguale al momento M generato nell'elemento ds dalla forza F:
La rotazione ϕ dovuta alla deformazione di tutto il sistema e all'azione di tutte le forze esterne sarà dunque l'integrale esteso a tutto l'arco:
Inoltre lo spostamento dδ dell'estremo A in una direzione assegnata, dovuta alla deformazione dell'elemento ds e all'azione della F, è data dal prodotto di F per il prodotto del peso elastico di ds rispetto alla linea d'azione della F e alla direzione dello spostamento, cioè, detta d la distanza di ds dalla direzione dello spostamento:
o anche, per le considerazioni precedenti:
considerando la deformazione di tutto l'arco avremo:
In base a tale ultima relazione possiamo esprimere gli spostamenti δx e δy, dell'estremo A secondo gli assi x e y dovuti all'effetto delle forze esterne
Ricordiamo ancora che essendo X, YA e ??? applicate al baricentro elastico, M provoca solo rotazione di A, X solo spostamento orizzintale e YA solo spostamento verticale.
Tale rotazione e tali spostamenti sono espressi da:
La rotazione totale di A sarà eguale alla somma di ϕ′ e di ϕ″ e dovrà risultare nulla per l'ipotesi dell'incastro, cioè:
Possiamo ricavare il valore di ???:
Analogamente, dall'annullarsi delle somme:
si ricavano:
Molto semplicemente può ricavarsi l'effetto di una variazione di temperatura t. Poiché questa provocherebbe solo spostamento orizzontale di A pari a:
si originerà solto una reazione X applicata in G e capace d produrre uno spostamento eguale e contrario. Sarà quindi:
Vòlte a crociera. - Le vòlte a crociera si possono immaginare suddivise in archetti elementari, componenti le lunette, impostati suglí archi diagonali (fig. 10). Per la verifica di questi archetti può essere sufficiente l'ipotesi semplificativa che la curva delle pressioní passi per i baricentri delle sezioni di chiave e d'imposta; e si può allora procedere come ner gli archi a tre cerniere. Gli archi diagonali risultano caricati dalle reazioni verticali degli archi e dalle reazioni orizzontali. Si calcolano le reazioni iperstatiche separatamente per i due sistemi di carichi con i metodi sopra esposti.
Vòlte a padigiione. - Per semplicità ci riferiamo a una vòlta a padiglione su pianta quadrata, ma analoghi ragionamenti si possono fare in caso di vòlte a spicchi su pianta qualunque.
Ciascuno spicchio di volta si può immaginare composto di archetti elementari (fig. 11), per ciascuno dei quali si può costruire la curva delle pressioni e quindi procedere alla verifica. Il muro di piedritto risulterà sollecitato in sommità dalle spinte esercitate su di esso dagli archetti della vòlta, con intensità massima nel mezzo della sua lunghezza.
V. tavv. CXVII-CXXI.