VOLTAIRE, François-Marie-Arouet, de
Nacque a Parigi il 20 febbraio 1694. Egli ebbe in un collegio di gesuiti un'eccellente educazione umanistica, e a dodici anni già componeva versi che gli valsero le simpatie di alcuni circoli di gentiluomini increduli e brillanti nonché l'amicizia della celebre Ninon de Lenclos. A diciotto anni già scriveva la tragedia Ødipe il cui successo (1718) gli aprì l'accesso all'alta società. Ma il cavaliere de Rohan, punto dai suoi sarcasmi, lo fece aggredire a bastonate dai suoi domestici; e V., che gli mandò un cartello di sfida, fu rinchiuso nella Bastiglia dove languì sei mesi.
Irritato contro un paese dove il privilegio poneva tanto divario fra gli uomini, e scontento altresì che la sua Henriade, dove si celebravano eroi protestanti come la regina Elisabetta e l'ammiraglio di Coligny, non gli valesse il consenso unanime, emigrò in Inghilterra. I suoi talenti letterarî trovarono ivi largo riconoscimento e gli procacciarono appoggi finanziarî da parte del re Giorgio I e della principessa di Galles. Tornato in Francia nel 1728, si mescolò attivamente alla vita letteraria di Parigi, suscitando applausi e più numerose proteste e libelli diffamatorî; fece rappresentare con incerta fortuna le tragedie Brutus e Zaïre, riportando infine un clamoroso successo con Alzire ou les Américains.
Dopo il suo esilio dalla Francia la vita di V. si può dividere all'incirca in quattro periodi: il suo soggiorno in Inghilterra, decisivo per la sua formazione intellettuale; il suo soggiorno presso M.me du Châtelet; la sua permanenza presso il re Federico II di Prussia; la sua apoteosi finale di grande apostolo della tolleranza e di signore dell'opinione illuminata, che si può fare a un dipresso coincidere con gli ultimi venti anni del suo ritiro nel suo feudo di Ferney. Il soggiorno inglese determinò la sua carriera di filosofo, di esegeta e di polemista: in quegli anni V. penetra, vivamente ricercato e applaudito per il suo libero spirito, nel circolo di mylord Bolingbroke: egli vi frequenta Pope e Swift, e vi assimila l'empirismo scaturito dalla scuola di Locke, Clarke, Shaftesbury, vi s'impadronisce del sistema di Newton, senza però condividerne la rigida ortodossia biblica. Tornato nel continente, si stabilisce in Lorena presso la marchesa di Chatelet: al contatto di quella donna dall'ingegno virile e appassionato di certezza scientifica, egli approfondisce le matematiche, la geometria, la meccanica, la fisica. Les éléments de la philosophie de Newton, che dovevano rovinare in Francia il credito della dominante fisica cartesiana, sono del 1727: e quasi contemporanee sono le Lettres sur les Anglois, elogio fervidissimo delle istituzioni del sistema politico, della libertà religiosa d'oltre Manica, che diedero il primo abbrivo all'anglofilia diventata di prammatica tra gl'illuministi francesi. È questo il periodo decisivo della formazione mentale volterriana: lo scrittore che fino allora aveva brillato come un talento tutto artistico, vivendo tra abati, letterati, attori e libertini, vi si tempra e si matura storico e polemista formidabile, e affila le armi con le quali combatterà la sua battaglia deista contro teologi e storici ortodossi. Nel frattempo egli persegue la sua feconda attività di poeta e drammaturgo, affascinato dal miraggio di riformare la scena francese dalle imitazioni spagnole e inglesi e di ricondurla alla severa nobiltà dei Greci e di Racine. Sono infatti di questi anni di ritiro (1728-40) Brutus, La mort de Cesar, Alzire, Zaïre, Mérope, Mahomet ou le Fanatisme, dedicato, con paradossale disinvoltura, a Benedetto XIV.
Nel 1740 egli torna a Parigi, dove ebbe a soffrire molestie e persecuzioni da parte delle "cabale" a lui ostili, accanite a sabotare le sue tragedie e a denunziare come scandalose le sue opinioni religiose e politiche. Nel 1740 intraprende un viaggio alla corte di Berlino, dove lo sollecita Federico II, il re libero pensatore che professava per lui un'incondizionata ammirazione, e lo trattava da "uomo divino" mentre V. lo ricambiava col titolo di "Salomone". Durante la visita resa al re filosofo, V. gettò altresì il seme dell'alleanza tra la Francia e la Prussia collegate ai danni dell'Austria nella lunga guerra conchiusa dalla pace di Aquisgrana. Le sfere ufficiali, fino allora contrarie a V., si volgono in questo tempo in suo favore; il credito di M. me de Pompadour, nemica dichiarata dei gesuiti e patrona dei filosofi, gli ottiene nel 1745 un diploma di storiografo di Francia con la carica di gentiluomo di camera del re. Nel 1746 viene ricevuto fra gl'immortali dell'Accademia: onorificenze che lo persuadono giovare più alla carriera e alla fortuna d'un uomo il "sussurrare quattro parole all'amante del re anziché scrivere cento volumi". Nel 1749 si trasferisce, insieme con M. me du Châtelet, a Lunéville, sede della corte del detronizzato re di Polonia. Infine il destino errabondo che lo conduce di monarca in monarca.
Nel 1750, morta M. me du Châtelet, teneramente compianta, si trasferisce a Berlino, presso Federico II, il re che viveva "senza Corte, senza consigli e senza culto", e che veniva attirando i più brillanti ingegni scientifici dell'Europa e radunava attorno a sé D'Alembert, Algarotti, La Mettrie. V., provvisto d'una pensione di quattromila scudi al mese, occupa a Potsdam un appartamento contiguo a quello del re, vi attende alla composizione delle sue opere, vi lavora a contatto dell'eroe filosofo, con l'obbligo di partecipare alla tavola del re e di correggere i suoi versi e i suoi trattati francesi non sempre impeccabili. Accoglienze straordinarie sono riservate al tragico dal filosofo più famoso d'Europa: il re recita in piena accademia il suo elogio e l'elogio di M. me du Châtelet le lettere di V. di questo periodo traboccano d'una illimitata ammirazione e riconoscenza per l'eroe libero pensatore e fondatore dell'Aufklärung berlinese: se qualche frizzo beffardo smaschera la bizzarra singolarità dei costumi di questa corte senza donne, la maggior parte delle espressioni adoperate è un'apoteosi del filosofo coronato, in onore del quale si ricorre frequentemente al paragone con Alessandro e Marco Aurelio. Bruscamente scoppia la rottura. Gelosie e pettegolezzi intorbidano i rapporti tra il filosofo e il re, al quale si attribuisce nei confronti di V. la maligna frase: "quando si è spremuto l'arancia si getta la scorza". V. restituisce la chiave d'oro simbolo del suo servizio di gentiluomo d'onore, e sollecita il suo congedo, che gli viene accordato. Tornato in Francia non senza spiacevoli peripezie e dopo essere stato arrestato a Francoforte dalla polizia prussiana, non vi respira tutta la libertà di cui ha bisogno e, pure adulato dai grandi e da ministri, nel 1759 va a stabilirsi a Ferney presso Ginevra, insieme con sua nipote M. me Denis. In quel tempo non era permesso a nessun cattolico stabilirsi a Ginevra, né nei cantoni protestanti svizzeri: ma a V. parve ameno "acquistare terre nei soli paesi della terra dove non sia permesso averne". Arricchito ormai da lauti guadagni, pensioni e provvisioni pagategli da varî principi dell'Europa, egli poté installarvisi da gran signore, tenere tavola ornata e divertire gli ospiti con ingegnose e riuscite rappresentazioni teatrali. La sua fama è arrivata al colmo, i sovrani e l'alta nobiltà gareggiano nel corteggiarlo, la sua parola ha un effetto irresistibile e il suo intervento nei processi Calas e La Barre ha per conseguenza di ottenere la revisione d'ingiuste sentenze. L'opera capitale di questo periodo è il Dictionnaire philosophique, imitato nella sua forma da quello di Bayle, e dove compaiono le tesi fondamentali intorno a Dio, alla natura dell'anima e del pensiero, all'origine delle nostre conoscenze, al carattere tutto umano delle religioni, alle usurpazioni e alle falsificazioni perpetrate dai sacerdoti, alla precarietà delle basi delle religioni rivelate. Il Dictionnaire è il testamento filosofico di V.: la sua battaglia di mezzo secolo contro l'intolleranza, il fanatismo, l'autorità, il miracolo, le falsificazioni delle leggende e delle tradizioni, i dogmi positivi, si riassomma e condensa in forma definitiva in quelle sentenze lapidarie, secche, sibilanti d'ironico sarcasmo. Il V. del Dictionnaire è assai più esplicito ed efficace che non quello dell'Essai sur les møurs: i tempi incalzano, la cacciata dei gesuiti dalla Francia, dalla Spagna e Portogallo ha privato l'ortodossia del suo più valido baluardo: V. non vi parla più da sbandato oppositore, ma da capopartito e da membro militante della società dei teisti o franchi muratori: di qui le sue inaudite audacie di linguaggio, che venti anni prima gli avrebbero attirato noie e persecuzioni. Da Ferney, egli regna. Negli ultimi vent'anni della sua vita, V. diventa il riconosciuto pontefice dei lumi della tolleranza e della filantropia. Stabilitosi a Ferney, in un comodo castello, irraggiungibile alle persecuzioni dei governi, corrispondente ricercato di monarchi, principi e primi ministri, egli instaura nel mondo la sovranità tutta nuova dell'opinione. Da Ferney egli dirige la battaglia sempre più accanita contro i gesuiti e a favore delle libertà giurisdizionali, incoraggia e stimola gli enciclopedisti di Parigi, cementa la compattezza della dilagante organizzazione dei franchi muratori, moltiplica le esortaziioni e gl'incitamenti ai ministri delle corti di Francia, di Spagna, di Prussia e d'Austria, dirette a écraser l'infame, corrisponde fittamente con il re Cristiano di Danimarca, con il conte di Aranda, con i duchi di Choiseul e di Richelieu, con Federico il Grande ritornato suo amico e ardente estimatore. Sotto l'incalzare degli avvenimenti, la lotta in favore della tolleranza e dei lumi si fa sempre più intensa e serrata: ai suoi amici V. ribadisce perentoriamente: "ie ne veux pas de traité avec l'infame": egli che aveva dedicato Mahomet a Benedetto XIV, ora lancia strali polemici sempre più affilati contro il cristianesimo, esercita il suo impero filosofico su mezza Europa: Federico II e Caterina di Russia s'inchinano per lettera all'uomo divino, restauratore dei diritti della ragione, al sovrano signore dell'opinione: il re Cristiano di Danimarca, la duchessa di Sassonia Gotha, il conte di Aranda, la margravia d'Assia, il duca di Richelieu, il duca di Choiseul sollecitano la sua approvazione e il suo consenso alle loro riforme legislative: un suo epigramma, un suo madrigale o una sua lettera colmano di gioia i circoli aristocratici illuminati delle capitali europee. Il "morente" di Ferney sembra inesauribile di brio, d'invenzione, d'eloquenza seria e di grazia frivola. Infine, cedendo alle pressioni degli amici, nel marzo 1778 si reca ad assistere a Parigi alla rappresentazione dell'Irène: un delirio immenso circonda la sua persona: la sua fibra soccombe sotto il peso degli allori, e a Parigi egli muore il 30 maggio 1778.
Come filosofo, V. deve la sua importanza non alla creazione d'un sistema, ma all'entusiastica divulgazione da lui fatta dei sistemi di Locke e di Newton, che fece di lui il grande iniziatore del moto illuminista francese. Pertanto, il suo soggiorno inglese fu gravido di incalcolabili conseguenze per i destini dell'illuminismo e per l'avviamento degli spiriti nella Francia e nel mondo. La pubblicazione delle Lettres sur les Anglois segna il principio della sua lunga polemica in favore della tolleranza e della libertà religiosa. Essa prepara altresì una rivoluzione negli spiriti. Con esse il sensismo di Locke mette radici in Francia determinando il tramonto delle idee innate, dell'anima che pensa sempre e del dualismo di estensione e pensiero implicito nel sistema di Descartes: contrapporre il prudente Locke all'ambizioso Descartes sarà uno dei procedimenti usuali della sua polemica: la dominazione della filosofia cartesiana si mantiene per qualche decennio nelle università, ma perde sempre più terreno negli spiriti liberi. E con la teoria delle idee innate crolla altresì la cosmologia di Descartes: complemento necessario delle Lettres sur les Anglois sono pertanto gli Éléments de la philosophie de Newton, composti più tardi a istigazione di M. me du Châtelet: in quel libro egli combatte a fondo la teoria cartesiana del pieno, i celebri "vortici", che avvolgendo la loro materia sottilissima attorno al mondo, ne determinerebbero il moto. La battaglia sostenuta contro i cartesiani, la critica schernitrice delle idee innate, dell'anima concepita come sostanza sempliee, della visione in Dio cara al padre Malebranche, la predicazione entusiasta del sistema di Locke, il grande saggio che "ha sviluppato all'uomo la ragione umana come un eccellente anatomista spiega i congegni del corpo umano", se non bastano a classificarlo tra i grandi architetti di sistemi fanno però di lui uno dei più mirabili agitatori d'idee che la storia ricordi. Helvétius, La Mettrie, Condillac, D'Holbach, lo superarono in coerenza interiore, in originalità e acume di vedute: nessuno lo eguagliò in brio polemico e sarcastico, lucidità e chiarezza. Il sistema di V. è il deismo sensista ed empirista: egli reagisce con forza contro il criterio cartesiano della verità more geometrico demonstrata e contro il suo criterio della certezza, che da un piccolo numero d'assiomi d'evidenza irrecusabile pretende dedurre le verità fondamentali intorno a Dio, l'immortalità e la spiritualità dell'anima, la libertà, la creazione; con Locke egli non riconosce alla ragione sufficiente giurisdizione per pronunziarsi intorno all'essenza e agli attributi di Dio né per stabilire se la materia può pensare e la sua psicologia è problematica e negativa, e l'"io sono corpo e penso "riassume la sua posizione di fronte agli spiritualisti. Locke è il grande uomo, il quale fra tanti ragionamenti che hanno fabbricato "il romanzo dell'anima" si è contentato di scriverne "modestamente la storia"; egli è il restauratore della ragione alla quale ha assegnato confini più ristretti di quelli troppo ampî segnatile dagli scolastici e dai cartesiani; egli non nega l'immortalità dell'anima né distrugge la morale, ma asserisce "che è impossibile alla ragione di provare la spiritualità dell'anima", i risultati delle sue indagini sulla natura delle nostre conoscenze permarranno eternamente acquisiti al sapere, poiché "se c'è qualche cosa di dimostrato al di fuori delle matematiche, è che non si dànno nell'uomo idee innate; se se ne dessero, tutti gli uomini nascendo avrebbero l'idea di Dio, e ne avrebbero tutti la stessa idea... Aggiungasi a ciò l'incredibile assurdo in cui ci si getta affermando che Dio ci dà nel ventre materno nozioni che si devono interamente conquistare con l'adolescenza". La mancanza d'idee innate o di semi di verità deposti in noi dall'Eterno non equivale a rigettare in blocco ogni nozione di diritto e di vizio, di giustizìa e d'ingiustizia. "Benché ciò che si chiama virtù in un clima sia precisamente ciò che si chiama vizio in un altro, e la maggior parte delle regole del bene e del male differiscano come i linguaggi e le fogge del vestire, è tuttavia certo che si dànno delle leggi naturali la cui verità e validità tutti gli uomini sono obbligati a riconoscere" e senza le quali le società non potrebbero sussistere. Queste idee ed altre analoghe formano il nerbo degli scritti filosofici di V. e ricompaiono, con innumerevoli variazioni, nel suo Traité de métaphysique (1734), in Le philosophe ignorant (1766), nei Dialogues et entretiens philosophiques, nelle Lettres de Memmius à Cicéron (1771), nel Dictionnaire philosophique, la sua opera capitale, e in altri scritti e opuscoli. Il sistema di V. è il puro deismo: un Dio, che però non si può determinare nella sua essenza e nei suoi attributi come spirituale o materiale creatore d'un universo indirizzato da cause finali; una materia a cui Dio ha conferito un certo numero di proprietà inalienabili quali il peso, il volume, la massa, la divisibilità; una ragione umana che trae la sua origine non dalle favolose idee innate, ma dalla generalizzazione dei dati dell'esperienza sensibile; una facoltà di sentire che fornisce il materiale di tutte le nostre conoscenze. È la divulgazione sintetica dell'empirismo iniziato da Locke, Clarke, Boerhave, Shaftesbury, circoscritto, quanto ai grandi problemi di Dio, dell'immortalità e dell'essenza dell'anima, da un rigoroso agnosticismo. Questo sistema va tuttavia nettamente distinto dal materialismo audacemente formulato da La Mettrie e da D'Holbach nel Système de la Nature, col quale ultimo il deismo di V. cozzò. Quando, infatti, nel 1770, comparve Le Système de la Nature, V. lo attaccò vivacemente e soprattutto combatté con asprezza la negazione delle idee di ordine e di disordine, rigettate da D'Holbach come puerili antropomorfismi. "Come? - rimbeccava V. - Nel mondo fisico un bambino nato cieco, un bambino sprovvisto di gambe, un aborto non è una deviazione alla natura della specie? Non è forse la regolarità ordinaria della natura quella che costituisce l'ordine; e non è l'irregolarità che costituisce il disordine?" E concludeva: "Forse perché abbiamo scacciato i gesuiti dobbiamo noi proscrivere Iddio? È un motivo, all'inverso, per onorarlo di più. Conformemente però alle premesse dell'empirismo sensista, questo Dio, impulsore dell'universo o architetto sovrano di esso, non può essere conosciuto nelle sue proprietà costitutive. Questa definizione di Dio non concorda né col realismo scolastico, né col razionalismo cartesiano, che chiamava Dio a garante della verità deposta nel nostro intelletto, né col Dio della teodicea leibniziana. Davanti a quest'eversiva nozione cadono le pretese di tutte le religioni rivelate: nessuna di esse può accamparsi quale custode di verità ultrasensibili: perciò la sola legittima religione è il deismo o religione naturale che insegna la tolleranza e la libertà: perciò i teologi, inquisitori, missionarî, monaci vanno esclusi dal consorzio della società civile e consegnati al manicomio. Questa religione naturale, che si pretende essa sola conforme ai pronunziati della sana ragione, avrà la natura per tempio, la ragione per culto, e gli uomini onesti e probi come sacerdoti. Perciò la diatriba religiosa di V. non mira a difendere nessuna delle confessioni stabilite. Egli respinge in blocco tutte le religioni rivelate, per quel teismo, di cui egli stese, in un opuscolo omonimo, la professione di fede, i cui dogmi si compendiano nella credenza in Dio e nelle cause finali.
Domandarsi quale forma abbia l'essere supremo, quale luogo occupi, perché egli presieda al mondo e con quali criterî egli lo regga è puerile antropomorfismo: "precisamente poiché questo Essere supremo esiste, la sua natura dev'essere incomprensibile. Noi dobbiamo ammettere che esiste, senza sapere ciò che è, e come opera". Pertanto l'unica legittima fede è il deismo, l'unica religione antica quanto il mondo, poiché tutte le nazioni s'accordano su questo punto, che esse hanno anticamente riconosciuto un Dio, al quale hanno reso un culto semplice e senza miscuglio, e che non poté, inizialmente, essere contaminato dal dogma superstizioso". Queste ultime parole sono estratte dalla Profession de fois des théïstes, e formano il nucleo delle numerose allocuzioni, lettere, opuscoli, spediti da V. alle logge dei liberi muratori. Questo Dio di V. è visibilmente assai diverso dal Dio provvidenziale, regolatore e moderatore dei popoli che signoreggia la filosofia della storia d'un Bossuet: gli enciclopedisti amici di V. giudicarono superfluo un tale fantasma inutile , di divinità; e infatti taluni, come Diderot, professarono un franco ateismo: altri scorsero in questo Dio un baluardo della conservazione sociale,o una concessione fatta al gusto delle moltitudini; e infatti lo stesso V. legittimò quest'ipotesi, quando, insorgendo contro la tesi di Bayle, il quale considerava possibile una società d'atei, contrattaccò replicando che Bayle avrebbe mutato avviso "se avesse avuto cinque o seicento contadini da governare". Questo misterioso e solitario Iddio, il quale abbandona il mondo allo sgoverno del caso e della fatalità, non esclude un certo pessimismo nei confronti delle sorti umane. Una delle tesi favorite di V. è la confutazione dell'ottimismo leibniziano e dell'armonia prestabilita. Il Poème sur le désastre de Lisbonne ha potuto infatti venire utilizzato da Schopenhauer a conforto del suo cieco pessimismo. Questo Dio inconoscibile, il quale ha perduto ad uno ad uno i suoi attributi provvidenziali, ché non vigila sugli uomini e non conduce le migrazioni dei popoli, non è quello della tradizione ortodossa né quello dei razionalisti cartesiani. V. lo sa e di qui scaturisce la sua incessante polemica contro Bossuet, Malebranche e Pascal. Contro quest'ultimo egli inveì con particolare acrimonia, in quelle Remarques sur les Pensées de Pascal, che stigmatizzano l'angosciato misticismo e l'inesausto anelito verso la Grazia del pensatore giansenista.
Come la teologia di V., così la sua storiografia è strettamente connessa alle dottrine di Bayle, di Locke, e al determinismo universale di Newton. Il ripudio della tradizione, il rifiuto d'ogni miracolo e d'ogni meraviglioso, sono il nucleo essenziale di questa storiografia. Il determinismo universale postulato da Newton, introducendo l'uniformità nella natura, V. l'introduce altresì nella storia, e perciò sarebbe incomprensibile un Dio il quale interrompesse arbitrariamente la catena delle cause e degli effetti. L'idea di miracolo e di prodigio viene, a questa stregua, rigorosamente bandita dalla storia. Un Dio libero di erigere in decreti universali e in leggi naturali i suoi insindacabili arbitrî e di fare che 2 × 2 non facciano 4 o che vi siano delle montagne senza valli come Descartes sosteneva è, secondo V., impensabile. Pertanto il rifiuto del prodigioso, dello straordinario, del favoloso diventa un canone inalterabile della critica di V. Premessa indispensabile ad ogni buona storia, egli considera una prudente diffidenza e l'esclusione sistematica di ogni meraviglioso, elevata a sistema nel breve trattato intitolato Le pyrronisme dans l'histoire.
Eliminazione del miracolo, delle leggende e delle favole di cui "la boria delle nazioni ha coperto le origini dei popoli", è questo uno dei costanti criterî direttivi dell'opera di V. storiografo. Immensa opera, che suppone dietro a sé l'accumulazione di larghi materiali eruditi, e che include Les Annales de l'Empire, l'Histoire de Russie, Le Siècle de Louis XIV, Le Siècle de Louis XV, L'Histoire de Charles XII, L'Essai sur les møurs, quest'ultima di capitale importanza, come rappresentativa del suo metodo storico. L'originalità del quale, fatta valere dalla critica, consiste nel sostituire gli elogi e i panegirici di re o condottieri e i coacervi cronachistici di fatti crudi, con la storia del progressivo elevamento umano o storia della civiltà e dei lumi. Stabilito apoditticamente che il genere umano ha da poco tempo ricuperato la sua ragione ottenebrata da secoli di fanatismo; asserita la superiorità irresistibile dell'epoca presente e delle sue scienze, delle sue arti e delle sue industrie, sulle epoche anteriori,V. si volge a una visione progressiva della storia, dove la perfezione non è più additata nel regno della pace e della cattolicità cristiana, ma nell'operoso estollersi della ragione. Consequenziariamente,V. guarda con tracotante disprezzo le epoche di conquista, di entusiasmo, di eroismo, di fede rozza ed ingenua: nessuno ha giudicato più aspramente di lui i gesta Dei per Francos, le crociate, gli sterminî degli Albigesi, le stragi di San Bartolomeo; nessuno ha più di lui stigmatizzato la confusione e la sovrapposizione delle leggi, l'arbitrio della giustizia, l'arruffio indescrivibile prodotto dal diritto feudale intrecciato col diritto canonico, il caos dei privilegi. Ancora più, l'Essai sur les møurs mira a correggere lo schema antropomorfico della filosofia della storia tramandatosi attraverso i trattatisti sacri fino a Bossuet: esso vuole eliminare quell'artificiosa interpretazione che concentra il corso della storia universale nelle vicende della Palestina, del mondo greco-romano e del mondo cristiano; esso rigetta l'inveterata tradizione che fa del popolo ebraico il capostipite degli altri popoli e contrappone alla sua formazione recente la venerabile antichità degl'imperi della Cina, dell'Egitto e dell'India; esso rifiuta altresì la veduta ortodossa che fa del bacino mediterraneo il teatro della rivelazione per estendere la rivelazione naturale agli altri popoli ritenuti idolatri. Il cosmopolitismo e la xenofilia sono uno dei motivi più incalzanti della polemica volterriana. In uno spirito analogo è concepito Le Siècle de Loitis XIV, il suo capolavoro storico. Quale storiografo di corte, V. non poteva non inchinarsi alla figura del gran re. Ma la sua storia oltrepassa di molte misure il consueto sistema dell'elogio biografico. Anche Le Siècle de Louis XIV, più che congerie di fatti o elenco di avvenimenti, è la storia delle istituzioni, della legislazione, delle scoperte, delle arti, delle correnti etico-politiche prevalse in quel secolo, agli occhi di V. circonfuso di grandezza sovrana e irraggiungibile nello splendore del costume e delle lettere: alle critiche, fitte e irruenti, contro le epoche anteriori di rozzezza e di barbarie è contrapposto il secolo di Luigi XIV come prodotto dell'ingentilimento dei costumi e della diffusione dei lumi; esso serve a confermare la teoria progressiva contenuta nell'Essai sur les møurs, e V. ad un tempo vi celebra la grandezza diplomatica e militare del re, e vi magnifica quella risorta arte classica che costituiva ai suoi occhi (come a quelli dei suoi contemporanei) un monumento insuperabile. Le Siècle de Louis XV è parimenti stato originato da un incarico d'ufficio, ed esso si presenta come la naturale continuazione del Siècle de Louis XIV. L'Histoire de Charles XII è soprattutto una brillante biografia, e un tributo di ammirazione pagato allo straordinario conquistatore svedese. Di minore entità ideale sono le Annales de l'Empire, l'Histoire de Russie scritte per commissione dei sovrani desiderosi di accattivarsi la benevolenza della più mordace penna d'Europa. Un posto a parte nella sua produzione meritano i suoi numerosi scritti e opuscoli di critica biblica, diretti a impugnare con l'autorità e l'universale credenza nell'ispirazione divina della Scrittura, l'antichità venerabile del popolo ebreo e la cronologia tradizionalmente accettata, e a scoprire altresì le interpolazioni e le falsificazioni del testo ispirato, a denunziare i controsensi delle dottrine che vi sono professate repugnanti alla saggezza d'un autore divino: Un Chrétien contre six juifs (1777), La Bible enfin expliquée (1776), Le Tombeau du fanatisme (1767), La défense de mon oncle (1769), contrappongono all'universale religione naturale, di cui è depositario il genere umano, l'insostenibilità del messianismo ebraico che si presume unico interprete della divinità. Con eguale foga vengono attaccati i testi del Nuovo Testamento, che V. afferma interpolati e falsificati, e, comunque, non maggiormente attendibili d'una collezione di vangeli diversi; finalmente, in altri scritti, la stessa critica corroditrice investe le origini e lo stabilimento del cristianesimo, attaccato nelle sue interpretazioni dogmatiche, combattuto nei miracoli sui quali si fonda, accusato d'avere assicurato il proprio trionfo con l'oppressione e la violenza. In questa polemica V. utilizza specialmente gli argomenti di Bayle, di Spinoza, di Richard Simon, conferendo alla loro tesi quel brio polemico che li diffuse in tutti gli strati dell'opinione e fece sì che fossero universalmente letti volumi come La Bible enfin expliquée, Le Tombeau du Fanatisme, L'Ètablissement du Christianisme, Un Chrétien contre six juifs, e i Dialogues et entretiens philosophiques. Il termine di questa battaglia non è neppure un cristianesimo epurato e contenuto nei limiti della ragione, come quello che Locke prescriveva, ma è la distruzione stessa del cristianesimo, in quanto religione rivelata, il quale non solamente è privato di ogni posizione privilegiata nei confronti di altri culti, ma vi è accusato di delitti non imputabili alle altre religioni.
Questi scritti d'esegesi biblica, e il Dictionnaire philosophique, che ne sono la sintesi, formano il nerbo di ciò che le generazioni successive depressero o esaltarono sotto il nome di volterrianismo. Il quale è infatti spirito di radicale incredulità e di perentorio rifiuto d'ogni soprannaturale. Mentre i liberi pensatori fecero di V. un semidio, i credenti esecrarono la sua opera come un monumento di eretiche aberrazioni. La religione naturale di V. è infatti inconciliabile con ogni confessione positiva: l'anima che la informa è irriducibilmente anticristiana. Quando la religione fu restaurata in Francia, l'opera di V. soggiacque all'avversa fortuna: le generazioni del romanticismo rigettarono quella critica, qualificandola frivola e superficiale; l'idealismo poté, a buon diritto, vantarsi d'averla oltrepassata col riconoscere alla religione il posto che le spetta nel sistema dello spirito.
Se lo spirito di V. filosofo e critico appartiene all'umanità, la sua opera poetica appartiene solo alla storia letteraria francese. Poeta soprattutto volle essere V. e si cimentò con tutti i generi letterarî allora in voga e trattò con versatilità impareggiabile la tragedia, il poema epico, il poema scherzoso e burlesco, la satira, l'epistola didascalica, l'epigramma, la lirica leggiera. La Henriade, ispirata dai turbinosi sconvolgimenti delle guerre di religione francesi alla fine del sec. XVI e dalla conquista del trono di Francia da parte di Enrico IV, conteso tra le opposte fazioni della Ligue cattolica e degli ugonotti, non sortì il desiderato effetto di dotare la Francia d'un grande poema nazionale: l'immaginazione di V. era troppo aliena dal meraviglioso e dal soprannaturale per fare di Enrico IV un eroe della statura di Enea o di Achille: la finezza ragionatrice impedisce i liberi moti della fantasia e il movimento epico vi si trasforma in epigramma: l'intolleranza dello zelo e del fanatismo religioso vi conduce lo scrittore a prendere posizione contro taluni suoi eroi o a glorificare con parzialità evidente quelli che (come Elisabetta d'Inghilterra o l'ammiraglio de Coligny) incarnavano i principî da lui banditi. Quanto poco l'ala dell'epos battesse sulla fronte di V. lo dimostra ad oltranza il fatto che lo stesso poeta poté trascinare alla berlina, con satira scanzonata e sboccatamente dileggiatrice, la figura di Giovanna d'Arco nella Pucelle d'Orléans. Questo poema che formò la delizia di libertini e anticlericali è concepito in uno spirito apertamente caricaturale e il ridicolo vi è versato abbondantemente sul soprannaturale. Né la musa epica sostenne meglio il V. quando in componimenti quali il Poème pour la bataille de Fonteno (1745) celebrò gesta gloriose della storia francese. Più conforme al suo spirito polemico e al suo arguto brio sentenzioso era invece l'epistola didascalica e moraleggiante dove lo scrittore diede forma plastica alle sue idee favorite e alla sua predicazione deista e filantropica. Poemi come Le Temple du Goût, il Poème sur la loi naturelle, quello Sur le Désastre de Lisbonne, riboccano di quella grazia inimitabile che unisce la profondità speculativa alla disinvoltura briosa. V. vi ragiona di Dio, dell'immortalità, della religione naturale, vi confuta le armonie prestabilite o l'ottimismo leibniziano con quella fluida agilità di cui egli solo conobbe il segreto; la sua parola volteggia lieve sulle cime dell'astrazione e la sua maestria è qui insuperabile. Tuttavia sulla scena tragica egli raccolse i maggiori allori e suscitò le più fiere battaglie: Ødipe (1718), Alzire (1736), Zaïre (1732), Mérope (1743), Mahomet (1742), La Mort de César (1735), Brutus (1731) e infine Sémiramis (1748), Tancrède (1760), Olympie (1763), L' Orphelin de la Chine (1755), furono rappresentate attraverso vicende di alterna fortuna e spesso contrastate da cricche e cabale letterarie ostili; pure, attraverso intrecciate vicende di polemiche, diatribe e persecuzioni della polizia che vi sentiva stridere il sarcasmo contro le istituzioni, assicurarono al loro autore, in Francia e altrove, una larga popolarità; e il gusto francese prima dell'avvento del romanticismo le situò accanto ai più celebrati modelli dell'antichità e del secolo d'oro. La critica di Lessing e di Goethe, la quale le investì tacciandole di secchezza e di astrazione, ne ha oscurato irreparabilmente i pregi: esse appariscono ormai ai più vere e proprie dissertazioni in favore della tolleranza, della libertà, dell'abolizione degli odî atavici di razza e di religione: la loro azione si svolge sopra uno schema meccanico e obbligato; quasi sempre vi si vede la divergenza delle sette e delle opinioni disunire teneri cuori di amanti e di sposi, contrapporre i figli ai padri, scatenare guerre e flagelli, contraddire flagrantemente alla legge di natura. Così fanatismo e intolleranza sono gli unici responsabili dei tragici equivoci che dividono Orosmane da Zaïre, Gusman da Alzire, che spingono i due fratelli Seïde e Palmire ad assassinare il loro padre. L'infrangibile ottemperanza alle tre unità aristoteliche ne deforma e ne sforza l'andamento introducendovi ogni sorta di ripieghi e d'incongruenze, come quella dei congiurati cospiranti in pieno Campidoglio, nel Brutus; l'azione ne è calcolata e metodica anche se spesso ricca di teatralità; il linguaggio grave ed uniforme, modellato sugli esemplari del secolo di Luigi XIV e aborrente da ogni libertà e da ogni intrusione d'elementi comici e grotteschi, la decenza e la nobiltà dello stile sono compassate e fredde quando non vi lampeggia il guizzo del sarcasmo e dell'ironia; la messinscena orientale, pressoché obbligatoria, che vi fa sfilare Cinesi, Turchi, Persiani, Arabi, Babilonesi è una finzione convenzionale, poiché questi eroi multicolori si esprimono secondo la retorica imparata nei collegi francesi. La forza rappresentativa e artistica è visibilmente inferiore alla vis polemica e ragionatrice. In realtà, com'è stato spesso osservato, Orosmane e Zaïre, Gusman e Alzire, Edipo e Genghiz-Khan sono personificazioni degli appelli e delle requisitorie rivolte da V. in nome della tolleranza, della filantropia e della libertà del pensiero. Malgrado qualche felice innovazione mutuata dagli elisabettiani e da Shakespeare, malgrado l'elevatezza delle intenzioni e la volontà deliberata di riformare la scena francese fino a riportarla alla solennità religiosa dei Greci, questo teatro non sa oltrepassare le remore della tirannia neoclassica. Né decisivo sentimento innovatore circola in commedie come Les Originaux (1732), Vanine (1749), L'Ècossaise (1760) già impregnate di quella tenerezza "lagrimosa" che doveva condurre al trionfo i drammi di Diderot.
La stessa ispirazione mordace, satirica, schernitrice delle credulità e della superstizione dilaga nei romanzi, Candide (1759), Zadig (1748), L'Homme aux quarante écus (1767), L'Ingénu (1767), La Princesse de Babylone (1768), non sono racconti, ma rassegne satiriche delle stravaganze, delle follie, delle chimere e degli abusi prodotti dall'illusione umana proiettate su sfondi cosmopoliti e concatenate da peripezie e accidenti paradossalmente burleschi. Più popolare e famoso fra tutti è rimasto meritamente Candide, dov'è beffeggiato sistematicamente, nell'ineffabile Pangloss, l'ottimismo leibniziano. La storia di Candide, giovane domestico in servizio presso una piccola corte tedesca, il quale sconta il suo peccato d'amore con la bella Cunegonda per mezzo delle più incredibili avventure e peripezie e viene sbattuto attraverso infinite migrazioni nei paesi d'Europa e d'America; la storia di Candide, a volta catturato dai Bulgari, scampato a stento ai roghi dell'Inquisizione portoghese, minacciato di sevizie e di morte dagli Orecchioni d'America, fuggiasco negli stati dell'Eldorado e del Paraguay; la storia di Candide, che, separato dalla sua bella la ritrova amante compiacente d'un banchiere ebreo e d'un inquisitore portoghese, e che per amore di lei stende morti a terra i due rivali, e sempre per amore di lei ne uccide il fratello; costituisce nel pensiero di V. un'esemplificazione eloquente della capricciosa irrazionalità che presiede ai destini del mondo e una schiacciante derisione del sistema dell'armonia prestabilita. In presenza di tale iattura il dottor Pangloss, incorreggibile ottimista, continua a sentenziare che "tutti gli avvenimenti sono concatenati nel migliore dei mondi possibili": caricatura illustre d'un intero universo ideale minato nelle sue basi.
Rivoluzionario e novatore nella storia nella metafisica V. sacrificò alla tradizione e al gusto dominante quando giudicò di poesia e d'arte. Durante il suo soggiorno inglese s'innamorò di Shakespeare, ma rinnegò presto gli entusiasmi giovanili per sacrificare anch'egli all'altare del classicismo e professare reverenza incondizionata al secolo di Luigi XIV. La sua critica demolitrice si arrestava davanti ad una maestria ch'egli considerava insuperabile e l'eresiarca professionale si cambiava in conformista. Da questa sua mai smentita classicità prorompono i tanti giudizî, talora bizzarri e avventati, spesso acuti e sensati, che egli fece piovere su scrittori antichi e moderni; al lume di questi criterî giudicò Shakespeare, Lope, Calderón, Milton, Dante, Ariosto, il Tasso e compose quei Commentaires su Corneille che scandalizzarono gli adoratori del grande tragico. V. vi enunziò una tesi, confermata poi dalla critica posteriore, facendo derivare Le Cid dai grandi modelli del teatro spagnolo, ma non seppe guardarsi dallo schematismo pedantesco e mescolò troppe riserve agli elogi perché non suscitassero le proteste delle "cabale" a lui ostili. Corneille, ai suoi occhi, peccava di barbarie, di esuberanza, della troppa libertà e della rigogliosa naturalezza assimilata alla scuola degli Spagnoli, cui contrapponeva l'inviolabile superiorità dell'armoniosa nitidezza di Racine. Tuttavia la preferenza per lo stile classico non lo annebbiò fino a fargli disconoscere il genio di Goldoni, al quale prodigò i suoi disputatissimi elogi.
Ediz. e bibl.: La prima edizione importante delle opere di V. è quella dovuta a Beaumarchais, con note di Condorcet, curata da L.-P. Decroix (Kehl, 1784-90, voll. 70). Tra le numerose edizioni della prima metà dell'Ottocento le più apprezzabili sono quella Desoer, Parigi 1817-20, voll. 42; quella Lequien, 1920-26, voll. 70; quella Dalibon e Delangle, Parigi 1824-32, voll. 97; e ottima fra tutte l'ediz. Beuchot, 1829-34, voll. 72, con commento, prefazioni, varianti e tavola analitica. Altre edizioni raccomandabili sono quella Didot, 1859, voll. 13; quella Lahure e Hachette, 1859-61, voll. 40, e quella Garnier, curata da L. Moland, 1878-85, voll. 52. Opere inedite di V. furono pubblicate nel 1820 (Pièces inédites); nel 1842 (Correspondance avec le président de Brosses, pubbl. da Foisset); nel 1857 (Lettres inédites, pubbl. da De Cayrol e François); nel 1860 venne pubblicata la Correspondance avec la duchesse de Saxe-Gotha (a cura di E. Bavoux); nel 1875 le Lettres à l'abbé Moussinot. Fra le principali opere da consultare su V. segnaliamo, nell'immensa copia di studî, opuscoli, trattazioni d'ogni sorta; G. Lanson, V., Parigi 1906; F. Brunetière, Études critiques sur l'histoire de la littérature française, s. 3a, ivi 1883; G. Desnoireterres, V. et la société française au XVIIIe siècle, ivi 1867-76; D. Strauss, V., Lipsia 1870; G. Pélissier, V. philosophe, Parigi 1908; A. Bellesort, Essai sur V., ivi 1926; V. Ricca, V. filosofo, Palermo-Roma 1909; A. Labriola, V. e la filosofia della liberazione, Napoli 1926.