Voltaire (François-Marie Arouet)
Filosofo e scrittore francese (Parigi 1694-1778). Nella storia della fortuna di D. in Francia, la critica di V. segna l'estrema punta negativa aggravata dalla durezza di taluni giudizi nonché dall'autorità e dall'eco che ebbero per molto tempo. Soltanto il fedele volterriano La Harpe si dimostrò altrettanto severo verso D., ma il suo, più che altro, è da considerarsi un atteggiamento di riflesso.
Nell'Essai sur la poésie épique (1728) è già evidente l'impossibilità di far rientrare D. in una delle categorie previste per i poeti degni di tal nome. L'autore della Commedia vi è appena citato, mentre vengono nominati altri autori italiani anche minori: il Tasso, il Trissino, l'Andreini (in relazione a Milton) e Scipione Maffei; e vi si fa menzione del Pastor fido del Guarini. In sostanza è lecito presumere che, già a quell'epoca, D. rappresentasse nella capacità di giudizio di V. un fenomeno d'irrazionalità e la Commedia un'opera di cattivo gusto, fuori delle regole del poema epico, definita, in seguito, " bizarre ", qualifica che sarà largamente accettata non solo dai contemporanei ma persino in epoca romantica, magari con la variante di " étrange ", da più di un critico e scrittore francese, ad es. da Chateaubriand. L'ammirazione di V. in fatto di letteratura italiana andò quasi tutta all'Ariosto, sulla cui ironia il filosofo ebbe felici intuizioni, e in parte al Tasso; ma l'Ariosto è addirittura " le premier des poètes italiens et peut-être du monde entier " (EpÎtre à d'Alembert premessa alla tragedia Don Pèdre, 1774), pari a Omero, e " la plus féconde imagination dont la nature ait jamais fait présent à aucun homme " (Lettera a Madame du Deffand, 13 ottobre 1759).
Nel Discours de réception à l'Académie Française (1746), V. afferma: " Il n'est rien que le Dante n'exprimât, à l'exemple des Anciens. Il accoutuma les Italiens à tout dire ". Questo apprezzamento va comunque considerato in rapporto all'ambiente in cui V. faceva il suo ingresso ufficiale. È presumibile pertanto ch'egli si sia avvicinato a D. con un minimo ancora di reverenza, partecipe di una lunga tradizione. Fatto sta che tra i primi documenti di questo interesse stanno le traduzioni, come testimonia egli stesso a cominciare dalla Lettre de M. de V. à l'auteur de la " Bibliothèque Impartiale " datata Potsdam, 5 giugno 1752, nella quale appunto scrive: " j'avais traduit en vers avec soin de grands passages du poète persan Sadi, du Dante, de Pétrarque; et j'avais fait beaucoup de recherches assez curieuses dont je regrette beaucoup la perte ". Motivi che riprende nella lettera A M. de *** professeur en histoire (dicembre 1753), precisando: " J'avais traduit plus de vingt passages assez longs du Dante, de Pétrarque, et de l'Arioste ". Tra l'altro osserva: " les vers du Dante faisaient déjà la gioire de l'Italie, quand il n'y avait aucun bon auteur prosaïque chez nos nations modernes. Il était né dans un temps où les querelles de l'Empire et du sacerdoce avaient laissé dans les États et dans les esprits des plaies profondes. Il était gibelin et persécuté par les guelfes; ainsi il ne faut pas s'étonner s'il exhale à-peu-près ainsi ses chagrins dans son poème ", e ne dà un esempio con 14 versi a rima baciata che traducono tutt'altro che in modo accurato e aderente Pg XVI 106 ss., cioè parte dell'episodio di Marco Lombardo.
Di queste traduzioni della Commedia, di cui restano, oltre i versi suddetti, altri di If XXVII (episodio di Guido di Montefeltro), V. dice di averle perdute quando mutò domicilio dopo la morte di Madame du Châtelet (prefazione al tomo III dell'edizione Walther delle opere di V., 1754, dove ribadisce - tutt'altro che a proposito almeno per ciò che concerne D. -: " traductions exactes en vers des meilleurs endroits des poètes des nations savantes ").
Successivamente la critica su D. segue abbastanza fedelmente l'evoluzione dello spirito volterriano, pur non limitandosi a quella posizione intermedia in cui si colloca una tale attività dello scrittore nel quadro del tempo. Ma a segnare l'inizio di tutta una serie di giudizi su D. tanto severi quanto scarsamente fondati, che peraltro ripetono - con poche varianti - gli stessi motivi, non è improbabile che influisse più che l'articolo di P. Bayle su D. nella II edizione (1702) del Dictionnaire historique et critique, come taluno ha opinato, il parere di L. Racine nelle Réflexions générales sur la poésie épique (1747) in cui viene adoperato, a proposito del Purgatorio, quell'aggettivo " bizarre " che ricorrerà poi sempre in V. nei confronti della Commedia, definita dallo stesso L. Racine un poema " qui certainement n'est ni épique, ni héroÏque, mais souvent, en sujets très sérieux, fort comique ". V. dovette trovare in questo giudizio un autorevole fondamento alle sue idee certamente approssimative su di un testo parzialmente conosciuto; e nell'aggettivo " bizarre " un soddisfacente suggello formulistico.
Modesto conoscitore della lingua italiana, almeno fino all'assunzione, nel 1752, del fiorentino Cosimo Alessandro Collini in qualità di segretario, V. relegò D. in un'antichità archeologica nel passo che aggiunse, nell'edizione 1756, alla XXII delle Lettres philosophiques o Lettres sur les Anglais, muovendo critiche all'Hudibras di Samuel Butler: " On ne lit plus le Dante dans l'Europe, parce que tout y est allusion à des faits ignorés: il en est de même d'Hudibras ".
Del 1756 è anche l'Essai sur les moeurs et l'esprit des nations, nel cui cap. LXXXII (Sciences et Beaux-Arts au XIII et XIV siècle) V. compendia in certo qual modo gli apprezzamenti scritti fino allora nei riguardi di D., riprendendo anche, con poche varianti, la lettera al " professeur en histoire ". D. vi è considerato come colui che ha nobilitato la lingua toscana " par son poème bizarre, mais brillant de beautés naturelles ..., ouvrage dans lequel l'auteur s'éléva dans les détails au-dessus du mauvais goût de son siècle et de son sujet, et rempli de morceaux écrits aussi purement que s'ils étaient du temps de l'Arioste et du Tasse ". E a riprova di una situazione storica e insieme personale, riprende il precedente motivo della persecuzione papale con il conseguente esempio dell'invettiva di Marco Lombardo, di cui riproduce la propria traduzione che pertanto giudica " faible ". D. è ancora citato nei capp. CVIII (De Savonarole), CIX (De Pic de la Mirandole) e CXLI (Des découvertes des Portugais) per farne, in quest'ultima circostanza, a proposito dei versi che alluderebbero alla Croce del Sud (Pg I 22-24) e che V. cita tradotti in prosa, un profeta casuale, giacché D. " ne parlait que dans un sens figuré: son poème n'est qu'une allegorie perpetuelle ". Di questo medesimo annuncio profetico, V. si ricorda ancora nella voce Cyrus del Dictionnaire philosophique (1764) e nelle Remarques sur la Medée (1764) di Corneille, all'atto V, scena VII. Più si era diffuso lo scrittore, rispetto al cap. LXXXII dell'Essai sur les moeurs, col solito esempio della traduzione di versi di Pg XVI, ne Le chapïtre des arts, un abbozzo dal LXXXII dell'Essai con annotazioni in margine, riprodotto, dal manoscritto della biblioteca volterriana di Leningrado, in appendice all'edizione di R. Pomeau dell'Essai, Parigi 1963, pp. 822-824; ma pubblicato la prima volta in modo imperfetto da F. Caussy in V., Oeuvres inédites, Parigi 1914. La Commedia vi è detta la prima opera in una lingua moderna " qui ait conservé sa réputation jusqu'à nos jours ". In un raffronto tra il poema dantesco e l'Eneide, V. rileva pertanto che D. consacra quasi 93 canti a quel che in Virgilio occupa i due terzi del VI libro. La satira costituisce per V. l'interesse predominante del poema. Anche il soggetto " bizarre " viene giustificato con le esigenze dei tempi in quanto la religione era argomento della maggior parte degli scritti, delle feste e delle pubbliche rappresentazioni. Da queste considerazioni, improntate a un generico riconoscimento, si passa all'articolo Le Dante registrando una sorta di frattura. Tutt'altro è il tono di questo articolo entrato poi nel Dictionnaire philosophique e forse anche per questo destinato a suscitare tanto rumore, pervaso com'è da spirito polemico che si manifesta di preferenza mediante una pungente ironia. Pubblicato dapprima nella Suite des mélanges de littérature d'histoire et de philosophie (Collection complète des oeuvres de Mr. de V., t. V, s.l. [ma Ginevra] 1757), lo scritto rivela nell'esordio stesso i suoi intenti e il suo carattere: " Vous voulez connaïtre le Dante. Les Italiens l'appellent divin, mais c'est une divinité cachée; peu de gens entendent ses oracles; il a des commentateurs, c'est peutêtre encore une raison de plus pour n'être pas compris. Sa réputation s'affermira toujours, parce qu'on ne le lit guère. Il y a de lui une vingtaine de traits qu'on sait par coeur: cela suffit pour s'épargner la peine d'examiner le reste ". Dopo aver dissertato vanamente sulle vicende del poeta e della Firenze dell'epoca (fra l'altro asserisce che la fazione dei Bianchi trasse il nome da una certa " Signora Bianca "), V. indugia sulla Commedia: " on a regardé ce salmigondis comme un beau poème épique ". Accenna brevemente alla materia della prima cantica fino all'ingresso di Dite e si domanda: " Tout cela est-il dans le style comique? non. Tout est-il dans le genre héroïque? non. Dans quel goût est donc ce poème? dans un goût bizarre ". Subito dopo assume, sia pure per poco, un tono più serio: " Mais il y a des vers si heureux et si naïfs, qu'ils n'ont point vieilli depuis quatre cents ans, et qu'ils ne vieilliront jamais "; e conclude l'articolo con la traduzione citata dei versi di If XXVII (che erroneamente attribuisce a If XXIII), una vera e propria parodia che fece annotare al Beuchot nella sua edizione delle Oeuvres de V. (t. XVIII, Parigi 1828-1834): " Il ne faut pas prendre cette traduction au sérieux, non plus que le reste de l'article ".
Su queste divagazioni dantesche di V., un italiano che insegnava a Londra, V. Martinelli (Montecatini 1702 - Firenze 1785), pubblicò due lettere indirizzate al conte di Orford, nipote di H. Walpole e omonimo di questi (in Lettere familiari e critiche, Londra 1758), definendo lo scritto di V. " discorso vano, arbitrario e falso ", di " inetta critica o piuttosto insipida maldicenza " e la traduzione dei versi di If XXVII " una stupida traduzione... in uno stile pulcinellesco ". In quel medesimo anno 1758, nella seconda metà di novembre, V. ricevette a Ferney la visita di S. Bettinelli che appunto l'anno precedente aveva pubblicato le Lettere virgiliane. Non è improbabile che un tale incontro, da cui prese l'avvio un interessante carteggio, abbia determinato V. a usare un maggiore rigore nei giudizi su Dante. Attenendoci alla cronologia, sarà piuttosto da pensare che siano state le Lettere virgiliane a stimolare in questo senso il filosofo. In una lettera al Bettinelli scritta " aux Délices près de Genève " e datata da T. Besterman (Correspondance, vol. XXXVIII, n. 7932) al 18 dicembre 1759, V. ritorna a fare una sia pur piccola concessione all'opera dantesca nel confronto con la profluvie di versi italiani occasionali del suo tempo; ma tutto sommato " le Dante pourra entrer dans les bibliothèques des curieux ". Contro l'atteggiamento critico nei confronti di D., vuoi del Bettinelli come del V., si leverà invece, fra tanti vani dibattiti, la voce efficace dello zurighese J.J. Bodmer (1763) cui si accorderà, soprattutto nel rilevare gli errori del V., un altro studioso svizzero, J.B. Merian di Basilea. Ma l'asprezza della polemica contro V. fu, com'è naturale, particolarmente intensa in Italia con reazioni di carattere nazionalistico che si opponevano spesso all'influsso francese sulla nostra cultura e sul nostro costume. Gli scritti più significativi in proposito rimangono il Discours sur Shakespeare et sur M. de V. (1777) del Baretti, nel quale si dimostra che V. conosceva D. meno ancora di quel che non conoscesse Shakespeare, e la Lettera sopra D.A. contro il Sig. di V. (1781) di G. Torelli.
Nel 1768 uscì a Parigi, presso il libraio Prault, nella " Collection des meilleurs auteurs dans la langue italienne ", una nuova edizione in due tomi della Commedia a cura dell'abate O. Marrini (Firenze 1722-1790). Nel primo tomo furono ristampate, alla distanza di dieci anni, le due lettere sopra D. di V. Martinelli indirizzate al conte di Orford. La polemica volterriana si riaccese così nelle tarde Lettres chinoises, indiennes et tartares (1776), in cui il filosofo ritorna (lettera XXII Sur le Dante et sur un pauvre homme nommé Martinelli) sui suoi giudizi danteschi ripetendo anche stancamente l'analisi in chiave burlesca del Dictionnaire philosophique. In forma aneddotica introduce a parlare il " maître de langue " Martinelli il quale rimprovera al Bayle e a lui, V., di aver detto molte schiocchezze su Dante. Il filosofo si mostra dapprima indignato, poi obietta rintuzzando le accuse con distacco ed espone in breve il contenuto della prima cantica. In quanto all'interesse del poema neppure parlarne: " Le Dante, qui avait été chassé de Florence par ses ennemis, ne manque pas de les voir en enfer, et de se moquer de leur damnation. C'est ce qui a rendu son ouvrage intéressant pour la Toscane. L'éloignement du temps a nui à la clarté; et on est même obligé d'expliquer aujourd'hui son enfer comme un livre classique. Les personnages ne sont pas si attachants pour le reste de l'Europe ".
Nella contemporanea Lettre à l'Académie Française (1776), V. ricorda ancora D. a proposito del titolo Commedia per concludere singolarmente che in Italia, sin dalla fine del sec. XIII, si rappresentarono lavori teatrali comici.
Nell'arco di tempo di una cinquantina d'anni la critica dantesca di V. non subì, dunque, alcun mutamento sensibile, eccetto quell'occasionale frattura che non corrisponde al minimo approfondimento. Critica di gusto, stretta agl'ideali classici del sec. XVII, fondamentalmente dogmatica, godette all'inizio, pur nelle implicazioni polemiche, di una sua spontaneità che si attenuò col passar degli anni per concedere sempre più agli umori e alle reazioni contingenti. Ma di siffatto immobilismo non è parte piccola il mancato allargamento della conoscenza dell'opera dantesca. Seppure con minori scompensi che nei riguardi di Shakespeare, V. mantenne ancorato il proprio giudizio sul poema di D. alla qualifica di " bizarre " che è spia d'intransigenza e di limiti invalicabili per i suoi principi di " buon gusto " che, pur respingendo i dogmi e le regole sotto la specie universale, ne ristabilivano l'autorità in nome di un ideale estetico personalmente asserito e difeso con armi intellettualmente più sottili e penetranti.
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