Vedi VOLTERRA dell'anno: 1966 - 1997
VOLTERRA (etr. Velathri; lat. Volaterrae)
Città della Toscana, sorge sopra un colle, tra i fiumi Cecina ed Era che, elevandosi con un'ampia terrazza (Pian di Castello) a m 552, digrada, nel versante N-O, fino a m 458 per una serie di ripiani sui quali vennero via via fissandosi gli insediarnenti urbani dopo la saturazione delle parti più alte del monte. Munitissimo bastione su cui s'imperniava il sistema di difesa dell'Etruria settentrionale, V. estese la sua influenza dal fiume Pesa al mare e dalla Cornia al torrente Fine, giungendo ad assicurarsi il controllo dei guadi del corso mediano dell'Arno. Fu una delle città menzionate tra le dodici capitali etrusche e poi fu municipio romano, ascritto alla tribù Sabatina. Il periodo della sua maggior floridezza economica sembra compreso fra il IV e il I sec. a. C.
1. L'abitato e le necropoli. - La cultura eneolitica in V. e nel suo territorio è documentata dalle tombe di Montebradoni, Guardistallo, Pomarance, contenenti sepolture con corredi dei tipi Rinaldone e Remedello. Scendendo alla Civiltà del Ferro, l'indagine archeologica rivela che tra il IX e il VII sec. a. C. andò sviluppandosi in V. un processo d'incremento demografico di apprezzabili proporzioni. Il sepolcreto di Badia, con la Guerruccia, che si riteneva rappresentasse la sola necropoli di quel periodo, è in effetti una frangia della fascia cimiteriale che, in età arcaica, contornò il centro abitato. I sepolcreti villanoviani presentano, frammiste tra loro, tombe di inumati a fossa e tombe di cremati. La tipologia di queste ultime è variatissima. Né mancano, spettanti all'ultimo stadio della Cultura del Ferro, tombe a camera scavate nella roccia, di piccole proporzioni, contenenti promiscuamente inumati e cremati. I tipi degli ossuarî e gli oggetti di corredo delle sepolture appartengono al generico repertorio villanoviano, e non può assolutamente parlarsi di una caratterizzazione volterrana della facies protoetrusca. Possiamo, se mai, notare una serie di ceramiche, le quali, per la loro sagoma o l'insistenza di alcuni elementi decorativi, riportano a un'industria locale: ossuarî e boccali di figulina dipinti, ziri ovoidali di terra rossastra decorati sulla spalla con bitorzoli o con cordoni a rilievo. L'ornamentazione geometrica dell'ossuario da Montescudaio (seconda metà del VII sec. a. C.) esprime questo gusto (fig. 1324). Scarsi sono in V. gli elementi della cultura orientalizzante. La ragione di questa lacuna, la quale contrasta con la ricchezza delle necropoli delle città marittime, e fra le altre la vicina Populonia (v.), è da attribuirsi alla dispersione dei materiali arcaici, sia per l'erosione delle Balze e il conseguente franamento di gran parte della necropoli di Badia, sia perché l'allargamento della cerchia muraria (IV sec. a. C.) determinò la sconsacrazione e il probabile sgombero delle sepolture munite di segnacolo o comunque individuabili, venute a trovarsi intra moenia. Le tombe a camera del Piano della Guerruccia (esplorate nel 1898-99), del piano di S. Chiara (scoperte casualmente nel 1932 e distrutte), di S. Giusto (di cui una riscoperta nel 1944, con dròmos, vestibolo e celle laterali), sono tombe arcaiche, le quali, essendo scavate nella roccia, rendevano superflua la costruzione di muri e di pseudo-cupole di copertura. Ciò spiega perché, salvo alcune eccezioni, di cui è superstite testimonianza la tomba delle Colombaie nelle pendici di mezzogiorno, a pianta rettangolare con pennacchi di raccordo angolari e vòlta aggettante, l'architettura funeraria delle necropoli urbane non offre quegli esempî di copertura a falsa vòlta con tumulo, che si ritrovano invece nell'agro (tombe a pianta circolare di Casale Marittimo e di Casaglia, grande tumulo di Castellina in Chianti). Allo ziro e agli ossuarî di pretta derivazione villanoviana succedono sia cinerarî in terracotta, che alla decorazione geometrica associano o sostituiscono motivi di influenza orientalizzante e ionica (v. vaso del Museo Guarnacci di tipo buccheroide con teste di ariete e figure di guerriero impresse a rilievo), sia urne in pietra di forma rettangolare con coperchio a doppio spiovente (urne delle tombe a thòlos di Casale Marittimo e di Casaglia, urna della tomba arcaica Cinci dei Marmini) o, talvolta, di forma globulare, del tipo detto a caldaia (urne da Casaglia). Prende consistenza, nel corso del VI sec. a. C., una corrente artistica di carattere locale, di cui sopravvivono alcuni esemplari di stele funerarie. Le stele arcaiche volterrane, di forma rettangolare centinata e contorno a riquadro che racchiude la rappresentazione di figure stanti - ne è prototipo il conosciutissimo pezzo di Avle Tite (voi. iii, fig. 563) - se riecheggiano accenti ionici, sono espressione di un'arte indigena che si va differenziando, nelle forme e nelle reazioni stilistiche, da regione a regione.
Una larga serie di bronzetti, in gran parte votivi, ritrovati sporadicamente in città, nel suburbio e nel contado, concorre ad illustrare l'attività economica e culturale di V. nel periodo arcaico.
L'abitato urbano, che nella fase primitiva si era disteso sull'arce sopra un'area di ha 5,20, circondata, almeno nei tratti meno scoscesi, da grosse muraglie di cui rimangono tracce, si espande in basso ed occupa il ripiano di Piazza e di S. Giovanni. È archeologicamente provato che la cortina perimetrale dell'arce di Castello fu allargata e completata per comprendervi i nuovi nuclei edilizi. Quest'opera, la seconda cerchia, (perimetro di circa m 1800) portata verosimilmente a termine fra la fine del VI e il principio del V sec. a. C., offre la misura dello sviluppo urbanistico di V. nella fase arcaica. Ma pur considerando tutti questi elementi positivi, pur conteggiando la distruzione di gran parte dei corredi arcaici e del primo classicismo, non crediamo che Velathri raggiungesse il grado di opulenza delle città costiere. I materiali d'importazione sono in verità molto scarsi; i vasi greci rappresentano una merce rara. V. è città strategicamente importante e demograficamente cospicua; è al centro di un vasto territorio dotato di notevoli risorse agricole e minerarie, ma la sua economia, seppur solida, non offre larghi margini di accumulazione capitalistica. Manca in V., probabilmente dominata da una élite fondiaria, una folta plutocrazia mercantile, quella classe cioè che fra il VII e il V sec. a. C., assicurò la grande fioritura delle lucumonie marittime.
Un'ulteriore opera di fortificazione perimetrale, forse la più imponente compiuta dagli Etruschi, è portata a termine nel primo cinquantennio del IV sec. a. C. o poco dopo. Questa cerchia muraria, formata da grandi pietre quadrangolari di panchina, si sviluppa per m 7280,73 occupando una superficie di ha 116. Essa dovette servire di rifugio alle genti del contado in caso di pericolo, ma dovette coincidere con un effettivo incremento demografico verificatosi in V. proprio nel periodo in cui il processo di decadenza della nazione etrusca è già avviato. Non è dubbio che l'invasione dei Galli nell'Etruria padana produsse l'esodo di buona parte della popolazione tirrena da quella regione. I discendenti di quei colonizzatori, che circa un secolo avanti avevano varcato gli Appennini (si ricordi che due stele felsinee del V sec. a. C. si riferiscono a personaggi della famiglia volterrana dei Cecina), percorrono ora a ritroso il cammino dei loro avi. Anche il territorio fiesolano, tra l'Arno e l'Appennino, lasciato indifeso alle incursioni dei Liguri, è abbandonato dagli abitanti. La perdita del predominio marittimo e il conseguente scadimento dei centri costieri; la graduale conversione dell'economia da mercantile-mineraria ad agricola; la pressione sempre crescente dei Romani, che provoca l'esilio o la spontanea emigrazione di molte famiglie dall'Etruria meridionale, sono gli altri fattori determinanti l'arroccamento dell'elemento etrusco nell'area delle lucumonie settentrionali. V. è una delle città che, per la sua posizione, maggiormente beneficia di questo nuovo ordine di cose. L'emissione di una propria moneta, l'aes grave librale (V. è l'unico centro etrusco di cui si conoscano con certezza le complete serie monetarie, in una delle quali appare il delfino, simbolo di attività marinara), comprova l'affermazione economica della città. Anche gli avvenimenti militari della prima metà del III sec. a. C., che si conclusero con la soggezione dell'intera Etruria a Roma, non ebbero riflessi negativi per V., la quale conservò i proprî ordinamenti e poté anzi allargare l'influenza culturale sul territorio. I materiali di Monteriggioni, Barberino, S. Gimignano, Malignano, Casole d'Elsa, Laiatico, Belora, ecc. sono di tipologia volterrana.
Le costruzioni posteriori e i rinterri, seppellendo i resti dell'abitato etrusco, hanno tolto la possibilità di valutare l'ampiezza dell'espansione urbanistica di V., che la successione delle cerchie murarie rappresenta nel suo complesso. Esplorazioni occasionali del sottosuolo, mettendo in luce bozzati di fattura etrusca, proverebbero che l'agglomerato urbano si estese particolarmente in quei settori (S. Michele, S. Francesco) che si proiettano, extra moenia, nell'area delle necropoli maggiori. Se ne è avuta conferma dallo scavo del teatro romano (v. più avanti, 3), essendosi rinvenuto sotto il piano dell'orchestra un lungo tratto di muro a filari orizzontali di pietre squadrate con prospettante lastricato. Il nucleo originario della città, il Piano di Castello, si ridusse ad acropoli e su di essa sorsero, fondati su resti di fabbriche preesistenti, gli edifici sacri. Il tempio, scoperto e scavato in parte nel 1926, contornato da un piano lastricato e racchiuso da un muro di cinta, è stato attribuito al IV-III sec. a. C., epoca alla quale debbono anche riportarsi le sostruzioni del teatro romano. Della grande cerchia muraria rimangono ancora in piedi, insieme a numerosi tratti, alcuni dei quali grandiosi, due porte orientate da S a N: la Porta all'Arco e il Portone, ora Porta Diana. La pianta originaria delle due costruzioni è identica, e identica è la struttura dei laterali; ma mentre il Portone non presenta alcuna traccia d'impostazione di archi (segno evidente che il passaggio da parte a parte era assicurato mediante opere in legname) la Porta all'Arco (Vol. v, fig. 386), è coperta da una poderosa vòlta il cui fornice anteriore esibisce, incastrate tra i conci di tufo, tre protomi scolpite nella pietra di Montecatini (selagite). La datazione di quest'arco lascia adito a molte perplessità. La contemporaneità con le mura è da escludere; e così evidenti sono le analogie con alcune strutture del teatro, che non si può non scorgervi l'impronta della tecnica romana. Anche se non vogliamo scendere al I sec. a. C., cui richiamerebbero gli episodî sillani, si può sempre assegnare l'opera fra la seconda metà del III ed il II a. C., mettendola in relazione all'esigenza di rafforzare gli apprestamenti di V., che i Romani certamente usarono come piazzaforte per le operazioni contro i Galli e i Liguri. La vastità delle necropoli del periodo ellenistico e l'abbondanza dei materiali che ne sono usciti, tra cui ori e bronzi, confermano l'importanza demografica di V. e la sua prosperità. Le tre aree cimiteriali arcaiche di Badia o di Montebradoni (ad esclusione della parte rimasta dentro le mura), del Portone o dei Marmini, di Ulimeto con l'appendice di Poggio alle Croci, adagiate sui tre speroni del monte rivolti a N-E, si estesero verso la campagna e si infittirono di sepolture. Le tombe a camera, sempre scavate nella falda di panchina e sormontate da tumulo con cippo, sono di forma rettangolare, talvolta con celle laterali come le arcaiche, o rotonde con pilastro centrale per sostegno della vòlta. I tumuli di alcuni ipogei erano costruiti in pietra, con zoccolo e podio a pianta quadrangolare o circolare (tombe a thòlos dei Marmini, descritte dall'Inghirami) con cippi a obelisco e a pigna.
2. La cultura artistica. - Quanto alle arti decorative, gli ultimi riflessi della cultura greca di età classica e l'ellenismo trovarono in V. fertile terreno di assimilazione. Dalla metà del IV sec. a. C. fiorisce una manifattura locale di ceramica dipinta, d'imitazione attica, di cui possiamo fissare una prima fase caratterizzata da stile severo ed una seconda fase nella quale prevale l'estro espressivo. Ed è questa la versione più conosciuta ed originale della ceramica volterrana (v. etruschi, vasi), la quale ebbe, nel suo complesso, un esteso mercato. Vasi di fabbrica volterrana sono stati ritrovati, oltre che nel territorio proprio, a Carmignano, Monte S. Savino, Asciano, Montepulciano, Arezzo, Perugia, Bologna, Spina (v. alto adriatica, ceramica). A botteghe locali spetta anche un tipo di ceramica piuttosto grossolana, di vernice nera a decorazione sovrammessa, con figure a contorno inciso o dipinte a stampo, databile circa il 280 a. C. Si propaga la ceramica nera a riflessi metallici, già detta etrusco-campana (v. vernice nera) ed alla sua produzione si dedicarono probabilmente anche le officine di Volterra. Da esse uscirono quegli esemplari, di crateri, di secchie con rilievi a stampo, di brocche, attribuiti alla "fabbrica di Malacena".
Ma è soprattutto nella plastica funeraria, rappresentata nelle urne cinerarie, che la tradizione artistica locale trova un suo particolare e raffinato accento. Se la maggior parte delle urne figurate rientra nella corrente produzione artigianale, a volte sciatta e uniforme, si contano però molti esemplari in cui il gusto e la capacità espressiva si accompagnano ad una eccezionale finezza di esecuzione. Le urne volterrane sono, nella quasi totalità, di tufo e di alabastro di escavazione locale. Il tufo ne inizia, ne accompagna e ne conclude la produzione; l'alabastro docile all'intaglio e suscettibile di policromia, si afferma verso la metà del III sec. a. C. e domina il mercato fino all'età di Augusto. È evidente nelle urne volterrane d'alabastro, specie in quelle di tema mitologico, lo sforzo dell'artefice di creare un effetto scenografico alle rappresentazioni del lato anteriore, staccando le figure dal piano di fondo ed inquadrandole in uno schema architettonico. L'immagine del defunto è quasi sempre convenzionale: ma non mancano, specialmente tra i coperchi seriori, veri ritratti che, per l'accentuazione realistica dei tratti e la freschezza di tocco, raggiungono un considerevole grado di originalità e di potenza espressiva. Il famosissimo coperchio "degli sposi", di terracotta lavorata a stecca, assurge a capolavoro dell'arte etrusca (vol. iii, fig. 595), anche se è lecito il dubbio sul suo intento ritrattistico.
3. L'età romana. - Se gli ipogei gentilizi continuarono ad essere utilizzati in età augustea e anche dopo, la loro costruzione cessò del tutto nel corso del I sec. a. C. Le sepolture dell'età imperiale si sparsero un po' dovunque, ma soprattutto nelle stesse aree delle necropoli ellenistiche. Dopo aver riempito le vecchie tombe familiari e gli accessi di queste, si deposero gli inumati (a volte coperti con tegoloni) e i cinerarî, alcuni di marmo, la maggior parte di terracotta greve, nel terreno sovrastante gli ipogei etruschi. I corredi sono scarsi e vanno diminuendo a mano a mano che avanziamo nel tempo: pochi pezzi di ceramica aretina o di imitazione, "lacrimatoi" in vetro, lucerne, vasi greggi. Alla povertà dei sepolcreti (eccetto, forse, qualche mausoleo di personaggio illustre) fa invece riscontro la ricchezza dei monumenti civici. La città, ridotta di popolazione, ma non economicamente depressa, sviluppò dopo l'emanazione della Lex lulia Municipalis (45 a. C.), che pose fine allo stato d'incertezza derivato dalle confische di Silla e dall'assegnazione delle terre ai veterani, un programma di opere pubbliche di notevole rilievo. Fuori delle mura dell'oppidum (seconda cerchia di mura), partendo da S. Michele, si formò, sui resti dell'abitato etrusco, un quartiere monumentale che, estendendosi fino alle Cetine, comprese il Foro, il teatro, un edificio termale, scavato in parte nel 1761, un tempio. Il teatro, risalente ad Augusto, fu costruito nell'ampia conca di Vallebuona, addossando la cavea alla collina, sulla quale, nel sec. XIII, si innalzarono le mura medievali. Poi l'area del teatro fu utilizzata per pubblico scarico, ed un imponente cumulo di detriti andò ricoprendo del tutto i resti del monumento. Gli scavi per riportarlo alla luce ebbero inizio nel 1950. Sono stati liberati il primo ordine di gradinate, il criptoportico, le pàrodoi, la scena e parte della porticus post scaenam. L'opera riflette il tipo classico del teatro romano; le pietre usate sono locali (panchina, tufo, selagite), ad eccezione dei marmi, in gran parte lunensi, impiegati con profusione. Fra i reperti di scavo sono degni di menzione due teste di Augusto ed un'epigrafe marmorea spettante ai Cecina, precipitata dalla scenafronte. Sull'acropoli fu costruita una grande cisterna (la cosiddetta Piscina), ancora in perfetto stato di conservazione, a tre navate, con pilastri in panchina, archi piani in tufo, vòlte, pareti e pavimento in conglomerato cementizio. Presso S. Felice sorse un nuovo edificio termale di ragguardevoli proporzioni. Scavato nel 1885 e poi abbandonato, restano di esso alcuni ruderi, un bel mosaico ed una sezione di calidarium. Epigrafi, sculture, frammenti di affreschi, mosaici, ritrovati in tempi diversi, testimoniano che V., seppur ridotta a città di provincia e tagliata fuori dalle grandi vie di comunicazione, mantenne nei secoli dell'Impero un discreto livello di vita e di cultura. Personaggi della famiglia etrusca dei Cecina si ritrovano a Roma in posizioni elevate. A V. nasce nel 34 d. C. il poeta satirico A. Persio Flacco.
4. Museo Etrusco Guarnacci. - L'origine del museo, che poi fu intitolato al Guarnacci, risale al 1732, anno in cui il canonico Pietro Franceschini donava al Comune un gruppo di circa 40 urne, casualmente ritrovate in un suo podere posto nella necropoli del Portone. Altre piccole donazioni seguirono tra il 1732 e il 1750; poi il Comune promosse alcuni scavi nei terreni di Badia e di Ulimeto, donde provengono lamine plumbee con iscrizione etrusca (1756). Con atto di donazione del 1761 mons. Mario Guarnacci (v.), legava al "Pubblico della città di Volterra" la sua biblioteca ed una magnifica collezione di materiali archeologici, frutto di una lunga serie di scavi e di acquisti. Nel 1785 il Comune entrava in possesso dell'eredità e trasferiva la raccolta guarnacciana nel Palazzo dei Priori, unendola agli oggetti che vi erano già esposti. Siccome mons. Guarnacci aveva anche costituito una rendita (andata dissolvendosi in questo nostro secolo per le svalutazioni monetarie) per la conservazione e l'accrescimento del museo, si poté acquistare, tra il 1807 e il 1811 (direzione Ormanni), la Collezione Topi, proveniente da eredità Franceschini, ed il Museo Pagnini, che era stato formato con materiali di scavo della necropoli del Portone. Nel I832 il vescovo Buonamici donava alcnni ori spettanti ad una tomba orientalizzante scoperta in Berignone Dopo alcuni anni di disinteresse per nuove accessioni, nel 1854 ebbe inizio un ciclo di attività archeo logica particolarmente proficua. La direzione del museo intraprese campagne di scavi nel suburbio volterrano ed acquistò da ricercatori privati alcune collezioni di urne e di vasi. Nel 1874, essendo ormai divenute insufficienti le sale del Palazzo dei Priori, il museo fu trasferito nell'ex palazzo Tangassi, all'uopo acquistato, ed ivi ordinato da Niccolò Maffei secondo un criterio ancora oggi valido per la suddivisione delle numerosissime urne (raggruppate secondo i temi per lo più mitologici delle loro raffigurazioni) che costituiscono la principale caratteristica di questo museo. Negli ultimi anni del secolo scorso il museo (direzione Solaini) si arricchì dei materiali villanoviani scavati nella necropoli di Badia, con i quali, e con altri oggetti già esistenti o successivamente ritrovati, è stato possibile ordinare (1956, direzione Fiumi) una Sezione Preistorica, cui fa riscontro una Sezione Romana che raccoglie, oltre a pezzi dell'antico fondo, i reperti dei recentissimi scavi del teatro di Vallebuona.
Materiali volterrani sono anche sparsi nei musei italiani e stranieri Le raccolte più iroportanti si trovano nel Museo Archeologico di Firenze al quale pervennero, tra l'altro, le ricchissime Collezioni Galluzzi e Cinci, acquistate dai Granduchi di Toscana rispettivamente nel 1773 e nel 1828. Al museo di Leida passò la Collezione Giorgi (scavi 1743), al Museo del Louvre i materiali Sermolli (scavi 1762-63), al Kunsthistorisches Museum di Vienna le urne già del Museo del Cataio, scavate da Saverio Giachi (acquisto 1786). Tra le collezioni private che posseggono oggetti di provenienza volterrana sono da ricordare quelle Antinori e Peruzzi di Firenze, Maffei di Verona (passata poi al Lapidario), Inghirami di Volterra.
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