voto
D. ne fa oggetto di una vera e propria trattazione (Pd V 19-84), la cui natura e i cui fini s'intendono meglio dalla sua conclusione (dal v. 64 in poi), decisamente parenetica, tutta tesa a deprecare i danni spirituali derivanti dalla leggerezza in fatto di v. e dal conseguente decadere di un aspetto del costume religioso.
Il pensiero di D. su questa materia, allora scottante e senza dubbio molto discussa, particolarmente in rapporto al v. di povertà, è dominato da idee perentorie sin dalle premesse di fatto: a Piccarda e a Costanza è ascritto a demerito l'aver ceduto, per il timore di un pericolo maggiore, alla violenza di chi le trasse fuori dal monastero, cui si erano votate, e comunque il non esservi ritornate appena possibile. Non basta che Costanza non fosse dal vel del cor già mai disciolta (Pd III 117), perché la vera volontà è eroica e fermissima fino alle estreme conseguenze: è quella di s. Lorenzo, impassibile dinanzi al martirio, è quella di Muzio Scevola, a la sua man severo (IV 73-87).
Responsabilizzando la volontà fino a tal punto, D. arriva al centro della sua concezione del voto. " Votum a voluntate accipit nomen, quasi a primo movente ", aveva affermato s. Tommaso (Sum. theol. II II 88 1 2): per D., che probabilmente parte dalla stessa etimologia, la volontà è invece non solo il primo movente del v., ma il suo essenziale fondamento. Quando si formula un v., non questo o quel bene viene offerto a Dio, ma anzitutto la libertà del volere, cioè il più grande tesoro che l'uomo possegga, avendolo in comune solo con le creature superiori; anzi è proprio la libertà del volere che sacrifica sé stessa, e lo fa con un proprio atto (che così è anche il suo ultimo, finché l'impegno contratto con Dio non venga mantenuto).
Con ciò chi ha fatto un v. viene a trovarsi, per D., in una condizione sublime e tremenda. La drammaticità del patto, di cui ha parlato la critica (Cosmo, Sapegno), traspare effettivamente dalla salda struttura assiomatica e sillogistica dei versi danteschi: colui che ha assunto un tale legame non può più disporre della libertà della sua volontà, dovendo indirizzarla a un unico e ben determinato fine. E poiché essa è, come si è visto, un bene senza pari, nulla vale a riscattarla quale adeguato compenso: sarebbe uno scambio sacrilego, come se qualcuno pensasse di poter destinare a fin di bene ciò che ha rubato. L'indissolubilità del v. è quindi un principio indiscutibile (V 19-33).
Ma perché la Chiesa concede delle dispense? Per rispondere a questa domanda D. opera una sottile distinzione fra il vero e proprio patto con Dio e la sua ‛ materia '. Solo quest'ultima può essere cambiata, ma previo il consenso dell'autorità religiosa e mediante un bene decisamente superiore (V 34-60). In tal modo, mentre il poeta vuole spiegare la ragione delle ‛ dispense ' concesse dalla Chiesa, dichiara legittime solo le ‛ commutazioni '; e al momento di fissarne la misura si mostra più rigoroso delle pur rigide prescrizioni ebraiche, che quando dalla varia e minuziosa casistica passano a una proporzione numerica, fissano a non più di un quinto l'eccedenza dell'offerta realmente fatta su quella promessa in un primo tempo (Levit. 27, 13-31).
La parte dottrinale dell'esposizione termina con l'affermazione che, quando la materia del v. è superiore a qualsiasi altra, nessuna commutazione è più possibile; e in ciò D. è d'accordo con s. Tommaso, se, com'è probabile, qualunque cosa tanto pesa / per suo valor che tragga ogne bilancia (Pd V 61-62) si deve identificare, per la chiara allusione a Piccarda e a Costanza, con il " solemni voto continentiae per professionem religionis consecrato ", del quale la Summa theologica (q. cit. 11c) nega la possibilità di dispensa anche al sommo pontefice. Ma per il resto tutti i tentativi di raffronto con il pensiero dell'Aquinate, quale risulta dai dodici articoli della suddetta quaestio, espressamente dedicata al v., non hanno portato a risultati apprezzabili. Poeta e pensatore appaiono lontanissimi per l'opposta soluzione data al problema centrale della dispensabilità e per la rigorosa condizione posta da D. per la commutazione. Il principio stesso sul quale si fonda tutto il ragionamento del poeta (il v. come sacrificio a Dio della libera volontà, non " secundum quid " ma in assoluto) verosimilmente sarebbe stato messo in dubbio da un filosofo di professione. Del sacrificio della volontà s. Tommaso parla in un altro luogo della Summa (II II 186 8), ma per un caso particolarissimo, per il v. d'obbedienza, che è superiore a quelli di povertà, di castità e a qualsiasi altro, perché con esso " Deo homo offert totam suam voluntatem, quae omnibus corporis et fortunae bonis longe praestantior est ". A tale superiore livello il poeta intende invece innalzare ogni tipo di v., purché sia pienamente accetto a Dio (s'è sì fatto / che Dio consenta quando tu consenti, V 26-27); e a tanto egli giunge, anche a costo di esasperare il suo pensiero, perché gli preme sottolineare vigorosamente l'alto valor del voto, che vede decaduto nella coscienza dei contemporanei.
Più che nella dottrina tomistica la sua fonte d'ispirazione è da ricercarsi nella Bibbia, che oltre a essere molto ‛ precisa ' (nel senso dantesco) per la commutazione, impone piena consapevolezza nelle promesse fatte a Dio e assoluta prontezza e fedeltà nel mantenerle: " Cum votum voveris Domino Deo tuo, non tardabis reddere, quia requiret illud Dominus Deus tuus; et, si moratus fueris, reputabitur tibi in peccatum. Si nolueris polliceri, absque peccato eris; quod autem semel egressum est de labiis tuis observabis et facies sicut promisisti Domino Deo tuo et propria voluntate et ore tuo locutus es " (Deut. 23, 21-23); " Si quid vovisti Deo, ne moreris reddere; / displicet enim ei infidelis et stulta promissio; / sed quodcumque voveris redde; multoque melius est non vovere quam post votum promissa non reddere " (Eccl. 5, 3-4). ‛ Non è peccato non promettere ', ‛ è molto meglio non promettere... ': mentre circonda la promessa di un'atmosfera di solenne sacralità, il testo biblico si preoccupa di mettere in guardia da una pratica troppo corriva e di prevenirne gli abusi; e D. è, anche per questo, sulla stessa linea. S. Tommaso insegnava che " laudabilius et magis meritorium est quidpiam ex voto Tacere quam sine voto " (Sum. theol. II II 88 6c), con parole che sono più che uno stimolo e un incoraggiamento; al contrario D. impiega i ventun versi della sua conclusione per ricordare con quanta cautela bisogna ricorrere al v., in cui è così facile cadere nell'errore ed essere sconsiderati.
‛ Bieco ' nella mente, cioè di scarso senno, fu Iefte a fare una promessa in seguito alla quale dovette immolare la figlia; altrettanto stolto fu Agamennone, il gran duca de' Greci (Pd V 69), che si costrinse, sempre a causa di una promessa avventata, a macchiarsi dello stesso delitto. I cristiani dovrebbero essere più ponderati di costoro, non obbedire al primo impulso e non credere che qualsiasi offerta votiva sia un mezzo valido per la salvazione dell'anima: per questo sono sufficienti la Sacra Scrittura e il magistero papale. Se c'è qualcuno interessato a sostenere il contrario, per il proprio tornaconto, bisogna che il credente risponda con la sua dignità di uomo (uomini siate, e non pecore matte, V 80), sì che gli infedeli non abbiano a deridere le manifestazioni del suo culto. Allontanandosi dalle vere fonti della dottrina cristiana, farebbe come un agnello che, nella sua irrazionale irrequietezza, lascia il latte della madre e finisce col fare male a sé stesso (vv. 64-84).
In questa parte finale il v., in quanto contratto con eccessiva leggerezza, è additato come un pericolo: come fonte di azioni inconsulte, di illusioni, di speculazione da parte di gente ingorda e d'irrisione da parte degli estranei; entro questo intento generale vanno spiegati i versi sulla cui interpretazione i commentatori non sono concordi (v. 75 e non crediate ch'ogne acqua vi lavi; v. 79 Se mala cupidigia altro vi grida; v. 81 sì che 'l Giudeo di voi tra voi non rida). L'esortazione centrale è quella del v. 73 (Siate, Cristiani, a muovervi più gravi), che sembra riflettere la preoccupazione essenziale del poeta, la prima origine di questa digressione sul voto.
Perché D. non parla di un pericolo ipotetico, ma di un fenomeno da lui constatato e condannato. Dietro l'incalzare delle ammonizioni e degli avvertimenti s'intravede un quadro reale di stoltezza diffusa e di vuoto della coscienza religiosa, molto simile a quello, più chiaramente espresso, di XXIX 103-126, cui richiamano alcuni significativi ritorni di immagini e di parole (XXIX 105 in pergamo si gridan, V 79 mala cupidigia altro vi grida; XXIX 106-107 le pecorelle, che non sanno, / tornan del pasco pasciute di vento, V 80-83 pecore matte... agnel che lascia il latte / de la sua madre; XXIX 110 Andate, e predicate al mondo ciance, V 64 Non prendan li mortali il voto a ciancia; XXIX 121 tanta stoltezza in terra crebbe, V 65-69 bieci, / come Ieptè... così stolto / ... il gran duca de' Greci; e nella terzina XXIX 124-126 prende corposamente figura, nel porco sant'Antonio, la mala cupidigia di V 79, che spinge i fedeli a fare offerte votive).
E proprio perché il quadro è scandaloso e desolante, fino al punto da far apparire compromesse le prerogative stesse della razionalità umana, e tutto ciò si deve al lassismo e all'irresponsabilità, proprio per questo è molto probabile che il poeta sia stato spinto, per naturale reazione, a formulare sul v. delle norme molto dure. Nella parte dottrinale cova già lo sdegno: essa non è fine a sé stessa. Finora gli studiosi non hanno precisato quanto abbia agito sulla posizione di D. l'influenza, cui vien fatto subito di pensare, delle correnti più rigoristiche del cattolicesimo nei secoli XIII e XIV, per esempio degli spirituali. È certo comunque che dai suoi versi traspare l'intenzione di affermare dei principi molto diversi da quelli ritenuti comunemente validi per il fatto stesso della loro consueta applicazione. Dottrina, deprecazioni e ammonimenti sono messi in bocca a Beatrice, la Verità in persona, e il suo diretto intervento è, a conclusione, ribadito, quasi a evitare ogni ombra di dubbio: Così Beatrice a me com'ïo scrivo (V 85). È stato giustamente osservato che la dieresi di io sottolinea il mandato personale ricevuto dal cielo, cioè l'atteggiamento originale e innovatore che il poeta intende assumere.
In questa sua disposizione a colpire quella che a lui sembrava una degenerazione dalla retta via, va inquadrata la frequenza - qui più accentuata che in qualsiasi altro luogo della Commedia - degli appelli alle fonti prime dell'insegnamento cristiano, alle istituzioni, ai simboli: la Santa Chiesa (V 35), la volta / e de la chiave bianca e de la gialla (vv. 56-57), il novo e 'l vecchio Testamento (v. 76), il pastor de la Chiesa (v. 77). La parola di Dio, espressa dalle Sacre Scritture e dal suo rappresentante in terra, è sufficiente per la salvezza; ad allontanarsene si rischia di fare come il semplice e lascivo agnello, che si muove scompostamente e senza costrutto, lontano dal latte / de la sua madre. Può significare qualche cosa che in questa occasione D. adoperi un'immagine simile a quella suggeritagli dal comportamento di chi ha combattuto Enrico VII, simile in ciò al fantolino, / che muor per fame e caccia via la balia (XXX 140-141). In ambedue i casi il vero nutrimento, civile e spirituale, per questa e per l'altra vita, viene riportato ai vertici supremi; e non attingervi direttamente è considerato una stoltezza.
Oltre che nei tre canti specifici (Pd III 30, 57 e 101, IV 137, V 14, 26 e 64) il termine ricorre in If XXVIII 90 e Pd XXXI 44. In quest'ultimo verso (nel tempio del suo voto riguardando) si allude a uno dei v. più tipici dell'epoca, il pellegrinaggio a un santuario. Nell'unica occorrenza in rima (Pd III 30) è equivoco con vòto; la stessa equivocazione si ha nel corpo del verso III 57 (li nostri voti, e vòti in alcun canto), che continua la serie dei riecheggiamenti fonici dei momenti più elaborati, e talvolta più musicali, del canto (v. 12 non sì profonde che i fondi sien persi; vv. 50-51 posta qui con questi altri beati, / beata sono, ecc.).
In Detto 398 ricorre la locuzione ‛ far voto '.
Nelle opere latine il termine è presente solo in Ep VII 6, con accezione classica (vota sua praevenientes: precorrendo l'avverarsi dei loro desideri).
Bibl. - Si vedano le ‛ lecturae ' dei canti III, IV e V del Paradiso; in particolare la ‛ lectura ' assai ricca che del c. V ha fatto M. Pastore Stocchi, in Nuove Lett. Classensi V (1972) 341-374: egli sostiene che la posizione di D. sia in polemica con i decretalisti.