VULCANOLOGIA (XXXV, p. 617; App. II, 11, p. 1128)
Gli obiettivi che la v. si prefigge attualmente sono la comprensione dei meccanismi di formazione dei magmi nell'interno della Terra, del loro trasporto in superficie, dei parametri fisico-chimici che controllano la loro composizione, e lo sviluppo di metodologie che permettano di prevedere l'inizio di un'eruzione e, una volta iniziata l'attività eruttiva, di predirne l'evoluzione nel tempo.
Distribuzione dei vulcani. - Sulla Terra esistono più di 500 vulcani per i quali l'uomo ha registrato o tramandato notizie di attività eruttiva. Altri 250 circa sono stati certamente attivi in epoche geologicamente molto recenti (entro qualche decina di migliaia di anni). La distribuzione di questi vulcani sulla superficie terrestre non è casuale, ma mostra una marcata correlazione con strutture geologiche e lineamenti tettonici ben definiti. Infatti circa il 70% dei vulcani attivi è associato a sistemi orogenici a cordigliera di origine recente (per es. le Ande) oppure ad archi di isole (quali per es. il Giappone, l'Indonesia, le Egee, le Eolie). Queste strutture sono anche caratterizzate da un'intensa attività sismica, con ipocentri sia superficiali sia profondi (da 100 a 700 km); gli ipocentri, proiettati su di un piano verticale normale alla direzione dell'arco, definiscono un piano, chiamato "piano di Benjoff", inclinato da 15° a 75°, che s'immerge generalmente dall'area oceanica verso quella continentale. Questi terremoti sono generati da sforzi caratterizzati in molti casi dall'avere l'asse di massima compressione orientato secondo il piano di Benjoff. L'espressione più esterna di queste strutture è rappresentata da una fossa oceanica, profonda fino a 6 km, parallela al fronte vulcanico e distante da esso da 50 a 250 km. Spesso tra l'arco vulcanico e la fossa è interposta una catena formata da rocce metamorfiche (cintura metamorfica esterna). I magmi alimentanti l'attività vulcanica in queste aree appartengono alla serie "calco-alcalina", i cui termini più diffusi sono le andesiti. Queste rocce sono caratterizzate da elevati tenori di allumina (superiori al 16% in peso), da concentrazioni in alcali intorno al 4 ÷ 5%, da contenuti in ferro non superiori all'8%. Sono state riscontrate in alcuni casi variazioni abbastanza regolari della composizione chimica nello spazio e nel tempo. La più evidente è l'aumento del rapporto potassio/silicio e del rapporto potassio/sodio con l'aumentare della distanza del vulcano dalla fossa oceanica. Del restante 30% dei vulcani attivi, circa la metà è localizzata lungo le dorsali medio-oceaniche e i sistemi di fratture a esse associati, mentre l'altra metà è ubicata nell'interno delle aree continentali o dei bacini oceanici in corrispondenza di strutture caratterizzate da una vistosa tettonica distensiva (v. geologia, in questa Appendice). Il vulcanismo nelle zone di dorsale consiste soprattutto in eruzioni sottomarine e solo raramente i prodotti eruttati si accumulano a formare un'isola. L'attività vulcanica è alimentata da magmi di composizione basaltica, cioè caratterizzati da contenuto in ferro più elevato del 10%, contenuto in alcali inferiori al 4%, con concentrazione in potassio inferiore all'1%. I basalti delle dorsali oceaniche appartengono a una categoria di basalti, chiamati "tholeiitici", impoveriti in elementi alcalini, titanio, fosforo. La continuità delle dorsali medio-oceaniche è interrotta frequentemente da grossi sistemi di frattura, perpendicolari alla direzione della dorsale, che la frammentano in segmenti traslati lateralmente fino a qualche centinaio di km. Le più studiate di queste linee di frattura sono quelle che sezionano la dorsale medio-atlantica all'altezza dell'Equatore (Vema e Romanche). Esse sono interessate da attività sismica poco profonda, con orientazione degli sforzi tale da indicare uno scorrimento laterale delle due labbra della frattura. Morfologicamente queste zone di frattura sono formate da una ripida fossa e da un rilievo a essa adiacente. Quest'ultimo è a volte formato da peridotiti (rocce a elevato contenuto in ferro, e soprattutto in magnesio: quest'ultimo può raggiungere concentrazioni intorno al 35%), che si suppone costituiscano frammenti affioranti del mantello superiore. Il vulcanismo in queste aree è piuttosto scarso, ed è comunque alimentato da magmi basaltici. A differenza dei basalti delle dorsali, quelli delle zone di frattura hanno natura più alcalina, essendo caratterizzati da contenuto in potassio che raggiunge l'1,5%, elevate concentrazioni di sodio, altri elementi alcalini, titanio, fosforo.
Una parte dell'attività vulcanica delle aree oceaniche è concentrata in isole lontane sia dalle dorsali sia dai sistemi di frattura associati. Queste isole, esempio tipico delle quali sono le Hawaii, si trovano in aree caratterizzate da una vistosa tettonica distensiva e da un'attività sismica abbastanza intensa e superficiale. I magmi alimentanti queste attività hanno composizione basaltica, di carattere prevalentemente tholeiitico, passante ad alcalino nelle ultime fasi di attività. In alcuni casi le isole oceaniche formano delle catene più o meno lineari che sembrano essere l'espressione di una migrazione nel tempo dell'attività vulcanica. Anche nell'interno di aree continentali esistono numerosi vulcani ubicati lungo zone interessate da un'evidente tettonica distensiva. L'esempio più tipico di attività vulcanica di questo tipo è quello associato al Rift dell'Africa orientale. Attività vulcaniche rientranti in questa categoria esistono anche in Italia, nella regione campano-laziale e nella Sicilia orientale. Esse sono alimentate da magmi di composizione alcalina (per es., Sicilia orientale) o fortemente alcalina con contenuto in potassio che giunge fino al 10% e contenuto totale in alcali intorno al 15 ÷ 16% (per es., nella regione campano-laziale). In passato molte aree continentali sono state interessate da grosse eruzioni fissurali, alimentate da magmi basaltici (sia tholeiitici sia alcalini), che hanno formato estesi plateau ricoprendo superfici dell'ordine delle centinaia di migliaia di km2. Il più esteso plateau basaltico è quello del Karroo, nell'Africa meridionale, formatosi circa 150 milioni di anni fa e che ricopre un'area di circa due milioni di km2.
Le differenze di composizione dei magmi eruttati nei diversi ambienti tettonici trovano una soddisfacente spiegazione nell'ambito della teoria della tettonica a zolle. Questa teoria, elaborata negli anni Sessanta soprattutto in base ai dati geofisici raccolti nelle aree oceaniche, riunisce in un modello unitario e coerente tutti i dati geofisici, geologici, vulcanologici e geochimici, fornendo una spiegazione estremamente semplice dei fenomeni dinamici interessanti la parte superficiale del nostro pianeta. Ricordiamo che, secondo la teoria (v. anche geologia, in questa App.), la parte superficiale della Terra (litosfera) è costituita da un numero piccolo di zolle rigide, di spessore medio di circa 100 km. Le zolle sono in movimento le une rispetto alle altre in quanto vengono trascinate dai lenti moti convettivi che interessano l'astenosfera, la quale costituisce il basamento viscoso sul quale poggia la litosfera. La litosfera include sia la crosta terrestre sia la parte più alta del mantello superiore. Le principali zone di attività sismica e vulcanica (dorsali medio-oceaniche, margini continentali, archi di isole) rappresentano le zone di contatto tra le singole zolle. In particolare, le dorsali medio-oceaniche, caratterizzate da attività sismica legata a sforzi di tensione diretti normalmente all'asse delle dorsali e da vulcanismo basaltico-tholeiitico, rappresentano aree di contatto tra zolle in allontanamento. In queste zone, l'astenosfera risale verso la superficie e produce, per decompressione, enormi quantità di liquidi basaltici che, giungendo in superficie, e raffreddandosi, producono nuova litosfera. È stato calcolato che circa 5 km3 di litosfera vengono prodotti per anno lungo le dorsali medio-oceaniche. I margini continentali e gli archi di isole, caratterizzati da terremoti intermedi e profondi i cui ipocentri definiscono il piano di Benjoff, da un regime tettonico compressivo che ha prodotto l'accavallamento in falde delle formazioni geologiche e da un'attività vulcanica di natura calco-alcalina, rappresentano zone di contatto tra zolle di litosfera convergenti. Il piano di Benjoff viene interpretato come la traccia di una zolla rigida di litosfera che "subduce" o s'immerge al di sotto dell'altra zolla penetrando nell'astenosfera. Le zone di frattura trasversali alle dorsali rappresentano zone di contatto tra zolle che scorrono lateralmente le une rispetto alle altre. Il vulcanismo interno alle zolle (sia continentali sia oceaniche) viene associato all'instaurarsi all'interno di esse di campi di sforzi che provocano la fratturazione della litosfera. Negli ultimi anni è stata avanzata l'ipotesi che questo vulcanismo possa essere dovuto alla risalita verso la superficie terrestre di hot plumes (pennacchi caldi) provenienti dalle parti profonde del mantello, dove si sono venuti a trovare in condizioni d'instabilità a causa della loro temperatura elevata. Gli epicentri delle plumes sarebbero stazionari nel tempo e lo scorrimento delle zolle di litosfera al di sopra di essi produrrebbe la migrazione dell'attività vulcanica in direzione opposta a quella di movimento delle zolle. L'ipotesi delle plumes è stata in seguito estesa anche alle "giunzioni triple" tra dorsali medio-oceaniche e fratture trasversali. Alcuni geochimici hanno suggerito che le piccole differenze di composizione osservate tra i basalti tholeiitici delle dorsali possano essere dovute al mescolamento in diverse proporzioni tra il materiale costituente le plumes e quello costituente la normale astenosfera. Le ragioni per cui nelle aree a regime tettonico prevalentemente "distensivo" vengono eruttati magmi basaltici, mentre in quelle a regime prevalentemente compressivo vengono eruttati magmi calco-alcalini possono essere chiarite solo comprendendo come si formano i magmi e quali sono i fattori che influenzano la loro composizione.
Genesi dei magmi. - Il problema della genesi dei magmi è uno dei più tipici argomenti interdisciplinari nel campo delle scienze della Terra. Il fatto che nelle aree oceaniche vengano emessi magmi basaltici dimostra che questi magmi sono formati per fusione parziale delle peridotiti costituenti il mantello superiore, in quanto l'entità del flusso di calore attraverso i fondi oceanici fa escludere che nella esile crosta oceanica possano instaurarsi condizioni termiche adatte alla sua fusione parziale. I dati geofisici (caratteristiche della propagazione delle onde sismiche, dei campi gravitazionale, elettrico e magnetico, distribuzione del flusso di calore, ecc.) consentono di conoscere le variazioni verticali e laterali di numerosi parametri fisici nel mantello terrestre. È possibile inoltre riprodurre in laboratorio le condizioni di temperatura e pressioni esistenti fino a circa 100 km di profondità. In questo modo è possibile studiare in laboratorio gli equilibri di fusione di rocce peridotitiche sotto alte pressioni e inoltre verificare gli equilibri chimici nei magmi prodotti alle diverse condizioni fisiche che essi incontrano durante la loro ascesa verso la superficie terrestre. Ulteriori vincoli ai modelli possibili sono forniti dalle distribuzioni nelle rocce peridotitiche e basaltiche, e nelle fasi minerali che le costituiscono, di alcuni elementi (per es. terre rare, torio, uranio, ittrio, cobalto, nichel, ecc.), la cui ripartizione tra la fase solida e quella liquida è controllata da leggi termodinamiche molto semplici, in quanto essi sono presenti nei magmi in piccolissime quantità, e dalla composizione isotopica di alcuni elementi, quali lo stronzio e il piombo, che hanno isotopi radiogenici. Tutti questi dati indicano che i magmi basaltici possono essere prodotti per fusione parziale delle peridotiti e che la composizione del magma prodotto è influenzata dalla profondità, dalla frazione di roccia portata in fusione, dalla pressione di acqua e di anidride carbonica. In generale, fusioni a piccola profondità con percentuali di liquido dal 15 al 30% producono magmi di composizione tholeiitica, mentre fusioni a profondità maggiori con percentuali di liquido intorno al 5% forniscono magmi di composizione alcalina. Il problema della genesi dei magmi calco-alcalini è ulteriormente complicato dal fatto che non si può escludere a priori che la crosta possa contribuire in modo significativo alla loro genesi, in quanto essi vengono eruttati anche in aree continentali, dove la crosta è spessa alcune decine di km (e quindi non è impossibile che in essa si raggiungano condizioni favorevoli alla fusione parziale), e al di sotto della quale esiste una zolla di litosfera in subduzione, la cui parte superiore è formata da crosta oceanica. In conseguenza di ciò, il numero dei modelli genetici proposti è notevole; quelli attualmente più attendibili sono riconducibili ai seguenti schemi: a) fusione parziale della crosta oceanica che forma la parte superiore della zolla in subduzione; b) fusione parziale dell'astenosfera sovrastante la zolla in subduzione, facilitata dall'apporto di sostanze ad alta tensione di vapore provenienti dal degassamento della sottostante crosta oceanica.
Rischio vulcanico e previsione delle eruzioni. - Molti dei vulcani attivi sono ubicati in regioni densamente popolate. È questo il caso, per es., di molti vulcani del Giappone, dell'America Centrale, dell'Indonesia, delle Filippine e, in Italia, del Vesuvio, dei Campi Flegrei, dell'Etna. È stato calcolato che negli ultimi 500 anni circa 200.000 persone hanno perso la vita per effetto diretto o indiretto di eruzioni vulcaniche. Circa la metà di queste è rimasta vittima dell'eruzione del Tambora, nell'isola di Sumbawa in Indonesia, nel 1815. L'energia liberata in questa eruzione è stata calcolata in 84 • 1026 erg (per confronto basti pensare che l'energia liberata nell'esplosione di una bomba all'idrogeno è di circa 1021 erg). Altre eruzioni di estrema violenza avvenute negli ultimi 100 anni sono state quelle del Krakatau (Indonesia) nel 1883, che causò la morte di circa 36.000 persone nelle vicine isole di Sumatra e Giava, e quella del Bezymianny (Camciatca) nel 1956, che liberò un'energia di 2,2 • 1025 erg (e per fortuna avvenne in una zona completamente disabitata). L'energia calcolata per l'eruzione del Vesuvio del 1944 fu dell'ordine di 1024 erg, mentre quelle di eruzioni recenti dell'Etna (1971 e 1974) sono dell'ordine di 1024 e 1022 erg rispettivamente. In genere le eruzioni più violente sono quelle dei vulcani degli archi insulari e dei margini continentali, in quanto la maggiore viscosità dei magmi calco-alcalini consente un maggiore accumulo di energia. Il problema della previsione e del controllo delle eruzioni assume quindi per queste aree una notevole importanza economico-sociale. Esso viene generalmente affrontato cercando d'individuare dei fenomeni premonitori e di stabilire su basi statistiche delle relazioni tra caratteristiche del fenomeno e attività vulcanica.
I fenomeni premonitori sui quali si è maggiormente concentrata l'attenzione dei vulcanologi sono i terremoti, le deformazioni del suolo, le variazioni del regime termico superficiale, della composizione dei gas e dei campi elettrico e magnetico. Per stabilire correlazioni statistiche è necessario raccogliere un elevato numero di dati nelle diverse fasi di attività del vulcano ed è quindi essenziale che il fenomeno prescelto venga osservato con la maggiore continuità possibile. Osservazioni continuative sono state effettuate solo per quei pochi vulcani sui quali esiste un osservatorio, e cioè alcuni vulcani del Giappone, il Kilauea (Hawaii), il Vesuvio, alcuni vulcani della Nuova Zelanda, dell'Indonesia e del Camciatca. Gran parte delle nostre conoscenze sull'attività vulcanica provengono da questi vulcani, che rappresentano meno del 5% del totale dei vulcani attivi. Inoltre, solamente l'attività sismica è registrata in tutti gli osservatori. Da queste osservazioni si evince chiaramente che il grado di conoscenza che abbiamo sulla dinamica dell'attività vulcanica è decisamente insoddisfacente.
È noto che le eruzioni sono spesso precedute da un notevole incremento nell'attività sismica. In alcuni casi, come, per es., per il vulcano Asama in Giappone o per alcuni vulcani del Camciatca, sono state ricavate delle relazioni probabilistiche basate sul numero giornaliero di scosse sismiche. L'aumento d'intensità e di frequenza dei terremoti prima dell'inizio di un'eruzione è un fenomeno che avviene principalmente nei vulcani a prevalente attività esplosiva, come in genere sono quelli alimentati da magmi andesitici. Nei vulcani basaltici è spesso presente un microtremore continuo con frequenza compresa tra 0,1 e 10 Hz. In alcuni casi è stato notato che l'ampiezza del tremore aumenta a partire da alcuni giorni o alcune ore prima dell'eruzione, e diminuisce poi bruscamente immediatamente prima dell'inizio dell'attività eruttiva. L'origine dei terremoti e dei tremori vulcanici non è ancora chiara e probabilmente le cause sono molteplici (effetti termoelastici, gradienti di pressione, fratturazioni delle rocce formanti il condotto in seguito alla pressione esercitata dal magma, esplosioni, ecc.).
La risalita di magma verso la superficie terrestre provoca spesso deformazioni del suolo, variazioni nel regime termico superficiale, nella composizione dei gas emessi e nelle caratteristiche del campo magnetico terrestre. Le deformazioni del suolo sono a volte vistose, raggiungendo i metri o le decine di metri di sollevamento verticale, come nel caso dell'eruzione del Monte Nuovo nei Campi Flegrei nel 1538 o dello Shōwa Shinzan in Giappone nel 1943. Più spesso però le deformazioni coinvolgono sollevamenti verticali dell'ordine di cm e variazioni orizzontali di distanza dell'ordine dei cm per km. Esse quindi devono essere misurate mediante livellazioni altimetriche, misurazioni di distanze con metodi interferometrici, registrazioni clinometriche, ecc. Queste osservazioni sono state effettuate soprattutto al Kilauea, e sui vulcani Sakura-jima e Miyake-jima in Giappone. Al Kilauea è stata osservata una notevole regolarità nell'andamento delle deformazioni del suolo in relazione all'attività eruttiva: il vulcano si rigonfia lentamente fino a produrre variazioni di distanza dell'ordine di 60 cm per km e oltre, dopodiché inizia l'attività eruttiva, seguita da un collasso della regione sommitale del vulcano.
Le variazioni termiche prodotte dall'avvicinarsi del magma sono essenzialmente dovute al trasporto di calore da parte dei fluidi (gas e acque circolanti) data la bassissima conduttività termica delle rocce. Su alcuni vulcani vengono quindi periodicamente misurate le temperature delle fumarole e delle acque. Almeno in un caso (l'eruzione del 1965 del vulcano Taal nelle Filippine) queste misure si sono mostrate utili a diagnosticare la possibilità di un'eruzione entro breve tempo. Un progresso qualitativo in questo campo sarà possibile sostituendo alle misurazioni effettuate in pochi punti le determinazioni del flusso di energia radiante da aree molto estese mediante tecniche di radiometria nelle diverse bande spettrali sia da terra, sia da aerei, elicotteri o satelliti.
Le principali variazioni nella composizione chimica dei gas osservate prima dell'inizio di importanti fasi di attività eruttiva sono variazioni nei rapporti solfati/cloruri e nelle concentrazioni di radon.
Sono state osservate variazioni d'intensità del campo magnetico naturale che hanno preceduto di alcune ore o alcuni giorni l'inizio di importanti fasi di attività durante recenti eruzioni del Kilauea, dell'Etna, dei vulcani neozelandesi Ruapehu e Ngaruhoe. In altri casi sono state osservate lente variazioni a partire da qualche mese prima dell'eruzione. Probabilmente i fenomeni del primo tipo sono dovuti a effetti piezomagnetici prodotti dalla pressione esercitata dal magma, mentre quelli del secondo tipo sono in relazione a una lenta smagnetizzazione termica delle rocce circostanti il magma.
In conclusione, le ricerche effettuate su un numero molto limitato di vulcani hanno messo in evidenza l'esistenza di numerosi fenomeni premonitori delle eruzioni; tuttavia solo per qualche vulcano sono state ricavate delle relazioni probabilistiche, tra attività sismica ed eruzioni o tra deformazioni del suolo ed eruzioni.
Le nostre conoscenze sui fenomeni che precedono l'attività eruttiva potranno senza dubbio migliorare sfruttando le possibilità di teletrasmissione di dati offerte dai satelliti artificiali. Un sensibile progresso qualitativo sul problema della previsione delle eruzioni sarà infatti legato alla comprensione delle relazioni tra causa ed effetto per tutti i fenomeni premonitori e per l'attività vulcanica. Il Servizio geologico degli Stati Uniti ha istallato dal 1972 un sistema prototipo di sorveglianza globale dei vulcani attivi che utilizza il satellite ERTS-i per la trasmissione dei dati da sismografi e clinografi posti su quindici vulcani e il centro di elaborazione di Menlo Park (California). In questo modo vengono continuamente raccolti ed elaborati i dati provenienti dai vulcani Iliamna e St. Augustine (Alasca), Kilauea (Hawaii), Baker, Mt. Rainier, St. Helens, Lassen (Stati Uniti occidentali), Fuego, Agua, Pacaya (Guatemala), Izalco (El Salvador), S. Cristobal, Talica, Cerro Negro (Nicaragua) e la costa meridionale dell'Islanda.
Un aspetto complementare e, da un punto di vista economico-sociale, forse più importante della previsione stessa delle eruzioni, è costituito dalla valutazione della probabilità che una determinata area possa subire gli effetti dell'eruzione. Tale valutazione può essere effettuata in base alla storia dell'attività vulcanica in quest'area, alla morfologia, alle caratteristiche climatologiche, alla geologia e alla tettonica. Essa deve servire come guida per l'assetto territoriale e lo sviluppo urbanistico in aree vulcaniche, ed è essenziale per programmare le misure di emergenza da adottare in caso di eruzione e le azioni protettive da intraprendere per mitigare l'effetto distruttivo di colate di lava, lahar, ecc. Studi di questo tipo sono stati effettuati soprattutto in Camciatca e in Indonesia, al Vesuvio, e cominciano ora a essere affrontati anche in altre aree vulcaniche italiane.
Energia geotermica. - Un aspetto applicativo della v. che sta assumendo rilevanza sempre crescente è lo sfruttamento delle enormi quantità di energia termica legata al vulcanismo sia convertendola in energia elettrica sia sfruttando acque e vapori caldi direttamente per la climatizzazione di ambienti. Attualmente viene utilizzata solamente l'energia immagazzinata nei fluidi caldi circolanti nel sottosuolo delle aree vulcaniche. Sono tuttavia in esecuzione progetti che prevedono lo sfruttamento dell'energia termica contenuta in rocce impermeabili (o addirittura nelle sacche magmatiche) permeabilizzando la roccia mediante esplosioni nucleari o processi di idrofratturazione, e immettendo dalla superficie i fluidi necessari al trasporto dell'energia termica.
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