Benjamin, Walter
Filosofo, saggista e critico letterario tedesco, di famiglia ebrea, nato a Berlino il 15 luglio 1892 e morto a Port Bou (Catalogna) il 26 settembre 1940. Nell'ambito di una riflessione sul problema estetico caratterizzata da un approccio sociologico e dall'interesse per la storia delle avanguardie artistiche, ha indagato i cambiamenti indotti dalla rivoluzione industriale sulle modalità percettive, teorizzando fin dagli anni Trenta il ruolo cruciale svolto dal cinema come forma espressiva fondamentale della nuova epoca dell'opera arte, quella della sua riproducibilità tecnica.
Conseguì la laurea in filosofia nel 1919 presso l'Università di Berna con una tesi dal titolo Der Begriff der Kunstkritik in der deutschen Romantik (pubblicata nel 1920; trad. it. 1982). Nel 1923 si trasferì a Francoforte (città dove conobbe E. Fromm, S. Kracauer e Th. W. Adorno) e, nella speranza di ottenere la libera docenza presso l'università di quella città, maturò il progetto di un libro sul dramma barocco tedesco che terminò agli inizi del 1925; ma il tentativo di dare stabilità alla sua posizione con l'inserimento nella carriera accademica fallì, in quanto il suo lavoro (Ursprung des deutschen Trauerspiel, pubblicato nel 1928; trad. it. 1971) fu ritenuto non idoneo ai fini dell'abilitazione. Da quel momento in poi iniziarono per B. anni di grande incertezza economica ed esistenziale; si fece intensa la sua attività di critico e di saggista, che costituì l'unica fonte di sussistenza fino agli inizi del 1933, quando, con l'ascesa di Hitler al potere, fu costretto a lasciare definitivamente la Germania, mentre la sua collaborazione a periodici, riviste e radio tedesche si fece meno assidua. Furono anni, tra l'altro, di forte sconvolgimento del suo orizzonte intellettuale, segnati, da una parte, dall'avvicinamento al marxismo e a Bertolt Brecht e, dall'altra, dall'interesse per le avanguardie, il costruttivismo russo e soprattutto il Surrealismo, al quale B. dedicò nel 1929 un saggio dal titolo Der Surrealismus (trad. it. 1973). Anni in cui B. stabilì una collaborazione sempre più intensa con gli esponenti della Scuola di Francoforte riuniti nell'Institut für Sozialforschung. Nacquero così due testi fondamentali della sua variegata produzione, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (1936; trad. it. 1966), lucida analisi del luogo e del ruolo dell'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica; e le drammatiche tesi Über den Begriff der Geschichte (1942; trad. it. 1962) in cui lo scoppio della guerra e la possibilità di un'irreparabile vittoria del fascismo inducono il filosofo a un'ultima e disperata denuncia, perché "le cose che viviamo sono ancora possibili nel ventesimo secolo" (p. 79). Nel giugno 1940 Parigi, dove il filosofo viveva in esilio, venne occupata dalle truppe naziste e B. fu costretto a fuggire. Avendo ottenuto un visto di transito per la Spagna e uno per gli Stati Uniti, pensò di potersi riunire con i membri dell'Institut für Sozialforschung trasferito oltreoceano alla fine degli anni Trenta; ma il giorno in cui il suo gruppo giunse nel paesino di Port Bou, la Spagna aveva chiuso le frontiere e, alla minaccia della polizia spagnola di consegnarlo alla Gestapo, B. si tolse la vita.Sin dal suo scritto sul dramma barocco tedesco, B. mostra verso i diversi linguaggi espressivi, verso la forma e le tecniche di costruzione del discorso un'attenzione crescente che si rivelerà una costante non solo della sua riflessione teorica, ma della sua stessa pratica filosofica. Le tecniche artistiche e le loro radicali trasformazioni, secondo B., introducono nella storia dell'arte fratture che lasciano emergere le reali tendenze della Storia; esse costituiscono, infatti, elementi capaci di sovvertire totalmente la funzione e il ruolo dell'arte nella società contemporanea. Tra questi punti di frattura, uno dei più decisivi è il cinema, che costituisce la forma d'espressione tipica del Novecento. B. (che aveva approfondito la conoscenza del cinema sovietico dopo un viaggio a Mosca, compiuto tra la fine del 1926 e l'inizio del 1927 e documentato nel Moskauer Tagebuch, 1980; trad. it. 1983), mette in evidenza il fatto che la riproduzione tecnica dell'immagine non solo comporta la generale distruzione dell'"aura", vale a dire della costellazione simbolica che avvolge l'opera d'arte intesa come unica, autentica e irripetibile, ma anche un cruciale mutamento delle forme artistiche, assimilate ai prodotti di consumo, e della loro diffusione. Il consumo di massa dell'arte instaura infatti il necessario meccanismo della sua politicizzazione. La riproduzione tecnica dell'immagine, di cui il cinema rappresenta il punto più alto, comporta inoltre un profondo cambiamento delle forme della percezione, vale a dire, un ampliamento di tutte le possibilità della sensibilità umana. Il cinema rende accessibili all'occhio in particolare e alla sensorialità in generale aspetti prima inaccessibili; e questo potenziamento della capacità visiva e sensoriale non solo trasforma la percezione, che passa da una dimensione individuale a una collettiva, ma dilata, al tempo stesso, le possibilità di conoscere e operare su quel mondo di cui i mezzi di riproduzione tecnica restituiscono un'immagine. Il filosofo tedesco non si limita, quindi, solo alla riflessione sulla portata sociologica e politica delle nuove tecniche, ma, mantenendo un punto di vista interno all'opera d'arte, ne riconosce i mutamenti in virtù del processo di riproduzione. Attraverso tali analisi, l'arte nata dalla rivoluzione tecnologica della fine del 19° sec. appare a B. riflesso della realtà, ma anche strumento in grado di interpretare in profondità il reale e le trasformazioni della modernità. Nella concezione del filosofo si rivela una lente capace di inquadrare il mondo di cui essa stessa è parte e di illuminarlo da nuovi punti di vista. In questo senso, la rivoluzione operata dal cinema, e già preparata dalle fratture determinatesi grazie alle avanguardie letterarie e teatrali, sta proprio nel fatto che l'immagine cinematografica non è una semplice rappresentazione del reale, ma una costruzione artificiale, un artefatto la cui finzione permette però di guardare altrimenti la realtà e le sue mutazioni. Il cinema, dilatando la sfera della sensibilità umana, non consente soltanto di vedere in profondità, ma di vedere qualcosa di nuovo. Il montaggio, di cui B. riconosce la centralità nella costruzione filmica, crea quindi una seconda natura, mostra un'invisibilità che sta dietro il visibile e che lega profondamente il cinema e il pensiero, l'immagine tecnologica e la filosofia.
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