BONATTI, Walter
Nacque a Bergamo il 22 giugno 1930 da Angelo, originario di Fiorenzuola d'Arda (Piacenza), commerciante che aveva perso il lavoro perché antifascista, e da Agostina Appiani, che manteneva la famiglia come magazziniera presso un’azienda di tessuti a Monza, dove i Bonatti si trasferirono nel 1939.
I suoi primi ricordi, documentati nelle sue pagine o nelle interviste, riguardano il periodo di passaggio dall’infanzia all’adolescenza: prima le aule della scuola, dove si intonava una triplice preghiera rivolta «a Dio, al Re e al Duce»; in seguito le «sinistre visioni della fame e dei bombardamenti aerei» e l’immagine tragica dei partigiani, già suoi compagni di gioco e maggiori di lui di pochi anni, che giacevano a terra «crivellati dal piombo e sfigurati a colpi di scarpone»; ancora il corpo di Mussolini, «straziato e seminudo», esposto a Milano a piazzale Loreto; infine i tedeschi in ritirata e l’attraversamento del Po a Cremona fra i materiali bellici abbandonati e i cadaveri insepolti (Audisio, 2000, p. 30; Montagne di una vita, 1995, pp. 273 s.).
Negli anni della guerra frequentò la scuola media, in parte a Monza e in parte a Gazzaniga (Bergamo), quando come sfollato stette presso i parenti della madre a Vertova, sempre in provincia di Bergamo. Conseguì nel 1945 la licenza media e iniziò a lavorare con un amico che vendeva ferramenta all’ingrosso, studiando la sera per diplomarsi.
Nell’agosto 1948 iniziò l'attrazione verso la roccia: si misurò con le prime arrampicate nelle Alpi Orobie e salì il Campaniletto nel gruppo delle Grigne, dove ebbe modo di dimostrare le sue capacità atletiche e affinare rapidamente la tecnica di salita malgrado l’attrezzatura rudimentale di cui si poteva allora disporre. In pochi mesi divenne un «rocciatore formidabile» in grado di superare vie di V e VI grado sui torrioni della Grignetta (Oggioni, 2001, p. 42). Durante il servizio militare, svolto fra il 1951 e il 1952, prestò servizio nel 6° Reggimento alpini come istruttore nei corsi organizzati dall’Esercito nelle Dolomiti, nel gruppo dell’Ortles e in quello del Monte Bianco. Al rientro nella vita civile trovò lavoro come operaio nello stabilimento Falck di Sesto San Giovanni, mentre nel tempo libero si cimentava in esercizi ginnici nella palestra di una storica società sportiva monzese, la 'Forti e Liberi', fondata nel 1878. Nel 1953 si licenziò dalla Falck per gestire un rifugio a Pian dei Resinelli (Lecco).
Dall’epoca del servizio militare Bonatti acquisì un profilo marcato di alpinista esperto. L’elenco delle sue imprese più significative comprende ascensioni realizzate in cordata oppure in solitaria, sia in estate sia in inverno. Il granito delle Alpi Occidentali più che il calcare delle Orientali fu il terreno privilegiato delle ascensioni, anche se alcune vie dolomitiche di estrema difficoltà, come quelle nelle Cime di Lavaredo, entrarono nel suo campo d’azione.
Non essendo possibile dar conto di tutte le vie aperte da Bonatti o di quelle estremamente difficili da lui ripetute, si segnalano qui le più ardue e innovative: le ripetizioni della via Oppio al Croz dell’Altissimo (Dolomiti di Brenta), la via Cassin al Pizzo Badile, la via Cassin allo Sperone Walker alle Grandes Jorasses, la parete ovest dell’Aiguille Noire de Peuterey (1949); la parete est del Grand Capucin, con Luciano Ghigo (1951); le pareti nord della Cima Ovest e della Cima Grande di Lavaredo, con Carlo Mauri (ripetizione invernale, 1953); il Pilastro sud ovest del Petit Dru (sei giorni in parete, in solitaria, 1955); il Pilastro Rosso di Brouillard, con Andrea Oggioni (1959); il Pilone Centrale del Frêney, con Oggioni e Roberto Gallieni (1961; durante la discesa morirono tragicamente Oggioni e i francesi Pierre Kohlmann, Robert Guillaume, Antoine Vieille, membri della cordata guidata da Pierre Mazeaud che si era unita a quella di Bonatti); la parete nord del Grand Pilier d’Angle, con Cosimo Zappelli (1962); la parete nord delle Grandes Jorasses, con Zappelli (1963, prima invernale); lo Sperone Whymper della parete nord delle Grandes Jorasses, con Michel Vaucher (1964, prima); infine una nuova via sulla parete nord del Cervino, in solitaria e invernale (1965). Predominarono, dunque, le vie di 'misto' (con alternanza di tratti di roccia e su ghiaccio) tracciate nelle Alpi Occidentali, con una predilezione per il gruppo del Monte Bianco. Non a caso Bonatti decise di trasferire la sua residenza a Courmayeur, dove esercitò l’attività di guida alpina.
Nel suo curriculum non manca la partecipazione a spedizioni extraeuropee, come quella sostenuta dal Club alpino italiano (CAI) e dal Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), guidata da Ardito Desio, che nel 1954 portò gli italiani a conquistare il K2 ancora inviolato. Il mancato riconoscimento del contributo offerto da Bonatti nella fase conclusiva delle operazioni (il trasporto di bombole d’ossigeno necessarie ad Achille Compagnoni e Lino Lacedelli per raggiungere la cima) e anzi i sospetti nei suoi riguardi (l’accusa infamante che avesse utilizzato per sé l’ossigeno) furono all’origine di una battaglia di 'verità e giustizia', sia giornalistica sia giudiziaria, che impegnò Bonatti per mezzo secolo e si risolse solo quando il CAI, dopo una ricostruzione minuziosa degli eventi, riconobbe pienamente il ruolo «risolutivo e imprescindibile» di Bonatti e del portatore Amir Mahdi «nella riuscita dell’impresa» (I miei ricordi, 2008, p. 392). La sua tenace determinazione in quella campagna è stata considerata la testimonianza ulteriore di quella «volontà davvero sovrumana» (Rolando, 2011, p. 133), di cui aveva dato numerose prove in montagna sopravvivendo in condizioni estreme e che aveva sperimentato proprio sul K2, quando trascorse una notte all’addiaccio a quota 8150 metri senza possibilità di ricovero.
All’impresa sul K2 seguì, nel 1958, il successo sul Gasherbrum IV nel Karakorum con Carlo Mauri, mentre al Cerro Torre in Patagonia Bonatti e Mauri non raggiunsero l’obiettivo. Nel 1961 vi fu invece la conquista della vetta del Nevado Rondoy nelle Ande peruviane.
Lo stile e la tecnica di arrampicata di Bonatti sono state da lui stesso ricollegate in maniera esplicita al modello 'eroico' dei pionieri del VI grado attivi negli anni Trenta del Novecento. Non molto differenti anche i materiali utilizzati: chiodi e moschettoni di ferro, cunei di legno, corde di seta ritorta o quelle più moderne di nylon (abbandonata la canapa), senza giovarsi delle nuove attrezzature capaci di garantire maggior sicurezza e rapidità nelle manovre di corda, come imbracature e discensori, che retrospettivamente Bonatti avrebbe definito vere e proprie «diavolerie» (I miei ricordi, 2008, pp. 291, 293).
Bonatti dichiarò a più riprese, e non senza polemiche contro chi sosteneva posizioni differenti, la sua ostilità a un approccio tecnologico all’arrampicata, teso ad accentuarne i caratteri 'artificiali' mediante l'utilizzo chiodi a pressione (e in seguito a espansione) che provocano forature nella roccia anziché sfruttarne le naturali rientranze, come avviene quando si martella un chiodo di tipo tradizionale che può essere estratto dal secondo di cordata. La purezza nei metodi di salita lo portò inevitabilmente allo scontro con una «new generation of high-tech mountaineers» (Rothchild, 2001): secondo Bonatti l’alpinista deve muoversi in maniera indipendente, senza ricorrere ad aiuti esterni e a collegamenti via radio per richiedere soccorsi e senza alterare la montagna. La relazione fra l’uomo e la natura (la 'lotta coll’Alpe', secondo la classica espressione di Guido Rey) si svolge in piena autonomia: l’alpinista vive e sopravvive isolato nel confronto, duro e impegnativo, con la verticalità della roccia e con le insidie del ghiaccio. Proprio la sfida con le pareti nord affrontate nella stagione invernale produce una «esaltazione della lotta estrema affrontata in solitudine» che è generatrice di un insieme di «emozioni e sensibilità» (Montagne di una vita, 1995, p. 248).
La messa in opera del vigore fisico necessario per superare gli ostacoli rappresentati dai lastroni di granito e dai canali di ghiaccio non contrastava però in Bonatti con la ricerca di una tecnica di arrampicata che si realizzava con «squisiti lavori di cesello, di miniatura eseguiti su scala immensa» (Mila, 1965, p. 416). Dunque uno stile che si può condensare nei termini di «severo, elegantissimo e pulito» (Motti, 1994, p. 459).
Dal 1954 Bonatti esercitò a Courmayeur l’attività di guida in ascensioni nel gruppo del Monte Bianco, ma presto abbandonò quel mestiere «spontaneamente e anche con deciso risentimento» (Le mie montagne, 1961, p. 215). Dopo la salita invernale sulla Nord del Cervino, nel 1965, accentuò i toni polemici dichiarandosi «nauseato dai miseri atteggiamenti del mondo della montagna» (ibid., 1965, p. 275). In sostanza vedeva la dimensione negativa del denaro, capace di contaminare la purezza del confronto con la montagna: considerava impossibile trasformare in moneta sonante una passione forte, fatta di una condivisione che porta a legarsi a una stessa corda. Tuttavia in qualche passo dei suoi scritti emerge la soddisfazione provata come guida alpina quando trovava in un cliente consonanza e condivisione: in tal caso la relazione economica poteva trasformarsi in avventura umana di unione, «legati ad una sola fune per la vita e per la morte» (ibid., 1961, pp. 261-263, 265). L’amicizia stretta in cordata era per Bonatti un antidoto al mondo della pianura, un mondo – come scrisse nella prefazione al libro di Pierre Mazeaud Montagne pour un homme nu (Paris 1971, p. 7) – «de faibles, de coeurs malades de leur veulerie» .
Anche dopo l'addio all’alpinismo Bonatti non cessò di criticare con parole veementi la crescente commercializzazione dell’attività alpinistica: una sua lettera del 20 gennaio 1987 all'organizzazione Mountain Wilderness (copia a Torino, Biblioteca nazionale del CAI) denunciava esplicitamente come «il deterioramento del territorio, di quello montano in particolare che ci riguarda più da vicino, sia imputabile non soltanto alla contaminazione fisica di acque, foreste, cime e valli, ma anche a un tipo di inquinamento più nascosto, direi subdolo, dovuto a un certo tipo di gente che in qualche modo sfrutta il complesso ambientale»; l’attacco di Bonatti era diretto a quei colleghi alpinisti che «per dubbia necessità e con troppo scarso ritegno si prestano a mercificare sé stessi e ad essere strumento e richiamo di chi fa negozio». Anche in pubblico non esitò a esprimere posizioni nette e radicali come, in un convegno internazionale del 1989, quella contro gli eccessi nelle pratiche di sponsorizzazione che deformano l’impresa alpinistica riducendola a un «vero e proprio negozio» e a una «mercificazione di cose ed ideali» (I miei ricordi, 2008, p. 272).
Certamente Bonatti non si proponeva di elaborare una filosofia organica dell’alpinismo, ma alcuni suoi appunti e pensieri, soprattutto quelli stesi negli anni Ottanta e Novanta, documentano l’intento di sondare in sé le motivazioni e di trovare un senso e un significato nella pratica estrema della roccia e del ghiaccio, senza peraltro aprirsi a tonalità spiritualistiche o intimistiche, né condividere le derive eroiche di sapore nietzschiano che non mancavano nei pionieri del VI grado degli anni Trenta. Emerge la ricerca di una dimensione interiore che, nell’affrontare le grandi difficoltà tecniche e i rischi di vita dell’ascensione, non si esprimeva nella preghiera tradizionale ma si risolveva in una preghiera laica, «pensando, sperando, lottando». Restava comunque valido il legame ideale con la concezione dell’alpinismo degli anni Trenta che rappresentava per Bonatti il modello di un «idealismo avventuroso e romantico», espressione di fantasia e immaginazione (ibid., pp. 307, 312). La sua visione dell’alpinismo si incuneava – come indica in un suo scritto del 1965 – in una lettura critica del suo tempo che imponeva posizioni nette 'contro' e non 'per': l’assunzione del rischio e la sfida implicano un percorso separato, una via di fuga verso «una montagna selvaggia», «un oceano tempestoso», «un deserto» (ibid., p. 208). Dunque una cesura con la vita precedente e, in sintesi, il programma di avventura solitaria che si dispiegò, per il Bonatti esploratore, appunto alla metà degli anni Sessanta.
Si spiegano così le ragioni dell’abbandono dell’alpinismo come cifra dominante della sua vita dopo l’exploit della nuova direttissima tracciata sulla parete Nord del Cervino, in solitaria e in pieno inverno, quando ottenne un riconoscimento pieno a livello internazionale. La data è il 1965, anno del centenario della prima, tragica salita dell’inglese Edward Whymper: se un secolo di «storia e di vertiginoso progresso tecnico» divide le due imprese, Bonatti trovava però un legame ideale fra i due momenti nella valorizzazione piena delle risorse fisiche e psicologiche e nella condivisione di un approccio 'classico' alla montagna: non solo «una vittoria dell’uomo sui propri limiti» ma anche «l’affermazione di un’etica e di una tradizione consacrate» (Le mie montagne, 1965, pp. 272, 278). Più difficile, come si è visto, il confronto con i contemporanei: la situazione che gli pareva di cogliere alla metà degli anni Sessanta era quella di un alpinismo ormai «spento, svilito e gretto» e capitanato da una 'cricca' della montagna ostile e faziosa nei suoi confronti (ibid., p. 275).
A parere di un esperto come Massimo Mila, nel 1965 Bonatti non era solo «l’uomo più rappresentativo del più recente alpinismo italiano» ma anche il solo, accanto a Cesare Maestri, in grado di suscitare interesse in un’opinione pubblica più larga degli addetti ai lavori e di coinvolgere «la massa più amorfa dei più distratti lettori di giornale» (Mila, 1965, p. 414).
Bonatti spiegava la svolta della sua vita come una sorta di allargamento dei propri orizzonti e come «un’estensione del suo interesse alla natura intera» (ibid., p. 277). In effetti si considerò sempre «un uomo d’avventura» (Una vita così, 2001, p. 11), secondo lo spirito che aveva coltivato sin da ragazzo con le letture di Conan Doyle, Conrad, Defoe, London, Stevenson. Dopo aver abbandonato l’alpinismo estremo, che considerava ormai un 'abito stretto' rispetto alla sua volontà di conoscenza e di sperimentazione, Bonatti, pur dichiarando di non rifiutare in blocco la pratica dell’alpinismo classico, che non abbandonò del tutto, scelse una nuova strada, quella dell’esplorazione in luoghi del mondo non coinvolti nella rete del turismo globalizzato né ancora messi a rischio dallo sfruttamento commerciale.
Non è arbitrario ritenere che questo nuovo indirizzo fosse coerente con la battaglia che più tardi lo condusse a sfidare «gli inquinatori e i moralmente inquinati» nell'impegno costante e determinato in una nuova attività di reportage che ebbe il pregio di combinare le risorse di un’agile ma accurata scrittura giornalistica con le opportunità offerte dall’immagine fotografica: la svolse dal 1965 al 1979 per conto del settimanale Epoca, con il quale la collaborazione era avviata dagli anni precedenti.
Come dichiarò in una più tarda intervista, si era proposto di «dare spazio ai sogni» e di «vivere e raccontare» l’avventura, suggerendo l’esempio di Ulisse come suo riferimento ideale. Il raggio d’azione fu planetario: dalla Siberia alle foreste indonesiane, dall’Isola di Pasqua all’Antartide, dalle aree desertiche dell’Australia alle Isole Marchesi in Polinesia sulle tracce della narrazione di Melville, dalle sorgenti del Rio delle Amazzoni ai villaggi abbandonati del Klondike seguendo gli itinerari dei cercatori d’oro.
Nei modi di rapportarsi alla natura e agli uomini si colgono progressivamente i toni di una più acuta sensibilità ecologica e insieme la decisa volontà di contribuire alla protezione del mondo vegetale e animale dalla distruzione (un esempio efficace è rappresentato da un viaggio del 1986 nelle zone disabitate della Patagonia cilena e realizzato senza alcuna sponsorizzazione, parola che per Bonatti equivaleva a prostituzione; Montagne di una vita, 1995, p. 295), come anche l’attenzione alle culture umane 'primitive' osservate con rispetto nel loro contesto ambientale. Si avverte una maggiore maturità di osservazione e di giudizio quando si confrontano le pagine redatte in questi anni con i tratti idilliaci attribuiti agli abitanti della cittadina di Skardu nel Baltistan (Pakistan) descritti nel 1958 con qualche ingenuità come «inconsciamente felici» e immersi in una sorta di «paradiso perduto» (ibid., p. 154).
Dino Buzzati, scrittore costantemente attento al mondo della montagna di cui era originario e che frequentava sia come rocciatore che come giornalista, elogiava lo stile narrativo di Bonatti come ne apprezzava i contenuti, nei quali coglieva un «atto di fede nei valori morali e spirituali dell’alpinismo» e dal quale Bonatti traeva stimolo per un atteggiamento di «ribellione alle miserie della nostra società tecnocratica» (prefazione a I giorni grandi, 1971, ora in I fuorilegge della montagna, Milano 2010, pp. 106 s.); un atteggiamento ricambiato da Bonatti che, fra gli scrittori che si sono ispirati alla montagna, attribuisce doti di sensibilità a Buzzati, oltre che a Fosco Maraini (I miei ricordi, 2008, p. 320). Il valore dei servizi di Bonatti è solo in parte rappresentato dai testi: sono infatti illustrati da un grandissimo numero di straordinarie fotografie che non solo documentano con splendida efficacia il mondo naturale e umano percorso ma costituiscono vere opere d’arte per la capacità di misurare le inquadrature e di proporre gli accostamenti di colore. Se la macchina fotografica è a prima vista un semplice strumento («un taccuino d’appunti») e la riproduzione della realtà si avvale di «immediatezza», «spontaneità» e «immaginazione di movimento», Bonatti era ben consapevole che l’apparecchio non è neutro ma è governato dall’uomo: «attraverso il mirino della macchina fotografica ognuno vede ciò che sente. Immagini diverse, a seconda del suo approccio mentale all’oggetto da ritrarre» (Fermare le emozioni, 1998, pp. 11, 13-15).
Sposato nel 1972 con Giulia Carron-Ceva, da cui divorziò nel 1979, Bonatti ha vissuto trent’anni della sua vita con l’attrice cinematografica Rossana Podestà, alternando i periodi di viaggio con soggiorni prolungati a Dubino (Valtellina) e all’Argentario.
Morì a Roma per un tumore fulminante al pancreas il 13 settembre 2011.
I libri di Bonatti hanno avuto frequenti ristampe, edizioni e integrazioni: Le mie montagne, Bologna 1961, 1965; Nel mondo perduto, Milano 1968; I giorni grandi, ibid. 1971; Ho vissuto tra gli animali selvaggi, Bologna 1980; Montagne di una vita, Milano 1995; In terre lontane, ibid. 1997; Una vita così, ibid. 2001; K2. La verità. Storia di un caso: 1954-2002, ibid. 2005 (che in parte riprende e aggiorna libri precedenti: Processo al K2, Appiano Gentile 1985; Il caso K2. 40 anni dopo, Clusone 1995; K2. La verità. Storia di un caso, Milano 1996); Terre alte, ibid. 2006; I miei ricordi. Scalate al limite del possibile, ibid. 2008. Una notevole selezione dei materiali fotografici si trova in Fermare le emozioni. L’universo fotografico di W. B., a cura di A. Audisio - R. Mantovani, Torino 1998 e in Solitudini australi, a cura di A. Audisio - R. Mantovani, ibid. 1999.
M. Mila, La differenza sta nella solitudine. Lavaredo e Jorasses: due vittorie estreme dell’alpinismo, 1963, in Id., Scritti di montagna, Torino 1992, pp. 317-321; C.E. Engel, Storia dell’alpinismo, Milano 1968, pp. 261-263, 266-268, 270 s. (appendice di M. Mila, Cento anni di alpinismo italiano, pp. 415-417, 422, 424); M. Pini, Montagna vissuta, Locarno 1978, pp. 109-116; D. Pallottelli - W. Bonatti, Com’è cambiato il mio Monte Bianco, in Airone, 1986, n. 64; A. Giorgetta - S. Metzeltin, W. B.: un protagonista al suo posto, in Rivista mensile del CAI, maggio - giugno 1994, pp. 44-47; G.P. Motti, La storia dell’alpinismo, II, Cuneo-Torino 1994, pp. 448-461; M.A. Ferrari, Frêney 1961. Un viaggio senza fine, Torino 1996; E. Audisio, L’avventura è dentro di noi, in Il venerdì, 7 gennaio 2000, pp. 28-34; J. Rothchild, Lonely at the top, in The New York Times book review, 18 marzo 2001; A. Oggioni, Le mani sulla roccia, Chiari 2001, passim; K2. Una storia finita. Relazione di Fosco Maraini, Alberto Monticone, Luigi Zanzi sulla spedizione italiana al K2 del 1954, a cura di L. Zanzi Scarmagno, Ivrea 2007; M. Mason, Le grandi stagioni di W. B., in Le Alpi Venete, 2011, 65, pp. 138-43; J. Chavy, W. B. 1930-2011, in Montagnes Magazine, 2011, n. 371, p. 10; M. Rolando, La grande narrazione. Libri, articoli, fotografie, film di (su) un mito del Novecento, in Meridiane Montagne, 2011, n. 53, pp. 124-133; E. Camanni, Il Re dell’alpinismo, in Alp, 2011, n. 276, pp. 8 s.; R. Serafin, W. B.: l’uomo, il mito, Scarmagno-Ivrea 2011; W. B., una vita libera: immagini, oggetti e memorie, a cura di R. Podestà, Milano 2012.
Si ringrazia Rossana Podestà per le informazioni fornite.