CHIARI, Walter
CHIARI (Annicchiarico), Walter
Nacque l'8 marzo 1924 a Verona, secondogenito di tre maschi (il maggiore era Osvaldo, il minore Benito), da genitori pugliesi emigrati al Nord da Andria. Il padre Carmelo Annicchiarico era un funzionario di Pubblica Sicurezza originario di Grottaglie, la madre Enza (Vincenza) Tedesco, cui Walter fu sempre legatissimo, era maestra elementare. La composizione familiare ispirò in Chiari un felice connubio tra cultura 'bassa' e 'alta', un legame che lui riuscì per sempre a mantenere armonioso tra 'popolare' e 'nobile' (magari saltando volentieri l’anello di congiunzione, ovvero 'borghese').
Nel 1933 il brigadiere Annicchiarico fu trasferito alla questura di Milano e portò con sé la famiglia in quella che, dall'età di 8 anni, divenne la vera città di Walter Chiari, il quale fu sempre orgogliosamente milanese, ma senza perdere la traccia della sua provenienza. Sempre nella vicenda familiare va infatti ricercata un'altra radice del suo talento, riassunta dalla formuletta 'geografica' spesso usata per introdurre Chiari sulla scena: «Solare ed espansivo come i pugliesi, matto ed esagerato come i veneti, entusiasta e generoso come i milanesi»». La definizione segue passo per passo il tragitto degli Annicchiarico (il vero nome poi abbreviato in Chiari perché troppo lungo sulle locandine): un giro d’Italia con le valigie di cartone che lasciò il suo segno. Attore, autore, regista, Walter fu soprattutto il primo comico 'global' dell’Italia moderna, abbandonando il retaggio dialettale e localistico per innovare il modo di far ridere.
Superare la dimensione vernacolare non significò però, per l’istrionico Walter Chiari, non conoscere e non usare 'il' dialetto, ma anzi dominare perfettamente 'i' dialetti, a partire dai 'suoi' (il pugliese, il veneto, il meneghino) per allargarsi poi all’idioma dell’amata Romagna e via via a tutti gli altri, tanto da arrivare a sostenere monologhi comici in torinese o siciliano senza difficoltà. La vera chiave dell’arte di Chiari è stata il dominio assoluto del linguaggio, dunque della parola, base della cultura teatrale, entro cui il suo talento si plasmò. Uomo colto nel senso di onnivoro e curioso di tutto, dotato di una memoria prodigiosa che gli permetteva di memorizzare testi e copioni alla prima lettura, Chiari poteva intrecciare nello stesso contesto la barzelletta a doppio senso (ma mai volgare) e una citazione shakespeariana, magari in lingua originale.
Non a caso tra i grandi attori italiani del dopoguerra è stato quello con la più significativa esperienza internazionale e la sua lunga carriera è stata spesso all’insegna del paradosso. Non bello quanto Marcello Mastroianni, divenne però un leggendario seduttore e uno fra i più popolari latin-lover del suo tempo: tra le sue più celebri conquiste, accreditate dalla stampa scandalistica, Ava Gardner, Lucia Bosè, Elsa Martinelli, la cantante Mina e la principessa Maria Gabriella di Savoia. Non popolare sullo schermo quanto Alberto Sordi, interpretò tuttavia oltre cento film, anche fuori dai confini nazionali, circostanza assai rara negli anni Sessanta: basti citare il Falstaff (1965) di Orson Welles, The little hut (1957; La capannina) di Mark Robson e They're a weird mob (1966; Sono strana gente) di Michael Powell, girato in Australia, terra che Chiari amò molto e che considerava una seconda patria.
È stato però il teatro a dare a Walter Chiari il più lungo e duraturo successo: per molti anni campione d'incassi con i suoi spettacoli brillanti, era dal vivo un viscerale mattatore, capace di stregare il pubblico e riconquistare l’applauso anche quando clamorosi casi di cronaca lo portarono in carcere per problemi di droga. Poteva recitare anche in inglese e fu l’unico attore italiano a debuttare a Broadway nel 1961, dove per alcuni mesi fu in scena con la commedia musicale The gay life, diretto da Herbert Ross (113 repliche).
Nell’Italia del 'boom' Chiari è stato soprattutto un volto televisivo familiare, entrato nella memoria collettiva dei bambini alla stregua di Carosello e dei suoi personaggi: fu il primo showman a 'matare' le serate di varietà della RAI negli anni Cinquanta (ancora oggi Rosario Fiorello lo dichiara suo modello) pur avendo, con il mezzo televisivo, un rapporto difficile e ondivago, da non riconciliato. Era incapace di rimanere stabilmente dentro le regole del gioco, di adattarsi del tutto alla realtà fittizia e parallela del piccolo schermo, dal quale fu lungamente esiliato dopo esserne stato un re.
Negli anni Trenta a Milano, ancora ragazzino, Walter abbandonò gli studi e fu assunto come magazziniere all'Isotta Fraschini, dove già lavorava il fratello Osvaldo di quattro anni più grande. Nel programma del dopolavoro c’erano la boxe il sabato sera e 'spettacolo d'intrattenimento' la domenica pomeriggio. Il giovane operaio prese a frequentarli entrambi, cominciando a menar pugni e a inscenare barzellette sempre più elaborate. In fabbrica era soprannominato Li’l Abner, un personaggio dei fumetti avventuroso e spavaldo, rubacuori e iperattivo.
«L’idea di mettere in scena l’imitazione dei fratelli De Rege (i due comici napoletani che in quel tempo furoreggiavano negli spettacoli di varietà, come Fanfulla e Dapporto) venne a Osvaldo quando scesi dal ring dopo aver conquistato il titolo italiano novizi dei pesi piuma. […] "Ah, va bene. E chi di noi due fa il ritardato?". Osvaldo mi passò amorevolmente una mano sulla nuca e io non insistetti»: il racconto dell'iniziazione teatrale è tratto da Quando spunta la luna a Walterchiari: semiromanzo quasibiografico (1974, pp. 65 s.), scritto dallo stesso Walter Chiari e pubblicato a Milano dall'editore Sipiel.
Teatro e sport (da giovane praticò anche calcio, ciclismo e nuoto a livello agonistico), spesso le due passioni si incrociavano: le macchiette del pugile suonato o del ciclista spompato entrarono subito nel repertorio di Chiari, restandovi fino all'apogeo della sua carriera nel cinema. Ma prima ci furono, tuttavia, la guerra e le prime sortite nelle serate dal vivo per i militari, pagate con i bollini annonari e qualche pacchetto di sigarette. Il ragazzo scopriva l’istinto del palco, annusava il pubblico, sentendosene attratto in maniera irresistibile. Negli anni del conflitto la rivista dilagava, insieme alla sua versione più popolare l’avanspettacolo (l’intrattenimento dal vivo che precedeva la proiezione del film al cinema). Una tradizione antica, risalente all’Ottocento, che negli anni del fascismo aveva ritrovato vitalità, con un ricambio importante nel 1936, allorché scomparvero Petrolini e Fregoli, e sorsero gli astri di Totò, Macario, De Sica, Tino Scotti e altri giovani capocomici.
Una sera in largo Cairoli, al teatro Olimpia di Milano (oggi scomparso), si presentò per il giovane Annicchiarico la grande occasione: un comico malato, l'invito rivolto a qualcuno del pubblico a salire in scena, gli amici che lo spinsero su e il primo applauso di una vera platea. Quella sera del 1940, imitando un amico balbuziente, Walter inventò la scenetta della 'ghiacciata' destinata a divenire un suo cavallo di battaglia giovanile anche in televisione. «Tornai al Teatro Olimpia tutte le sere, per molti mesi – scrisse –. Dopo la storiella della ghiacciata il pubblico mi aveva trattenuto sul palcoscenico a furia di applausi. Praticamente avevo concluso io la serata, dandoci dentro compiaciuto per il successo e lusingato dalla speranza che potesse essere la volta buona. Difatti lo fu. A fine spettacolo, seduta stante, l’impresario della Compagnia mi scritturò a cinquanta lire per rappresentazione» (Quando spunta la luna a Walterchiari, cit., p. 93).
Qualche volta Chiari duettò con un amico, promettente tenore, che si faceva chiamare Nino D’Arona, diventato poi famoso come Giuseppe Di Stefano (uno cantava e l’altro gli faceva il verso), ma restò celebre l'imitazione di Hitler davanti a una platea che ospitava anche ufficiali tedeschi, che molti anni dopo l'amico Raimondo Vianello, nel documentario Meglio esser Chiari, compendiò così: «[…] quella sera poteva scattare l'applauso o la fucilazione». Il coraggio fu premiato dal pubblico, la carriera incominciava. Sedici, diciassette anni e grinta da vendere, Chiari iniziò a crearsi, sera dopo sera, un repertorio personale pensando già in grande: «Avevo ingranato nel mondo dello spettacolo, il passo più importante era compiuto; ora si trattava di bruciare le tappe, farmi conoscere dal maggior pubblico possibile nel minor tempo possibile perché mi si aprissero in fretta le porte dei grandi teatri dove teneva banco la rivista. Pur tra gli impedimenti della guerra la popolarità di Dapporto, Totò, Taranto, Macario, Navarrini e Vera Rol era consacrata e io, in tutta coscienza, me ne sentivo all’altezza» (Quando spunta la luna a Walterchiari, cit., p. 93).
Ma la realtà era molto più dura e i primi tentativi di vivere di spettacolo naufragarono miseramente. Licenziatosi dall'Isotta Fraschini e ridottosi alla fame, il giovane fu fatto assumere dalla madre presso una banca, ma la vita dell'impiegato salariato non faceva per lui. Dopo aver strappato l'applauso anche del capufficio per le sue esilaranti imitazioni gli fu dato il benservito. Lo stesso Chiari racconta l'episodio nel documentario Storia di un altro italiano (parafrasi polemica della serie Storia di un italiano dedicata ad Alberto Sordi, un non amico di Walter), trasmesso da RAI 3, in sette puntate, dal 28 dicembre 1986 al 15 febbraio 1987. Altri impieghi come giornalista e caricaturista, come pure il tentativo di portare a termine gli studi, vennero poi interrotti dalla guerra.
Nel 1942 lo sfollamento da Milano bombardata spinse Chiari a tentare una tournée in provincia con la prima scalcagnata compagnia assemblata dalla fame. Con lo sbarco degli alleati nel 1943 la rivista riprese vigore e, mentre iniziava la guerra di Resistenza, Walter fece ritorno a Milano cominciando a cercare scritture in compagnie più grandi. In questo periodo si situano episodi non ben documentati nella biografia di Chiari, che in seguito egli fece di tutto per occultare: arruolatosi nella Decima Mas (come altri illustri colleghi: da Dario Fo a Ugo Tognazzi, da Vianello a Gilberto Govi a Carlo Dapporto), Chiari collaborò alla rivista L'Orizzonte con sue vignette satiriche e ai microfoni della clandestina Radio Tevere di Milano, la voce della repubblica di Salò, con le sue storielle. Per un breve periodo, nei convulsi mesi seguiti allo sbarco in Normandia, fu quasi certamente deportato in Germania, dove venne probabilmente addestrato al combattimento e aggregato alle truppe tedesche, prima di riuscire a fuggire attraverso la Svizzera. Rientrato in Italia fu tenuto prigioniero, dopo la Liberazione, in un campo di concentramento statunitense a Coltano, vicino Pisa. Queste rocambolesche vicende non impedirono comunque l'avvio della sua carriera teatrale nella rivista, fin dall'inizio costellata di successi personali e di sodalizi importanti.
Il primo dei tre incontri che segnarono la sua carriera avvenne a Roma dove, appena liberato, si recò per ripartire da zero nel clima di grande entusiasmo, anche teatrale, del dopoguerra: entrò nel cast di alcuni spettacoli tra i quali Rosso di sera (1946) di Marcello Marchesi. Chiari scoprì così (ma certamente i due si erano già incrociati negli studi di Radio Tevere) il geniale autore di origine milanese e romano d’adozione – con il quale lavorò poi moltissime volte sia in teatro sia in televisione e nel cinema –, stabilendo con lui un’intesa efficacissima sul piano professionale, oltre che una profonda amicizia. C'è chi ritiene che Marchesi sia il vero artefice del successo di Chiari e del suo 'personaggio'.
Il secondo intenso rapporto fu con la 'procacissima' Marisa Maresca (conosciuta fin dal 1944 nel cast dello spettacolo Gran varietà con Wanda Osiris e Carlo Dapporto), donna di potere oltre che di grande successo, capocomica di se stessa e insaziabile seduttrice. Per il giovane Chiari rappresentò la nave-scuola. Nei cinque anni al suo fianco prese parte ad altrettanti spettacoli di primo piano: E il cielo si coprì di stelle (1945), Se ti bacia Lola (1946), Simpatia (1947), Allegro (1948), Burlesco (1949). Ma soprattutto imparò tutto il meglio e il peggio della vita: l'arte del teatro e l'amore totale, come pure la dipendenza dalla cocaina e infine l'abbandono. Quando lei si ritirò dalle scene per sposare un rampollo della famiglia Agusta, Chiari ebbe l'onore o l'onere di 'mettersi in proprio'.
Lo aiutò a realizzare questo salto nel protagonismo il terzo fondamentale incontro, quello con Carlo Campanini, che divenne come un fratello. I due si conobbero nel 1950 sul set del film I cadetti di Guascogna di Mario Mattoli e non si separarono più. Lo stesso anno già fecero compagnia ed esordirono insieme con la parodistica rivista Gildo. Più vecchio di lui di diciotto anni, il torinese Campanini era un grande professionista e uomo di solidi principi, l'alter-ego ideale del giovane comico già famoso per i suoi ritardi, le svagatezze e la fama di dongiovanni. Irresistibili insieme sul palco, con la 'spalla' di lusso di Campanini Chiari costruì pietre miliari del repertorio comico come l'imitazione dei De Rege in «Vieni avanti cretino» o lo sketch del 'Sarchiapone', canovacci farseschi su cui improvvisare a braccio, che potevano dilatarsi dai due, tre minuti originari fino a mezz'ora e oltre di rocambolesca comicità.
Intanto si andava precisando sulla scena il tipo-Chiari: niente parrucche, trucco o abiti buffi. Con quei vecchi panni Walter citò e onorò la tradizione (i De Rege) per poi abbandonare lo stantio armamentario dell'avanspettacolo e fare perno sulla sua ferrea e moderna dialettica, su una fantasia narrativa inesauribile. Quando attaccava le sue strampalate storie, aprendo lunghe parentesi, che riusciva sempre prima o poi a richiudere, la gente non lo lasciava più andare: era il bel ragazzo della porta accanto che ti affascina con la sua brillantezza, mai un personaggio, sempre e solo Walter. Infatti il suo nome entrò nei titoli degli spettacoli, come nel caso di Sogno di un Walter (1951), cui fece seguito Tutto fa Broadway (1952), fino ad arrivare a Controcorrente (stagione 1953-54), spettacolo di svolta firmato da Vittorio Metz e Marchesi insieme con lo stesso Chiari, che proiettò il protagonista nel ruolo di mattatore teatrale. Nel canovaccio di pezzi recitati e canzoni fece la sua prima apparizione in scena un giovanotto che Chiari, da abile talent-scout, aveva scoperto sul set di un film in Sicilia: Domenico Modugno.
A metà degli anni Cinquanta il teatro di rivista esaurì la sua forza e nacque la televisione, il cui primo palinsesto attinse al serbatoio della scena italiana. Chiari ne fu un naturale protagonista, ma con qualche problema di adattamento: «Sapeste la difficoltà di far ridere guardando un tubettino nero con quell’occhio di vetro, freddo, freddissimo», ripeteva nelle interviste. Per lui lo studio televisivo era la prosecuzione del palcoscenico: «Rifiutai sempre gli applausi e le risate registrate – dichiarò anni dopo –: davanti alle telecamere avevo bisogno almeno di un pubblichetto di 50 persone che, con le sue reazioni spontanee, mi mettesse in contatto con quell’altro, enorme, che sta a casa, davanti al televisore» (in Storia di un altro italiano, cit.). Chiari inventò così il pubblico in studio, richiedendolo sempre per i programmi da lui condotti. La padronanza del linguaggio, anche vernacolare, fu poi una delle chiavi del suo successo televisivo. Davanti all'audience dai cento dialetti Chiari usò questa carta, intelligentemente, molto più che in teatro.
Oltre che un comico era un grande affabulatore, un monologhista. Dopo quindici anni di teatro e cinema era già pronto come entertainer televisivo, dotato della capacità di improvvisare (la televisione era tutta in diretta) e di quella cultura generale e linguistica che assecondava la funzione divulgativa e 'unificatrice' del nuovo mezzo. Fu così che il 12 gennaio 1958 Walter Chiari esordì nel piccolo schermo, con la complicità dei fidati Metz e Marchesi che (insieme con Italo Terzoli e Angelo Frattini) gli confezionarono una rivista televisiva su misura, il cui titolo era tutto un programma, La via del successo. Dieci puntate con la regia di Vito Molinari, ricche di sketch comici, in cui l’attore riproponeva le sue collaudate ed esilaranti macchiette teatrali: dal sommergibile, al bullo di Gallarate, alla belva di Chicago, e naturalmente il Sarchiapone. Come scrive Aldo Grasso (2000): «Walter Chiari è il perno attorno a cui ruota l’intera trasmissione e, nonostante la sua scarsa familiarità con le telecamere (spesso non si preoccupa di "guardare in macchina"), viene premiato da un grande successo di pubblico» (p. 64).
Intanto in teatro era la volta di Saltimbanchi (stagione 1954-55), firmato da Chiari con Terzoli, Carlo Silva e Pasquale Caliman, che si sintonizzava su un clima culturale in trasformazione nell’Italia che iniziava a bere al calice del boom economico. Lo spettacolo finalmente teatrale si avvalse di una regia, firmata da Franco Zeffirelli (che Walter aveva incontrato sul set di Bellissima, dove il regista era aiuto di Luchino Visconti) che valorizzava una comicità «di anno in anno più sofisticata», capace di convincere la critica: «Al Nuovo, da ieri sera, si vede recitare. Nel teatro di rivista non succede spesso, ed è una grande consolazione […]. C’è persino una sorpresa: Walter Chiari ha tentato di controllarsi e quasi c’è riuscito» (cfr. M. Morandini, in La Notte, 3 dicembre 1954, articolo ripubblicato poi in Id., Sessappiglio - Gli anni d’oro del teatro di rivista, Milano 1978, p. 101).
Nella seconda metà degli anni Cinquanta la rivista classica si trasferì in televisione, cedendo il palcoscenico a nuove forme di intrattenimento dal vivo. Inizialmente due filoni paralleli se ne contesero l’eredità e il pubblico: da un parte la rivista 'da camera' di cui Saltimbanchi fu un prototipo e che poi sfociò nel cabaret, più satirico e anche politico, rappresentato a Roma anche dal teatro dei Gobbi; dall’altra Garinei e Giovannini lanciarono la commedia musicale all’americana. Alla lunga fu questo secondo filone a conquistare la parte più cospicua e disimpegnata della platea, specie in provincia, dove i nuovi scintillanti musical facevano ottimi incassi a suon di cosce, lustrini e grandi orchestre.
Va ricordato che la versatilità di Chiari, come di altri importanti attori brillanti della sua generazione, era assecondata e favorita dall’indefesso lavoro di una schiera di autori che lo seguivano dal teatro al cinema alla televisione, nutrendo il suo personaggio nei diversi contesti: Metz e Marchesi innanzitutto, ma anche Ruggero Maccari, Terzoli e altri che provenivano dalle redazioni delle riviste satiriche del periodo fascista come Il Bertoldo e Il Marc’Aurelio.
Nel corso di questa evoluzione Chiari era diventato un re dell'intrattenimento leggero sia in televisione sia in teatro: richiestissimo, pagatissimo e costantemente 'paparazzato'. Ebbe una controfigura per le scene d’azione nel cinema, Renato Stazzonelli, un ragazzotto molto somigliante che Mario Soldati gli trovò come 'posaluce' (in pratica stava sul set al suo posto durante le lunghe e noiose prove tecniche), il quale divenne l’ombra di Walter anche nella vita privata, a volte sostituendolo nei locali alla moda per consentirgli di sfuggire ai fotografi con le sue conquiste femminili.
Tuttavia con il cinema l’attore ebbe un rapporto ondivago. L’esordio sul grande schermo avvenne in Vanità di Giorgio Pàstina del 1947: Walter aveva 23 anni e, sia pure doppiato da Gualtiero De Angelis, vinse il Nastro d’argento come migliore attor giovane. Poteva essere l’inizio di una brillante carriera a Cinecittà, ma Chiari continuò sempre a privilegiare le stagioni in teatro e scelse i film solo in base a criteri casuali: amava girare in spiaggia e accettò per questo, già all’apice del successo, vari filmetti 'balneari' (come Ferragosto in bikini di Marino Girolami o Femmine di lusso di Giorgio Bianchi, entrambi del 1960); era uno sportivo e fece parodie dello sport (come in Totò al giro d’Italia, 1948, o L’inafferrabile 12, 1950, entrambi di Mario Mattoli); rifece se stesso in film sul mondo della rivista (il già citato I cadetti di Guascogna con Ugo Tognazzi; Arrivano i nostri, di Mattoli, 1951; Viva la rivista!, di Enzo Trapani, 1953); gigioneggiò in deliziose farse dirette da Mario Soldati (È l'amor che mi rovina, 1951; Il sogno di Zorro, 1952), o cucite addosso a lui da Metz e Marchesi (Era lui… si, si!, del 1951; Lo sai che i papaveri - Papaveri e papere, del 1952); frequentò il popolare filone comico-giudiziario (Un giorno in pretura, di Steno, 1953; Accadde al commissariato, di Giorgio Simonelli, 1954; Accadde al penitenziario, di Giorgio Bianchi, 1955); non trascurò naturalmente il genere peplum allora in voga (OK Nerone, di Soldati, 1951; I baccanali di Tiberio, di Simonelli, 1960); più tardi furoreggiò nei western comici all'italiana, pre-Sergio Leone (Un dollaro di fifa, di Simonelli, 1960; Gli eroi del west, di Steno, 1963). Tuttavia, quel premio importante, in un ruolo puramente drammatico (uno tra i suoi rarissimi personaggi 'negativi'), rimase l’unico nell’arco di oltre quattro decenni.
Chiari era una star e un talento selvaggio, difficile da maneggiare nei ritmi serrati e nella struttura gerarchica del set cinematografico. Molti registi lo evitavano e, d'altro canto, lui non si propose mai con convinzione. Si lasciò guidare volentieri da Visconti, autore estremamente esigente e carismatico, non certo incline all’improvvisazione, sia pure di genio (si racconta che fece ripetere oltre trenta volte una scena a Walter, provocandogli una crisi di vomito). L’intuizione del regista di affiancare Chiari, ancora molto giovane, a un’altra irregolare come Anna Magnani per Bellissima (1951) fu rischiosa, ma vincente (nacque forse anche un amore tra i due, tenuto segreto). La collaborazione con Visconti fu un successo, però Chiari non fece nulla per ripetere quel tipo di esperienza. Mario Mattoli, regista di tanti film di Totò e di Macario (ma non solo), che diresse Walter più volte di chiunque altro, aveva una sua teoria («Chiari è un po' troppo intelligente per il cinema, un mestiere in cui non conta tanto l’intelligenza», cit. in L’avventurosa storia del cinema italiano, 2011, p. 254). Mentre Dino Risi azzardava un’ipotesi più specifica e acida («Chiari non ha occhi, ma due buchi neri, e il cinema è fatto con gli occhi», cit. in Veltroni,1998, p. 121).
Va ricordato, però, che proprio Risi nel 1962 aveva scelto Chiari come protagonista de Il sorpasso, divenuto poi il simbolo dell’Italia del boom economico. Fu l'attore a rifiutare (costringendo il regista a ripiegare su Vittorio Gassman) forse per non lasciare sola la sua amante Ava Gardner (aveva conosciuto la moglie separata di Frank Sinatra nel 1956 a Cinecittà sul set del già ricordato film La capannina).
Questo era l’approccio di Chiari al cinema, che gli fece collezionare vari appuntamenti mancati, come quello con Federico Fellini. Il riminese gli fece un provino per il ruolo del Matto ne La strada e poi, forse spinto dalla produzione, lo scartò per far posto a Richard Basehart («Quella fu l’unica vera batosta che il cinema mi abbia mai dato», confidò molti anni dopo Chiari, in Storia di un altro italiano, cit.), salvo poi trarre ispirazione per una scena chiave de La dolce vita dalla celebre foto del pugno di Chiari al 'paparazzo' Tazio Secchiaroli in via Veneto. Stesso destino con l’amato-odiato Visconti che nel suo capolavoro Rocco e i suoi fratelli (1960) raccontò praticamente la storia della famiglia Annicchiarico, ma non lo chiamò per interpretarla (Chiari ordì poi una simpatica ‘vendetta’ nel parodistico e ben riuscito Walter e i suoi cugini, del 1961, con la complicità registica dell’amico Marino Girolami, nella cui trama lo stesso Visconti è adombrato nel personaggio di un regista omosessuale). Un rapporto difficile tra Chiari e i grandi autori del cinema italiano testimoniò anche Luigi Comencini commentando lo scarso incasso dell’unico film in cui lo diresse, Le sorprese dell’amore (1959): «forse perché avevo preso Walter Chiari, che al cinema non ha mai avuto successo» (cit. in L’avventurosa storia del cinema italiano, 2011, p. 358).
L'opinione di Comencini è tuttavia confutata dalla sceneggiatrice Suso Cecchi D'Amico che, parlando di Bellissima, disse: «Si prese Walter Chiari perché allora non si faceva un film senza Walter Chiari. Già costava un mucchio: quattordici milioni!» (cit. in L’avventurosa storia del cinema italiano, 2011, p. 212). In definitiva nel cinema Chiari ebbe un buon successo al botteghino per tutti gli anni Quaranta e Cinquanta, cominciando a perdere appeal commerciale solo allorquando il genere comico si mutò nella commedia all'italiana durante gli anni Sessanta.
In ogni caso Walter tornava sempre volentieri alle sue tournées teatrali e al calore del suo pubblico, accettando dal cinema quelle proposte che gli arrivavano quando aveva tempo e voglia di prendersi una pausa. Se ne prese parecchie, sono circa 115 i titoli della sua filmografia, molti dei quali dimenticabili, ma alcuni veramente notevoli, come La rimpatriata (1963) di Damiano Damiani e anche Io, io, io… e gli altri (1966) di Alessandro Blasetti: due prove attoriali di grande intensità tra commedia e dramma.
Sulla scena era il tempo della musical comedy di Garinei e Giovannini: Buonanotte Bettina, con Delia Scala (1956, poi più volte ripreso con altre partner), fu il primo vero musical teatrale 'a struttura chiusa' e rilanciò la carriera teatrale di Chiari al tramonto della rivista. Eppure la conversione al nuovo genere di spettacolo all'americana non fu facile: tra i due autori e la star prescelta per fare da partner alla loro pupilla Delia Scala fu stilato un contratto di ferro che prevedeva, tra le varie clausole, il divieto per Chiari di dilungarsi in digressioni e improvvisazioni fuori copione e il diritto di lei di interromperlo a scena aperta. Ciò testimonia ancora una volta lo sforzo di un talento indomabile come Chiari di cambiare pelle. La critica non gli fu mai amica: «Walter Chiari è un comico, non un attore. Non sa interpretare un personaggio, tutt'al più lo inventa; e non è la medesima cosa» (cit. in M. Morandini, La Notte, 24 novembre 1956, ripubbl. in Id., Sessappiglio - Gli anni d’oro del teatro di rivista, Milano 1978, p. 144). Tuttavia lo straordinario successo di pubblico fu poi confermato da Un mandarino per Teo (1960) con Sandra Mondaini. Entrambi gli spettacoli ebbero anche versioni televisive.
Nel frattempo Chiari portava avanti, anche come autore, i suoi esperimenti personali, dopo Controcorrente e Saltimbanchi, alla ricerca di una nuova rivista moderna e più impegnata, al passo con una società in frenetico cambiamento. I risultati furono diseguali: Oh quante belle figlie madama Doré (1955-56) va ricordato più che altro perché vide nascere il primo sketch del 'Sarchiapone', un trademark della coppia Chiari-Campanini. Io e la Margherita presentò un Chiari più entertainer in anticipo sugli anni Settanta. All'alba degli anni Sessanta avvenne una svolta importante nella spumeggiante carriera di Walter Chiari. Nonostante la piena affermazione su tutti i fronti, teatrale, televisivo e cinematografico, l'intuito dell'autentico animale da palcoscenico suggerì che era tempo di cambiare, chiudere tutti i progetti in corso e rimettersi a studiare. Salutato dai cinegiornali all'aeroporto di Ciampino alla stregua delle grandi star internazionali (crf. La Settimana Incom n. 02105 del 4 agosto 1961), Chiari partì per New York, dove rimase per alcuni mesi impegnato con il già citato The gay life. Fu per lui un'esperienza fondamentale, durante la quale, per esempio, imparò anche a ballare recitando e che restituì alle scene patrie un nuovo Walter Chiari 'americano'. Gli spettacoli che seguirono testimoniano questo nuovo corso con storici spettacoli di enorme successo che mostrarono finalmente un performer completo nell'ambito della commedia musicale: innanzitutto La strana coppia di Neil Simon (1967-68) con Renato Rascel, in anticipo di una stagione sul celebre film, The odd couple di Gene Saks, con Jack Lemmon e Walter Matthau, del quale lo spettacolo oscurò la fama; poi Luv di Murray Schisgal (1965-66), diretto da Giuseppe Patroni Griffi con Gianrico Tedeschi e Franca Valeri; e soprattutto il campione di incassi Il gufo e la gattina che dal 1968 Chiari portò in scena per tre stagioni con diverse partner, tra le quali Alida Chelli. Seguì poi un altro testo di Neil Simon, L'ultimo degli amanti infuocati, con il quale Chiari inaugurò gli anni Settanta ancora all'apice della forma.
Allo stesso tempo nel cinema si apriva la prestigiosa pagina di partecipazioni a grandi produzioni internazionali (pochi ciak e tanti soldi: molto funzionale a Chiari) come Nanà di Christian-Jaque e Je suis un sentimental (Sono un sentimentale) di John Berry entrambi del 1955, il già citato La capannina del 1957; Bonjour tristesse di Otto Preminger del 1958. Pagina che durerà per oltre un decennio, fino al già ricordato Falstaff di Welles del 1965 (una piccola, ma magistrale caratterizzazione nei panni di Silence) e They're a weird mob (1966; Sono strana gente), un film importante per il cinema australiano, sul cui set Walter Chiari conobbe la Chelli, che avrebbe sposato quattro anni più tardi proprio a Sydney. Un rapporto burrascoso e sovraesposto il loro, entrato in crisi il giorno stesso delle nozze quando Chiari, che aveva dimenticato un impegno di lavoro, fu prelevato dalla sua festa di matrimonio prima della luna di miele. Il divorzio giunse nel 1972, dopo la nascita del figlio Simone Annicchiarico, oggi apprezzato conduttore televisivo (La valigia del sogni; Italia’s got talent).
A questo proposito va ricordato che dieci anni prima Walter era stato lo splendido protagonista del film forse migliore della sua carriera, Il giovedì (1963) di Dino Risi. Nei panni di un padre divorziato e fragile aveva fatto coppia con il piccolo Roberto Ciccolini, il quale si era molto legato a lui, risvegliandogli un desiderio di paternità che l’attore confidò alla stampa. Una volta arrivata, anche quella grande gioia personale di Chiari sarebbe stata turbata da un evento imprevedibile e clamoroso che sconvolse la sua vita. Apprese infatti della nascita del figlio da un secondino di Regina Coeli, il carcere romano in cui venne incarcerato per quattro mesi (dal maggio all'agosto del 1970) per spaccio: al processo, un anno dopo, fu assolto da quell'accusa e condannato con la condizionale per la sola detenzione di sostanze stupefacenti. Nel caso fu coinvolto anche il collega e fraterno amico, Lelio Luttazzi, il quale ebbe da questa vicenda un colpo dal quale non si riprese mai del tutto e che narrò nel romanzo autobiografico Operazione Montecristo (Milano 1970).
Questo tremendo infortunio compromise anche la carriera di Walter, soprattutto quella televisiva. Il nome di Chiari, protagonista di grandi show come Studio Uno (1962-63 e 1966) e Canzonissima (1958 e 1968), fu messo al bando per lungo tempo dalla RAI. Chiari rimise piede episodicamente in viale Mazzini solo nel 1973 partecipando a L'appuntamento con Ornella Vanoni e nel 1978 con Io Te Tu Io in coppia con Vittorio Caprioli. Per il resto dovette cercare lavoro nelle nascenti televisioni private come Tele Alto Milanese e Antenna Tre, dove fino agli anni Ottanta fu conduttore e ospite di vari show, a volte a fianco della nuova compagna Patrizia Caselli, di trentasei anni più giovane di lui.
Nella sua città l'occasione del ritorno in scena gliela offrì l'allora giovane assessore alla cultura Paolo Pillitteri in una serata della rassegna Vacanze a Milano nell'estate del 1974. Gli servì per rompere il ghiaccio con la sua platea, ancora disposta ad acclamarlo. Ci voleva coraggio per queste imprese e lui ne aveva (lo conferma Dino Risi in I miei mostri, 2004, p. 181: «Allo zoo, Walter Chiari infilò il braccio nella gabbia della tigre e la accarezzò»). Fu da quel momento che Chiari mise in atto una vera e propria ricostruzione della propria credibilità professionale, su quelle tavole del palcoscenico dove era cresciuto. Recital come Io con te, Tu con me (1972-73) con la Vanoni, Tra noi (1973-74) con Iva Zanicchi e uno show in coppia con Mina nel 1978 lo riportarono in sella, ma sempre al centro del gossip, anche politico. Nello spettacolo one-man-show Chiari di luna (1974-75) una battuta diede fuoco alle polveri degli anni Settanta: «Quando fu appeso per i piedi a Piazzale Loreto, dalle tasche di Mussolini non cadde nemmeno una monetina. Mentre chissà cosa uscirebbe dalle tasche dei ministri della Repubblica…». Un putiferio di picchetti fuori dai teatri, assemblee infuocate, attacchi a mezzo stampa, date cancellate. Anche in questa circostanza, come in altri momenti difficili della sua vita, Chiari rimarcava con sorridente sfrontatezza il suo essere fuori dagli schemi, né di destra né di sinistra, ma sempre refrattario al sistema dominante, mai riconciliato con le convenzioni del mestiere. Pagò il prezzo di tutto questo, ma prima di una seconda rovinosa caduta riuscì a risalire fin sulla vetta.
Mentre il piccolo cinema italiano degli anni Settanta gli offriva pochi ruoli di rilievo (La banca di Monate di Francesco Massaro, 1975, o Cinque furbastri e un furbacchione di Lucio De Caro, 1976) e la televisione nazionale si era quasi dimenticata di lui (Una valigia tutta blu, del 1979-80), nell’ultimo scorcio del decennio Chiari inanellò una serie di straordinari successi teatrali: soprattutto Hai mai provato nell’acqua calda?, commedia brillante di Paolo Mosca, con la regia dello stesso Chiari, fu campione di incassi della stagione 1978-79 e, insieme a varie riprese di Il gufo e la gattina, lo rese nuovamente protagonista di lunghe tournées in tutta Italia.
La nuova batosta arrivò però nell’estate del 1984 quando il suo nome fu citato dal pentito Giovanni Melluso in relazione a un’inchiesta sul traffico di droga nel mondo dello spettacolo in cui restarono coinvolti anche Franco Califano e, in precedenza, Enzo Tortora. Prosciolto in istruttoria, Chiari ricevette comunque un grave danno professionale e umano. Con la televisione chiuse definitivamente, tranne qualche sporadica apparizione. Un’importante occasione 'riparatrice' fu rappresentata dal già ricordato documentario Storia di un altro italiano: una carrellata felicemente anarchica di spezzoni d’archivio commentati e assemblati da lui stesso con il critico Tatti Sanguineti per RAI 3 nel 1987.
Anche il cinema chiuse le porte quasi del tutto all’attore che negli anni Sessanta aveva girato fino a sei film all’anno. L’eccezione fu Romance (1986) di Massimo Mazzucco in cui Chiari, fisicamente già provato, recitò al fianco di Luca Barbareschi, con imprevedibile intensità, ancora una volta nel ruolo di un padre 'non ortodosso'. Quella toccante prova d’attore, applauditissima al festival di Venezia del 1987, è ricordata per un’altra beffa crudele patita da Chiari. L’ultimo giorno della kermesse lagunare qualcuno lo informò che la giuria gli avrebbe assegnato la coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile. Walter al colmo della gioia chiamò il figlio e gli amici più cari per festeggiare insieme al Lido. Ma il premio andò invece a Carlo Delle Piane, che Walter aveva tenuto a battesimo nei film comici degli anni Cinquanta, per Regalo di Natale di Pupi Avati. Lo stesso regista bolognese avrebbe poi realizzato su questa amara storia il film Festival (1996) in cui la figura di Chiari è adombrata (in maniera non dichiarata) nel personaggio interpretato da Gianni Cavina.
Nell’ultima parte della sua vita professionale era stato come sempre il teatro a fornirgli una possibilità di sopravvivenza. Superati i sessant'anni, segnato da una vita 'spericolata', con problemi a memorizzare i copioni e a sostenere lunghe prove, Chiari fu scaricato dagli impresari privati che non puntarono più denaro su di lui. Il grande show alla (e con) Walter Chiari era ormai irrealizzabile. Per tornare sul palco ancora una volta Walter tentò allora, intelligentemente, la via del teatro. Fino ad allora non era mai stato un personaggio, ma sempre e solo se stesso. Ricominciò dunque daccapo partecipando al cast di allestimenti di prosa, soprattutto nel giro degli stabili, i teatri pubblici regionali. La rentrée post terremoto gli fu offerta allo Storchi di Modena per la prima nazionale di Gli amici di Arnold Wesker, che Chiari interpretò con una compagnia di giovani: Ruggero Cara, Umberto Bortolani, Giuditta De Santis, Edda Terra Di Benedetto, con la regia di Franco Però. Ecco come raccontò la serata in un’intervista del 1986: «Dopo l’infamia di quelle accuse […] tutti mi hanno voltato le spalle. Non trovavo lavoro e devo dire che è stato un ente teatrale di Modena, un ente ‘rosso’, a offrire a Walter Chiari, che non è mai stato di quel colore, una parte seria in una commedia seria, che si chiama Gli amici. Ed ero un ‘vegétt’ in mezzo a tanti ragazzi e la gente che veniva a teatro diceva: ‘Toh, com’è bravo il Walter’. E mi hanno riscoperto a sessant’anni» (in La Domenica del Corriere, 27 settembre 1986, p. 27).
Seguirono altri episodi analoghi, tra i quali resta memorabile il Finale di partita prodotto dal Teatro regionale toscano per Firenze capitale europea della cultura nel 1986, con 'la strana coppia' ri-formata da Chiari e Renato Rascel (classe 1912) alla sua ultima prova. I due vecchi comici convinsero pubblico e critica, andarono oltre Beckett, aggiungendo assurdo all’assurdo, entusiasmando persino Carmelo Bene. Più di routine altri spettacoli di prosa quali Il critico ovverosia le prove di una tragedia (1987-88) con la regia di Ugo Gregoretti, che firmò anche Six heures au plus tard volgarizzato in Colpo grosso (1988). Fino al clamoroso abbandono da parte di Chiari delle prove di un Ubu Re a Firenze a pochi giorni dal debutto (fu lo stesso regista Gregoretti a sostituirlo in scena alla prima). Tagliato fuori ormai da tutto Walter salutò il suo pubblico nella stagione 1989-90 con un ultimo ri-allestimento del suo vecchio cavallo di battaglia Il gufo e la gattina, con Lory Del Santo quale nuova partner, giovane e provocante. In televisione Chiari aveva preso congedo con due piccoli ruoli in altrettante fiction: I promessi sposi (1989) di Salvatore Nocita (nei panni di Tonio) e Capitan Cosmo (1990) di Carlo Carlei (primo film italiano in HD). Sul grande schermo, invece, il ruolo d’addio gli venne offerto dal giovane regista Peter Del Monte che, nel suo Tracce di vita amorosa (1990), lo fece uscire di scena, nudo, verso il buio della notte. Un commiato quasi perfetto, se non fosse che Chiari aveva solo 67 anni.
Ridottosi a vivere in solitudine (a tre anni dalla separazione con la Caselli) e quasi povero (lui che era stato il divo più pagato e che aveva sperperato una fortuna per patologica generosità) presso il defilato residence Siloe alla periferia di Milano, Chiari fu trovato morto davanti al televisore acceso, nella notte tra il 20 e il 21 dicembre 1991. Un infarto improvviso, all’indomani dell’ultimo beffardo check-up medico da cui era risultato in perfetta salute. L'ultima ospitata in TV su Telemontecarlo, A pranzo con Wilma con Wilma De Angelis, registrata il 18 dicembre 1991, non andò mai in onda, ma è oggi disponibile sul web. Le esequie funebri furono partecipate da un mare di folla. La sua salma riposa oggi nel Famedio del Cimitero monumentale di Milano che accoglie i milanesi illustri. Tuttavia la memoria di Chiari, personaggio scomodo e non ben classificabile, fu a lungo rimossa e solo dopo un ventennio si tornò a parlare di lui con un paio di libri e una fiction TV sulla sua vita prodotta dal collega e amico Barbareschi. Il più bell'epitaffio glielo scrisse Dino Risi: «Era un caro ragazzo, anche quando era quasi vecchio. Amico di tutti e amico sincero, innamorato dell'amore. Capace di lasciare un film per raggiungere la donna amata dall'altra parte del mondo. Generoso (morì povero), volle che fosse scritto sulla sua tomba: 'Non preoccupatevi, è solo sonno arretrato'. Parlava, parlava, e, a differenza di quelli che parlano, parlano, diceva anche delle cose intelligenti. Adesso sta lassù (o laggiù) nel girone dei comici, con Petrolini, Totò, Macario, Dapporto, Peppino De Filippo, Tognazzi, Chaplin, Stanlio e Ollio, Keaton e tanti altri. E si faranno, spero, delle matte risate» (2004, p. 219).
L. Luttazzi, Operazione Montecristo, con presentazione di G. Berto, Milano 1970; W. Chiari, Quando spunta la luna a Walterchiari: semiromanzo quasibiografico, Milano 1974; Sentimental, a cura di R. Cirio - P. Favari, Milano 1975; M. Morandini, Sessappiglio. Gli anni d’oro del teatro di rivista, Milano 1978; Follie del varietà, a cura di S. De Matteis - M. Lombardi - M. Somarè, Milano 1980; Storia di un altro italiano (documentario televisivo), a cura di W. Chiari - T. Sanguineti, Rai3, 1987; Ritratti. W. C.: l’eterno ragazzo (programma TV), a cura di G. Governi, Rai3, 1993; F. Mottola, Il teatro di varietà: dalla Belle Époque agli anni Sessanta ed oltre, in Italia, a cura di P. Perrone Burali d'Arezzo, Milano 1995; P. Avati, Festival, Duea Film - Filmauro, 1996; W. Veltroni, Certi piccoli amori 2. Dizionario sentimentale di film, Milano 1998; W. C. Il Sarchiapone e altre strane storie, a cura di R. Buffagni, Milano 2000; A. Grasso, Storia della televisione italiana, Milano 2000, ad ind.; D. Risi, I miei mostri, Milano 2004; Un giro di Walter: la vita di W. C. (puntata del progamma TV La storia siamo noi), a cura di M. Malabruzzi - F. Pesoli, Rai2 (23 aprile 2008); Meglio esser Chiari (documentario), a cura di S. Annicchiarico - A. Galletta, Sky Cinema, 2008; A. Traversa, Il complesso di Walter (film-documento), TdF Audiovisivi, 2010; M. Sancisi, W. C., un animale da palcoscenico, Assago 2011; L'avventurosa storia del cinema italiano, a cura di F. Faldini - G. Fofi, II, Da Ladri di biciclette a La grande guerra, Bologna 2011; S. Annicchiarico, W. e io: ricordi di un figlio, Milano 2012; W. C. Fino all’ultima risata (miniserie TV, in due puntate), regia di E. Monteleone, Rai1 (26-27 febbraio 2012).