web 3.0
<u̯èb ...>. – Approccio a Internet di ulteriore integrazione rispetto al ; è caratterizzato da una maggiore consapevolezza, e conseguente superiore controllo, dei fruitori riguardo i contenuti e dall’evoluzione grafica dal 2D al 3D. Il termine, introdotto nel 2006 dal web designer Jeffrey Zeldman, ha alimentato un dibattito che ha avuto per protagonisti storiche figure di Internet (da Tim Berners-Lee a Reed Hastings sino a Jerry Yang). I principali aspetti evolutivi del web 3.0 possono essere individuati come segue: , in cui i contenuti non sono più costituiti da pagine HTML ma da un database sottostante che permetta ricerche più approfondite e accurate; intelligenza artificiale, associata a una più strutturata archiviazione dei dati per cui si intravede la possibilità di sviluppare motori di ricerca che consentano l’interrogazione attraverso il linguaggio naturale e il reperimento delle informazioni secondo approcci orientati a sfruttare l’intelligenza artificiale per meglio individuare le necessità e i gusti degli utenti secondo il loro comportamento in rete; maggiore capacità di calcolo e nuovi algoritmi volti alla costruzione di ambienti 3D realmente utilizzabili (evoluzione di quello che è stato il tentativo di Second Life).
Contesto e orizzonti del web 3.0. ‒ I servizi web di terza generazione si focalizzano su un punto essenziale, l’intelligenza artificiale applicata alle risorse del web. Il cosiddetto web semantico, grazie al quale sistemi automatici potranno interagire con l’uomo in maniera evoluta, avrebbe il beneficio di sfruttare un enorme bacino sia di dati sia di utenti, e quindi costruire archivi giganteschi in cui conservare informazioni semplici e strutturate, ed estrarle per comunicare con l’uomo. L’algoritmo di ricerca di Google ha dimostrato l’importanza della quantità statistica dei dati per far emergere un significato, perlomeno lessicale e categoriale. Il web semantico potrebbe avere questo come punto di forza, per esplicitare una semantica più precisa, decomponendo frasi, assegnando ruoli, fino a intavolare un vero e proprio dialogo uomo-macchina, analogo a quello del test di Turing. Occorre precisare, mettendo in rilievo non solo un’ambiguità di traduzione ma la metodologia e le strategie a monte di questi sistemi, che il termine originale semantic web non sta a significare genericamente tutto il web semantico (ossia l’insieme dei servizi e delle strutture in grado di interpretare il significato di contenuti del web), ma rappresenta una definizione precisa, con trademark associato, coniata da Timothy J. Berners-Lee, creatore del primo sito web nonché direttore del W3C. Secondo questa accezione, il semantic web è un insieme di tecniche e metodologie, appartenenti al dominio della logica, che costituiscono solo una parte dei possibili approcci al problema (gli altri sono statistici, geometrici, ecc.). La precisazione non è capziosa, come potrebbe apparire a un primo esame, perché segna la separazione tra un tipo di pensiero che aspira a diventare dominante, in quanto sostenuto da organizzazioni e finanziamenti, e uno alternativo, meno istituzionale e programmatico, ma forse più flessibile e quindi più adatto all’interpretazione semantica del web. Il web è composto da una moltitudine eterogenea di risorse e, grazie alla loro evoluzione organizzativa, rimane strutturalmente stabile, pur mantenendo elevati volumi di crescita. Alcune di queste risorse, come i siti governativi e istituzionali, sono portali giganteschi gestiti e mantenuti da strutture dedicate; altre, come la cosiddetta blogosfera, sono costituite da una moltitudine di gerghi, varia ed eterogenea sia nei contenuti sia nei formati adottati. Il semantic web, proprio perché dotato di una natura più rigida, basata su tassonomie informatiche che richiedono alti controlli di validazione e connessioni logiche ben definite, può fornire migliori risultati nel primo gruppo di siti, dove i contenuti sono stabiliti e certificati, ma nel secondo è destinato a soccombere. Per poter funzionare efficacemente, occorrerebbe imporre a ogni blogger un investimento di tempo e denaro per adeguarsi ai vincoli del semantic web davvero difficile da sostenere. Basti osservare che persino in un ambito più strutturato rispetto alla blogosfera generale, come quello dei social networks, un solo ambiente di progettazione (ODS, Openlink data space) è in grado di supportare gli standard del semantic web. Probabilmente questo panorama non favorisce la diffusione di applicazioni semantiche, sebbene siano state preannunciate come vincenti (killer applications) sul mercato del web 3.0. Un esempio può essere riscontrato nella scarsa diffusione dei chatterbots (o chatbots), ossia programmi che simulano una conversazione intelligente con l’utente. L'orizzonte di sviluppo del web 3.0 si amplia al tema dell’interazione uomo-macchina, un aspetto che il web 2.0 sostanzialmente non affrontava. Alla luce di questa integrazione, il web semantico potrebbe confluire nel destino degli avatar, le figure grafiche animate che troviamo sul sito di Second life e in una moltitudine di videogame, per metterli in condizione di dialogare in maniera intelligente con l’utente umano (non a caso l’accezione web 3.0 è estesa oggi anche alle applicazioni di grafica 3D).