WELFARE STATE
L'espressione w.s. (in italiano "stato di benessere") entrò nell'uso in Gran Bretagna negli anni della seconda guerra mondiale, a indicare l'insieme delle condizioni economico-sociali derivanti dall'intervento dello stato, in un'economia di mercato, per garantire il benessere dei cittadini. Il w.s. comprende pertanto il complesso di interventi pubblici (stato, regioni, enti locali) diretti a migliorare le condizioni di vita dei cittadini e in una prospettiva di ''contratto sociale'' in cui lo stato si assume il ruolo di garante del benessere dei cittadini. Nel corso del tempo, gli interventi di questo tipo si sono sviluppati in tre fasi, corrispondenti a tre diverse impostazioni del problema della protezione sociale, connesse sia con l'evoluzione dei rapporti di solidarietà tra gli appartenenti al gruppo sociale, sia con l'andamento dello sviluppo economico (e, quindi, con la crescente disponibilità di risorse da destinare a tale scopo).
In una prima fase, fino al primo periodo della ''rivoluzione industriale'' (18° secolo), la protezione sociale si è manifestata soprattutto come assistenza alla povertà, nei casi in cui la solidarietà familiare non era in grado di provvedervi. Questa funzione, nella quale la Chiesa svolgeva un ruolo molto attivo, che giustificava anche le ''decime'' e le altre forme di benefici ecclesiastici, è stata svolta, nel corso del tempo, in misura crescente dallo stato, in coincidenza con la sua laicizzazione e con la confisca dei beni della Chiesa. Il primo caso rilevante, a questo riguardo, è stato quello della ''legge dei poveri'' emanata dalla regina Elisabetta nel 1601, dopo l'espropriazione dei beni ecclesiastici conseguente allo scisma di Enrico viii, e rimasta fino ai primi decenni del secolo scorso come pilastro dei servizi assistenziali britannici.
La seconda fase, iniziatasi in Inghilterra a partire dalla legislazione del 1834 e sviluppatasi anche nell'Europa continentale circa cinquant'anni dopo, ha visto un'estensione, oltre a una ristrutturazione, degli interventi di protezione sociale, a motivo del passaggio dall'economia agricola a quella industriale. Questa fase ha visto nascere, particolarmente in Germania a opera di Bismarck, un vasto sistema di assicurazioni sociali per fronteggiare le più rilevanti situazioni di disagio dei lavoratori, dagli incidenti sul lavoro alle malattie e alla vecchiaia. Sia nella prima che nella seconda fase, l'intervento pubblico a fini sociali ha avuto dei destinatari individuabili, in quanto rientravano in categorie ritenute dalla società degne di protezione, sulla base di ragioni diverse ma che avevano un preciso contenuto economico, non solo sociale. Nella prima fase, infatti, l'intervento a favore dei poveri si giustificava, oltre che con considerazioni di filantropia, con valutazioni economiche attinenti alla riduzione delle esternalità negative connesse con la povertà (ignoranza, tasso di criminalità, ecc.). Nella seconda, le motivazioni erano più complesse, proprio per la maggiore articolazione della società industriale rispetto a quella agricola. Vi erano, da un lato, le rivendicazioni dei lavoratori, dall'altro la ricerca della pace sociale dei governanti, oltre all'interesse degli industriali a limitare il costo del lavoro, cosa facilitata dalla prestazione pubblica ai lavoratori di servizi cui, altrimenti, avrebbero avuto accesso soltanto pagandoli sul mercato.
La terza e più sviluppata fase del w.s., che coincide con la visione dello "stato di benessere" come insieme di interventi di protezione sociale a carattere tendenzialmente universale in favore dei cittadini ha avuto la sua attuazione soltanto dopo la seconda guerra mondiale. Un contributo fondamentale in questa direzione fu la decisione, presa nel 1941 dal governo britannico, di procedere a un'indagine molto estesa sui sistemi di assicurazioni sociali e sui servizi assistenziali vigenti, con lo scopo di fornire proposte di riforma. La direzione fu affidata a W. Beveridge, che nel novembre 1942 presentò il rapporto conclusivo, noto come Piano Beveridge, che proponeva un'importante novità: estendere la protezione a tutti i cittadini, indipendentemente dai contributi versati (e dall'esistenza di uno stato di bisogno). Si passava, così, dalle ''assicurazioni sociali'' alla ''sicurezza sociale'', sistema introdotto in Gran Bretagna attraverso un'apposita legislazione del 1946 e del 1948. Esso copriva: disoccupazione, invalidità, perdita dei mezzi di sussistenza, andata a riposo per limiti di età, bisogni del matrimonio (per le donne: matrimonio, maternità, interruzione dei guadagni del marito, vedovanza, separazione), spese funerarie, sussidi all'infanzia, malattia fisica o incapacità. Il sistema di welfare britannico (in parte preceduto da riforme che avevano avuto luogo nei paesi scandinavi, e in particolare in Svezia, negli anni Trenta) si è imposto come modello per gli altri paesi industriali per molti decenni. Malgrado esso fosse entrato in crisi già a metà degli anni Settanta, ha continuato anche negli anni successivi a ispirare riforme come il servizio sanitario nazionale introdotto in Italia nel 1978. Non vi è dubbio che sia stato proprio l'insuccesso del w.s. (alti costi associati a servizi insoddisfacenti) uno dei fattori fondamentali dell'emergere delle politiche di ridimensionamento dello stato condotte da M. Thatcher in Gran Bretagna. Ancor più grave, per il w.s., è stato l'insuccesso del sistema svedese negli anni Ottanta. In Svezia, infatti, nel dopoguerra, l'economia era cresciuta a tassi ben più elevati che in Gran Bretagna, il che sembrava legittimare l'idea di un equilibrio tra equità ed efficienza, malgrado la forte pressione tributaria.
Il w.s. implica una serie di interventi piuttosto complessi, sia di natura fiscale che di tipo regolamentativo, di cui non è certamente facile compiere un'accurata analisi, anche perché in ogni sistema istituzionale vi sono peculiarità che consigliano una certa prudenza nell'operare confronti e una cautela ancor maggiore nell'estendere ad altri sistemi valutazioni basate sulle esperienze di un paese.
Un primo aspetto che sembra opportuno mettere in evidenza è che l'intera costruzione del w.s. poggia su una visione dello stato di carattere paternalistico, tipica della tradizione britannica (di cui sono un esempio gli interventi fiscali per correggere le esternalità di cui si fece assertore A.C. Pigou). Sulla base di quest'impostazione appare del tutto legittimo che lo stato intervenga nel mercato, al fine di modificarne i risultati in senso equitativo. In questa visione, infatti, lo stato ha un ruolo di arbitro, che stando al di sopra delle parti opera in modo da evitare che qualcuno dei giocatori sia danneggiato.
Ben diverse sono le conclusioni cui si giunge quando all'ipotesi di uno stato neutrale, che opera in favore di tutta la collettività, si sostituisce quella di gruppi d'interesse che influiscono sulle politiche sulla base del proprio tornaconto. Secondo l'impostazione dell'economia delle scelte pubbliche (public choices), coloro che operano in ambito pubblico, siano essi politici, burocrati o anche elettori, si basano nelle loro scelte sulle proprie preferenze personali, che non necessariamente (e neppure frequentemente) danno priorità a valutazioni di tipo altruistico o solidaristico. Ne deriva che proprio il tipo di interventi pubblici che incidono in modo dettagliato sul benessere dei cittadini sia quello che maggiormente si presta a essere utilizzato a fini personali da coloro che riescono a organizzare il consenso, nell'ambito dell'opinione pubblica e anche in sede parlamentare. Tuttavia, poiché i gruppi che maggiormente sono capaci di organizzarsi in questa direzione non sono quelli più svantaggiati, ne consegue che, in linea di principio, seguendo l'impostazione dell'economia delle scelte pubbliche, non ci si può attendere che il w.s. realizzi in modo soddisfacente gli obiettivi per i quali è stato introdotto.
Mentre si rinvia agli studi indicati in bibliografia per un approfondimento del ruolo dello stato nell'economia secondo gli studiosi contemporanei, è opportuno, in questa sede, formulare alcune valutazioni circa gli effetti sulla distribuzione del sistema di w.s. nella forma ''universale'' che oggi ancora prevale nei paesi industrializzati. L'universalizzazione del w.s. (l'estensione, cioè, dei suoi servizi all'intera collettività, indipendentemente dallo stato di bisogno) ha avuto due effetti non previsti ma in netto contrasto con i suoi obiettivi equitativi: ha ridotto considerevolmente la capacità redistributiva dello ''stato del benessere'', rimasta prevalentemente affidata alla progressività del sistema tributario, e ha provocato una massiccia espansione della spesa pubblica che ha messo in pericolo gli equilibri finanziari del sistema, creando problemi al contenimento dell'inflazione e della disoccupazione.
Il primo effetto deriva dal fatto che l'estensione dei servizi all'intera collettività, indipendentemente dal livello di reddito dei cittadini, se ha evitato l'odiosa ''prova dei mezzi'' come requisito per beneficiare dei servizi di welfare, ha anche ridotto in modo radicale la possibilità di utilizzare la spesa pubblica a fini redistributivi. Lo strumento fiscale, d'altra parte, come è ormai ben noto, non è in grado, di per sé, di attuare una redistribuzione significativa. L'imposta personale sul reddito (il principale tributo a carattere ordinario cui si riconosce il ruolo redistributivo) colpisce prevalentemente i redditi piccoli e medi. In Italia, per es., più di due terzi del gettito sono costituiti da redditi da lavoro dipendente.
Il secondo effetto è costituito dalla forte espansione della spesa pubblica derivante dall'estensione a tutta la collettività dei servizi sociali. In linea generale, questo aumento della spesa pubblica, che tende ad assumere carattere permanente, dato che non è conveniente, sotto il profilo politico (perdita di consensi), ridurlo in modo drastico, è negativo per le rigidità che crea e che riducono le capacità d'intervento della politica economica. In molti paesi (tra cui l'Italia) l'aumento della spesa pubblica a fini sociali ha inoltre generato forti disavanzi del bilancio pubblico, che hanno messo in crisi il sistema finanziario, con conseguenze molto negative per l'economia.
Si osservi che quanto precede non significa, evidentemente, che lo ''stato del benessere'' non abbia redistribuito, nel senso di togliere risorse ad alcuni per aumentare i redditi di altri. Quello che, sulla base di quanto è accaduto in diversi paesi, sembra si possa asserire è che coloro che hanno beneficiato di questa redistribuzione non sono stati (almeno per gran parte) i più poveri, così come quelli che hanno maggiormente contribuito non sono stati necessariamente i più ricchi. L'effetto di questa redistribuzione non è stato, quindi, quello di diminuire la concentrazione dei redditi, ma soltanto quello di provocare un intenso movimento di risorse che ha interessato soprattutto le classi medie. Queste ultime, infatti, pur nella diversità dei sistemi fiscali, sono di solito quelle che pagano, in proporzione al loro reddito, la quota maggiore, mentre al tempo stesso sono quelle che traggono i maggiori benefici dalla spesa pubblica. Le classi medie sono, infatti, quelle che hanno i redditi più ''visibili'', in quanto prevalentemente di lavoro dipendente e, dopo un certo livello, anche di natura immobiliare. Ne consegue che, dato il tipo di progressività adottato in paesi come l'Italia, il prelievo fiscale su queste classi è particolarmente elevato. D'altra parte, le classi medie sono anche quelle che maggiormente traggono benefici da un sistema ''universale'' di servizi, dato che sono più capaci dei ''poveri'' nella compilazione dei moduli e nello svolgimento delle pratiche burocratiche, mentre hanno più tempo dei ''ricchi''. Peraltro, considerando l'elevato costo non solo dal punto di vista amministrativo, ma anche in termini economici, sia a livello micro (in termini di disincentivi al lavoro e alla produzione) che a livello macro (effetti inflazionistici delle politiche di forte prelievo e spesa), ci si chiede se abbia un qualche significato continuare con questo sistema. Le aspettative che nel corso del tempo sono state create nei cittadini rendono, tuttavia, molto difficile individuare una riforma che consenta di ridimensionare gli interventi pubblici che rientrano nel w.s., limitandoli ai casi in cui essi siano veramente necessari.
Le contraddizioni che, nel corso del tempo, sono state individuate nei meccanismi attraverso cui ha operato il w.s. hanno sempre suscitato controversie molto vivaci. La principale è quella secondo cui esso aggraverebbe le condizioni di disagio che invece dovrebbe contribuire a eliminare. In particolare, invece di ridurre il grado di dipendenza economica, il w.s. tenderebbe a perpetuarlo, invogliando coloro che vivono di sussidi pubblici a non fare nulla per modificare la propria situazione. Analogamente, diversi interventi, specie a livello di assistenza familiare, sono stati criticati per il fatto di facilitare gli eventi più indesiderabili. Così, la possibilità di ricorrere gratuitamente ai servizi ospedalieri per abortire, renderebbe più frequente questa pratica, mentre la protezione delle madri separate faciliterebbe lo scioglimento delle famiglie, e così via. Su tutto ciò è difficile esprimere una valutazione obiettiva, anche se non sarebbe male ricordare l'antica tradizione filosofica delle ''conseguenze non previste dell'azione umana'', che ha avuto tra i suoi assertori economisti come A. Smith e, in epoca recente, L. von Mises e F. von Hayek.
Anche se non è facile formulare indicazioni sul modo in cui il sistema del w.s. si modificherà nel prossimo futuro, non vi è dubbio che la direzione verso la quale andare dovrà essere quella di un suo notevole ridimensionamento. Infatti, al di là delle discussioni di cui si è detto, è ormai emerso in modo evidente che gli oneri che il w.s. implica non sono compatibili con il tasso di crescita dell'economia (piuttosto modesto, rispetto a quello degli anni del dopoguerra) e con il tasso di natalità molto basso dei paesi industrialmente avanzati. La combinazione di questi due elementi fa ritenere che sarà sempre più difficile reperire le risorse necessarie per le pensioni, le spese sanitarie e gli altri servizi di welfare richiesti da una popolazione il cui tasso d'invecchiamento ha ormai raggiunto un livello senza precedenti.
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