WELFARE.
– Modelli di welfare. Il welfare negli Stati europei: criticità e l’impatto della crisi del 2008. La riforma del welfare in Italia
Il termine inglese welfare indica l’insieme di interventi e di prestazioni erogati dalle istituzioni pubbliche e finanziati tramite entrate fiscali (welfare State), destinati a tutelare i cittadini dalle condizioni di bisogno, a coprirli da determinati rischi (Stato assistenziale o Stato sociale), migliorarne la qualità della vita e il benessere, garantire istruzione, cure sanitarie, assistenza, previdenza pensionistica, formazione professionale, ricerca universitaria, sostegno al lavoro e all’imprenditorialità, promozione della famiglia ecc. e un tenore di vita minimo in attuazione dei diritti di cittadinanza.
Modelli di welfare. – Gli strumenti tipici per perseguire gli obiettivi del w. sono: corresponsioni in denaro, specie nelle fasi non occupazionali del ciclo vitale (vecchiaia, maternità ecc.) e nelle situazioni di incapacità lavorativa (malattia, invalidità, disoccupazione ecc.); erogazione di servizi in natura (in particolare istruzione, assistenza sanitaria, abitazione ecc.); concessione di benefici fiscali (per carichi familiari, l’acquisto di un’abitazione ecc.); regolamentazione di alcuni aspetti dell’attività economica (quali la locazione di abitazioni a famiglie a basso reddito e l’assunzione di persone invalide). Le modalità di realizzazione del w., seppure ormai solidamente acquisite in tutti Paesi industrializzati, soprattutto dal secondo dopoguerra in poi, rispondono comunque a differenti schemi teorici e ideologici che ne caratterizzano le caratteristiche applicative e che vengono in genere differenziati in tre tipologie (dalla definizione del sociologo danese Gøsta Esping-Andersen, in The three worlds of welfare capitalism, 1990). In uno schema che può essere definito di ispirazione liberale, il w. risponde alla teoria politica secondo cui occorre individuare con precisione i rischi sociali e ridurre al minimo l’impegno dello Stato, che deve svolgere il ruolo di facilitatore dei processi piuttosto che di gestore dei servizi. Tale modello è tipico dei Paesi anglosassoni: Australia, Nuova Zelanda, Canada, Gran Bretagna e Stati Uniti. Nel regime conservatore i diritti e le prestazioni del w. vengono invece collegati al tipo di professione esercitata: in base al lavoro svolto si stipulano assicurazioni sociali obbligatorie che sono all’origine della copertura per i cittadini. I diritti sociali sono quindi collegati alla condizione del lavoratore. Questo è il modello tipico degli Stati dell’Europa continentale e meridionale, tra cui l’Italia. Nel regime socialdemocratico i diritti derivano dalla cittadinanza: vi sono quindi dei servizi che vengono offerti a tutti i cittadini dello Stato senza nessuna differenza. Tale modello promuove l’uguaglianza di status ed è tipico degli Stati dell’Europa del Nord.
Il welfare negli Stati europei: criticità e l’impatto della crisi del 2008. – Rispetto al resto del mondo, la quota di spesa pubblica in rapporto al prodotto interno lordo (PIL) destinata al w., e in particolare alla copertura delle pensioni, con una media superiore al 10%, si concentra nei Paesi europei.
Tra gli Stati membri dell’Unione Europea, il livello di spesa per la protezione sociale in rapporto al PIL (riferito all’anno 2012) più elevato è registrato in Danimarca (34,6%); seguono Francia (34,2%) e Paesi Bassi (33,3%). Anche le quote di Irlanda, Grecia, Finlandia, Belgio, Svezia, Italia (30,3%) e Austria si collocano sopra la media europea. La spesa per la protezione sociale raggiunge meno del 20,0% del PIL in Polonia, Malta, Slovacchia, Bulgaria, Lituania, Romania, Estonia e Lettonia (che presenta il valore più basso, 14%, seguita nel continente europeo soltanto dalla Turchia, 13,8%). C’è anche da osservare che si sta evolvendo il concetto stesso di benessere che i sistemi di w. vogliono realizzare, e che sta portando a includere elementi più ampi intesi come salute fisica ma anche psichica, come una condizione di maggiore armonia tra uomo e ambiente, un miglioramento di diversi fattori che influiscono sullo stile di vita e che consentono agli individui di esprimere il loro potenziale personale nella società (ambiente, tempo libero, lavoro, ambienti ricreativi, sviluppo sostenibile, lotta all’inquinamento, sicurezza e qualità alimentare ecc.). Tuttavia, la progressiva estensione dei servizi di w. all’intera collettività, scollegata da una più attenta valutazione della loro sostenibilità finanziaria, ha avuto nel corso del tempo effetti non previsti e in netto contrasto con i suoi obiettivi equitativi, evidenziando forti elementi di criticità: ha ridotto considerevolmente la capacità redistributiva dello ‘Stato del benessere di massa’, prevalentemente affidata alla progressività del sistema tributario; ha provocato una massiccia espansione della spesa pubblica creando disavanzi del bilancio pubblico (com’è avvenuto in Italia); ha favorito il potere delle burocrazie; ha provocato l’incremento della pressione fiscale; ha sollecitato situazioni di dipendenza economica collegata a ingiustificate prestazioni assistenziali. Di conseguenza, spesso, coloro che hanno beneficiato degli effetti redistributivi del w. non sono stati sempre i più poveri, così come quelli che hanno maggiormente contribuito alla copertura finanziaria non sono stati necessariamente i più ricchi, quanto piuttosto la classe media.
Tali contraddizioni sono già emerse con evidenza sin dagli anni Ottanta-Novanta del 20° sec. come conseguenza della trasformazione progressiva dei contesti economici e sociali e dell’affermarsi di fenomeni quali l’allungamento dell’aspettativa di vita e l’invecchiamento della popolazione, l’abbassamento del tasso di natalità, l’immigrazione, la trasformazione della struttura familiare (che, prima, rappresentava un elemento di supporto e di garanzia del sistema assistenziale e pensionistico tra le generazioni). Queste problematicità hanno manifestato tutta la loro drammaticità con l’esplodere della grande recessione del 2008, e con le sue conseguenze devastanti. Il crollo della crescita economica e la disoccupazione, che hanno accentuato gli squilibri di finanza pubblica e impoverito anche un’ampia quota dei ceti medi (che, come evidenziato, partecipavano in gran parte a sostenere economicamente il w. stesso) hanno contribuito alla crisi dello Stato sociale e dato l’avvio a un intenso ripensamento sul ruolo e sul funzionamento del w. nei Paesi maggiormente industrializzati. Si è applicata così una ‘ricalibratura’ del sistema in un meccanismo di tagli e compensazioni fra le voci di spesa in termini funzionali, distributivi, normativi, politico-istituzionali, che ha visto però i Paesi europei seguire percorsi differenti. I processi di rinnovamento normativo così innescati hanno comunque avuto l’obiettivo comune di ridimensionare il ruolo dello Stato, contrastando gli elementi dello spreco di risorse pubbliche e facendo maggiore ricorso a nuove forme di gestione (soprattutto informatiche) più efficienti e meno costose.
La riforma del welfare in Italia.– La risposta alla contrazione del ruolo statale è stata quella di sviluppare simmetricamente un maggiore coinvolgimento della società civile che ha visto l’affermarsi di nuovi operatori economici nell’organizzazione delle attività di w. e un accresciuto ricorso alle assicurazioni private e a forme di mutualità volontaria (per es., fondi sanitari integrativi). Tuttavia le riforme applicate hanno avuto un forte impatto in termini sociali e sono state spesso oggetto di molte critiche.
In Italia, nel settore pensionistico, particolari perplessità sono state suscitate dalle modifiche normative contenute nella cosiddetta legge Fornero. Il contestato pacchetto di modifiche (inserite nell’ambito del cosiddetto decreto Salva Italia, d.l. 6 dic. 2011 nr. 201, presentato sotto il governo Monti), proponeva una riforma del sistema pensionistico pubblico avente l’obiettivo di effettuare notevoli risparmi con tagli della spesa pubblica e aumenti delle entrate (aumentando le aliquote contributive pensionistiche di copertura, spostando in avanti l’età pensionabile, modificando il sistema di calcolo di anzianità anche per le donne lavoratrici, ridefinendo i redditi minimi ecc.) per impedire il default finanziario dello Stato italiano in ambito europeo durante la recessione. In realtà, il sistema riformato non aveva tecnicamente migliorato il rapporto tra la spesa pensionistica e il PIL (elemento di maggiore impatto sui conti pubblici italiani) destinato a rimanere particolarmente alto e ledeva i principi contenuti nell’art. 38 della Costituzione italiana, relativi ai rapporti giuridici tra i soggetti di diritto (cittadini lavoratori nella condizione di bisogno ed enti previdenziali), tanto da evidenziare una questione di legittimità costituzionale (sollevata tra il 2013 e il 2014, tramite ordinanze del Tribunale di Palermo, sezione lavoro, della Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna e della Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Liguria). La sentenza della Corte costituzionale (depositata il 30 aprile 2015), ha dichiarato incostituzionale l’art. 24, comma 25 del d.l. 6 dicembre 2011, considerandolo lesivo dei «diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36 Costituzione) e l’adeguatezza (art. 38). Quest’ultimo è da intendersi quale espressione certa, anche se non esplicita, del principio di solidarietà» (art. 2) e «al contempo attuazione del principio di eguaglianza» (art. 3). In sostanza, risultava incostituzionale il meccanismo previsto dalla legge, «in considerazione della contingente situazione finanziaria», di adeguamento della pensione al costo della vita.
Inoltre, la riforma era basata su un’errata valutazione del numero dei cosiddetti esodati, ossia la categoria di persone che, prossime al conseguimento dei requisiti pensionistici di vecchiaia o anzianità, sulla base di normative pregresse e accordi con le proprie aziende in difficoltà, si erano ritirate dall’attività lavorativa e che si ritrovavano all’improvviso prive di copertura finanziaria senza la possibilità di ricevere l’assegno mensile guadagnato con anni di contributi versati regolarmente. Le riforme emanate successivamente sono intervenute per sanare in più riprese le conseguenze della legge attraverso una serie di provvedimenti detti clausole di salvaguardia. In particolare è stata emanata dapprima la legge di stabilità 2014 (l. 27 dic. 2013 nr. 147, governo Letta) che è intervenuta anche ad apportare modifiche su blocchi alle indicizzazioni, contributi di solidarietà, cosiddette pensioni d’oro, cumuli da pensione e reddito e così via. Successivamente, con la legge di stabilità 2015 (l. 23 dic. 2014 nr. 190, governo Renzi) sono state anche introdotte altre modifiche sulle pensioni d’oro dei dirigenti pubblici, sulle pensioni anticipate, sui requisiti di anzianità contributiva oltre che su altri aspetti del w. (rimodulazione del cosiddetto bonus bebè per i nuclei familiari a reddito più basso, incremento del fondo per le non autosufficienze, finanziamento degli ammortizzatori sociali, servizi per il lavoro e politiche attive ecc.). Tuttavia, occorre considerare che la sostenibilità fiscale del sistema pensionistico pubblico non può essere raggiunta soltanto attraverso modifiche normative, ma richiede politiche di intervento più ampie sull’andamento demografico, sul livello di reddito prodotto, sulla crescita della produzione e, soprattutto, sulla tutela dell’occupazione e del lavoro elementi senza i quali è impossibile un sostegno al w. adeguato.