Western all'italiana
Genere cinematografico affermatosi in Italia tra il 1962 e il 1976 con la produzione o coproduzione di oltre 450 film western. Con le produzioni western tedesche, spagnole e francesi si superano i 500 film. In Italia questi film divennero popolari come 'western all'italiana', mentre negli Stati Uniti furono denominati 'spaghetti western', espressione usata talora in senso spregiativo, talora in senso affettuoso. Ha poi acquisito una certa diffusione la più neutra espressione eurowestern. Gli anni di più elevata produzione di western italiani furono il 1966 (40 titoli), il 1967 (74), il 1968 (77), il 1969 (31), il 1970 (35), il 1971 (47) e il 1972 (48). In quel periodo l'industria cinematografica italiana divenne la più grande esportatrice di lungometraggi, seconda solo a quella statunitense.
Nei primi anni Sessanta la produzione hollywoodiana di western era molto diminuita. Su tutti i film realizzati negli Stati Uniti la percentuale di questo tipo di opere era scesa dal 34% del 1950 al 9% del 1963; in termini di film prodotti si era passati da circa 150 a circa 15. E quei pochi film presentavano una certa stanchezza. Gli europei, amanti del western, di fronte alla scarsità delle produzioni hollywoodiane, cominciarono a realizzarne sul proprio territorio, rivitalizzando così un genere che era ormai in fase di invecchiamento. Il pubblico europeo aveva dimostrato, con il successo ottenuto dai primi film di 'Winnetou il guerriero' (Der Schatz im Silbersee, 1962; Winnetou ‒ 1. Teil, 1963; Winnetou ‒ 2. Teil, 1964, tutti di Harald Reinl), che esisteva una reale domanda di produzioni interne di questo tipo: ciascuno di tali western, liberamente tratto da K. May e coprodotto da società tedesco-occidentali, iugoslave e francesi, incassò oltre due milioni di dollari nei soli tre mercati di origine. La Germania non era l'unica ad avere una lunga tradizione di proprie autonome produzioni sul 'selvaggio West'. Film western erano stati realizzati da produttori e registi italiani sin dall'epoca del muto ‒ alcuni sui cowboy, altri sui butteri maremmani, una versione italiana della medesima figura ‒ e i fumetti italiani come Tex, Cocco Bill e Pecos Bill avevano reso familiare il western hollywoodiano sin dai tardi anni Quaranta. La prima 'horse opera' degna di questo nome era stata La fanciulla del West opera lirica di Giacomo Puccini, la cui prima ‒ con il famoso tenore Enrico Caruso nel ruolo del protagonista maschile ‒ era andata in scena nel 1910 al Metropolitan di New York. L'Italia, Roma in particolare, divenne alla metà degli anni Sessanta il centro mondiale della produzione di western. Sin dai primi anni Cinquanta la prosperità economica del cinema popolare italiano era dipesa da una serie di cicli di film (veri e propri filoni), di intenso e rapido sfruttamento: lo spunto per la nascita e il consolidarsi dei cicli poteva essere un successo hollywoodiano, un film popolare particolarmente amato dal pubblico o anche un film italiano di sorprendente successo. Il ciclo catturava l'interesse degli spettatori e incassava centinaia di milioni di lire al botteghino, per poi esaurirsi allorché la sua ripetitività faceva scemare l'afflusso del pubblico. Il primo di questi fortunati cicli fu quello mitologico, basato sulle avventure di personaggi dalla grande forza muscolare (v. peplum); esso ebbe un notevole successo anche fuori dei confini nazionali, arrivando a rappresentare i due terzi dei ricavi di tutti i film italiani nella stagione 1962-63. Dopo lo strepitoso successo europeo di Per un pugno di dollari (1964) di Sergio Leone, in cui compariva un giovane Clint Eastwood, il ciclo che ne derivò ‒ il più eclatante e duraturo di tutti ‒ avrebbe dato vita al western all'italiana. Per un pugno di dollari fu prodotto in Italia in un periodo di crisi particolarmente grave: gli americani (dopo gli insuccessi di Sodom and Gomorrah, 1962, Sodoma e Gomorra, di Robert Aldrich e di Cleopatra, 1963, di Joseph L. Mankiewicz) avevano ormai lasciato gli studi italiani; le grandi società italiane di produzione si trovavano in serie difficoltà; le sale cinematografiche erano troppe e i prodotti non sufficienti a tenerle tutte in vita; mancavano stimoli e iniziative volti a soddisfare le esigenze popolari del mercato e vi era una crisi di fiducia da parte delle banche. Il momento era favorevole a propiziare la nascita di un nuovo ciclo che avrebbe potuto sostentare un enorme numero di sale ‒ comprese quelle di terza visione ‒ mediante un prodotto in grado di attirare l'interesse del pubblico.
Ma perché proprio il western? Il ciclo epico-mitologico era cominciato con Le fatiche di Ercole (1958) di Pietro Francisci, briosa e irriverente risposta ai film epici hollywoodiani nello stile di Cecil B. DeMille. Anche Per un pugno di dollari era una risposta irriverente a un genere hollywoodiano, ma realizzata da un regista che aveva amato i western tradizionali e odiava ciò che erano ormai diventati. L'industria italiana, in quanto piccola esportatrice regionale di media e grande importatrice di media americani, si trovava nelle condizioni più adatte a produrre ibride forme culturali che mescolavano le vecchie storie hollywoodiane con le influenze locali. La sostituzione, nei gusti del pubblico italiano, del genere epico-mitologico con il western rispecchiava ampi mutamenti nella società italiana. Sembrava farsi strada una forma più adulta di appagamento del desiderio, nella quale l'eroe affronta gli ostacoli non con la sola forza muscolare, ma con astuzia, tecnica e destrezza nell'uso delle armi; un eroe la cui principale ambizione consiste nello sfruttare a proprio vantaggio le ingiustizie che incontra; con un'enfatizzazione del machismo e dello stile mediterranei al posto della ruvidezza americana. Il w. all'i. presentava un graduale crescendo di azione che culminava in esplosioni di brutale violenza per tenere desta l'attenzione del pubblico, un uso retorico della cinepresa che mirava a dilatare il tempo e a estendere i cliché visuali del western hollywoodiano come se fossero parte di una vera liturgia, un'ambientazione in zone di confine del Sud-Ovest americano piuttosto che nella frontiera medio-occidentale, memorabili partiture musicali in tempo rapido con inusuali orchestrazioni, effetti d'eco, interludi corali, chitarre Fender Stratocaster, melodie orecchiabili e suoni naturali amplificati. I duelli, o meglio, le 'uccisioni', erano di solito preceduti da solenni attacchi di tromba o maestosi boleri con chitarre spagnole tenute vicinissime al microfono. Per quanto riguarda gli esterni, sin dai tardi anni Cinquanta i produttori spagnoli e inglesi si erano serviti dei deserti e dei villaggi di case di mattoni e paglia attorno ad Almeria, nella Spagna meridionale, per la loro somiglianza con l'Arizona e il New Mexico ‒ luoghi che sarebbero diventati molto in voga soprattutto dopo che vi fu girato Lawrence of Arabia (1962; Lawrence d'Arabia) di David Lean. In Spagna esisteva peraltro un contesto produttivo molto ben sviluppato, con teatri di posa e laboratori attorno a Madrid; vi erano inoltre registi, artigiani, guardiani di cavalli, stuntmen, attori robusti che potevano interpretare ruoli di messicani cattivi; cavalli andalusi; una tradizione di produzioni western che risaliva agli anni Quaranta; set che erano stati costruiti per i film di Zorro. Nei primi tempi, quindi, la Spagna permetteva produzioni a basso costo, ma i western a costo ancor più basso, comunque, sarebbero stati ambientati nelle campagne attorno a Roma.I primi western italiani erano copie a basso costo della serie di Winnetou o delle tradizionali avventure hollywoodiane sui cowboy e gli indiani: un esempio tipico è Buffalo Bill, l'eroe del Far West (1964) di John W. Fordson (pseudonimo di Mario Costa), che riproponeva la vecchia storia del cattivo che vende fucili e 'acqua di fuoco' ai Sioux, e di Buffalo Bill (Gordon Scott) che fa concludere un trattato di pace. In molti dei primi western italiani i componenti delle troupe si nascondevano dietro pseudonimi anglofoni, in modo che il pubblico italiano fosse portato a credere di assistere a film americani, ma anche al fine di mascherare il carattere multinazionale di alcune produzioni. Ma dopo Per un pugno di dollari, e in particolare dopo il suo seguito Per qualche dollaro in più (1965), entrambi di Leone, cominciarono a emergere alcune caratteristiche tipicamente italiane. Il 'Joe' di Clint Eastwood, il 'Django' di Franco Nero, il 'Ringo' di Giuliano Gemma, 'Lo straniero' di Tony Anthony e il 'Sartana' di Gianni Garko erano in competizione con altri pistoleri solitari i cui nomi comparivano con evidenza nei titoli. Vi furono sedici Django, quattordici Ringo, quattordici Sartana, e così via. Ci fu chi scelse Clint Westwood come pseudonimo. Tutti questi pistoleri combinavano l'invulnerabilità di Ercole o di Maciste con l'ingegnosità di James Bond. L'intreccio standard prevedeva il pistolero solitario che attraversava a cavallo un isolato villaggio di baracche del Sud-Ovest dominato da fazioni o clan in conflitto (di solito un messicano e un gringo, contrapposti l'uno all'altro da interessi piuttosto che da principi); il pistolero veniva poi violentemente malmenato da uno o da entrambi i clan prima di sconfiggere il più forte dei cattivi in una ritualizzata resa dei conti. Il pistolero era di solito abbigliato in modo distinto ed elegante, aveva il volto non rasato, portava un cappello calato sugli occhi e fumava un cigarillo. Possedeva inoltre una sua particolare e distintiva arma. Presto ogni pistolero avrebbe avuto più di un 'marchio' caratteristico: vi furono così pistoleri monchi, pistoleri senza una mano, preti-pistoleri, pistoleri ciechi, pistoleri muti, pistoleri epilettici, un pistolero fantasma e anche un pistolero omosessuale agli ordini di un messicano psicopatico denominato Zorro.
Per qualche dollaro in più introdusse due elementi nuovi: il rapporto tra un pistolero anziano e uno più giovane (una struttura drammaturgica che ebbe numerose imitazioni, nelle quali spesso un vecchio attore hollywoodiano, per es. Lee Van Cleef, recitava accanto a un giovane attore italiano), e un intreccio basato sulla vendetta. Questo secondo elemento poteva talvolta avere anche delle implicazioni morali, e preparò la strada alla fase dei western sulla rivoluzione messicana, basati su un personaggio centrale, di solito un peone, che si trova davanti all'alternativa se fare il bandito o il rivoluzionario, e uno straniero carismatico più cinico e risoluto. Questa fase fu inaugurata da Quien sabe? (1966) di Damiano Damiani, cui seguirono La resa dei conti e Faccia a faccia entrambi del 1967 e di Sergio Sollima ‒ ambientati nel Sud-Est americano ‒, Tepepa (1969) di Giulio Petroni, Il mercenario (1968) e Vamos a matar, compañeros (1970) di Sergio Corbucci. Molti di questi film erano scritti o ispirati dallo scrittore e sceneggiatore Franco Solinas; alcuni contenevano velati riferimenti alle esperienze di partigiani dei registi durante la Resistenza, e quasi tutti erano rozzamente polemici sui cacciatori di taglie nello stile di Leone.
Il w. all'i. andò quindi diversificandosi secondo varie tipologie: vi furono 'western horror', 'western musicali' e, nella fase finale del ciclo, 'western circensi', come il Ehi amico… c'è Sabata, hai chiuso! (1969) di Gianfranco Parolini e La collina degli stivali (1969) di Giuseppe Colizzi, e, soprattutto, 'western commedia', stimolati dall'enorme successo dei due film di E.B. Clucher (ossia Enzo Barboni) Lo chiamavano Trinità (1970) e …Continuavano a chiamarlo Trinità (1971), interpretati dalla coppia Terence Hill (l'astuzia) e Bud Spencer (la forza), che aveva fatto la sua prima comparsa nel 1967 in Dio perdona…io no! di Colizzi. L'intero ciclo si concluse in modo spettacolare con Il mio nome è Nessuno (1973) di Tonino Valerii ‒ una meditazione sui rapporti tra i western hollywoodiani (rappresentati da Henry Fonda) e i loro 'cugini' italiani (rappresentati da un iperattivo Terence Hill) ‒ e con il western antirazzista di Enzo G. Castellari Keoma (1976), strutturato come una ballata che esplora il lato oscuro del genere. Dopo tutte queste variazioni i w. all'i. si esaurirono come ciclo e furono soppiantati dai film gialli e polizieschi. La critica riservava per lo più valutazioni positive solo ai film di Leone, che dal 1967 aveva peraltro preso ampiamente le distanze dal western all'italiana. I lavori di altri registi ‒ segnatamente Colizzi, Corbucci, Damiani, Carlo Lizzani (Un fiume di dollari, 1966; Requiescant, 1967), Petroni, Sollima, Tessari e Valerii ‒ furono ingiustamente trascurati, allo stesso modo dei più significativi e diversificati contributi degli autori delle musiche, tra i quali Ennio Morricone (35 western), Luis Enrique Bacalov (14), Guido e Maurizio De Angelis (10), Francesco De Masi (35), Gianni Ferrio (23), Angelo Francesco Lavagni-no (23), Carlo Rustichelli (18), Riz Ortolani (15).
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