Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
William James è stato definito “il primo pensatore americano con una reputazione europea”. Da psicologo, è l’autore di un classico della disciplina nel quale i risultati delle prime ricerche sperimentali convivono in maniera originale con acute analisi introspettive; come filosofo, è uno dei protagonisti della cosiddetta età d’oro della filosofia americana ed è considerato il capofila, con Charles Sanders Peirce, di un movimento di risonanza mondiale, il pragmatismo.
Figure di filosofo nell’America dell’Ottocento
“Erano giorni in cui i colleges americani sbocciavano in università”, scrive un biografo riferendosi ai primi anni Settanta dell’Ottocento, e non ha torto: l’inizio dell’attività accademica di William James coincide, negli Stati Uniti, con un periodo di profonda trasformazione delle forme organizzative del sapere. Tale “fioritura”, tuttavia, va compresa sullo sfondo di due caratteristiche della filosofia americana e del suo insegnamento per buona parte del XIX secolo.
La prima riguarda le diverse tipologie di “filosofo” che dominano la scena fino agli anni della guerra civile (1861-1865) e che solo nell’ultimo quarto del secolo cedono il passo a una figura professionale più vicina a quella che conosciamo oggi. Lo storico del pensiero americano Bruce Kuklick ne distingue tre. In primo luogo ci sono ministri e pastori della Chiesa che, esterni al sistema delle istituzioni universitarie o più in generale scolastiche locali, hanno come orizzonte di riferimento il dibattito filosofico e teologico del Vecchio Mondo. È proprio la loro collocazione eccentrica a far sì che all’interno di questo gruppo di pensatori ed eruditi si levino alcune delle voci più originali e indipendenti della cultura americana, da Jonathan Edwards, nel Settecento, ai protagonisti dei circoli culturali (i lyceums) dell’Ottocento come Horace Bushnell e Ralph Waldo Emerson, fondatore quest’ultimo del trascendentalismo, amico di Henry James senior e saggista molto amato tra gli altri da Nietzsche.
In secondo luogo ci sono i docenti di teologia dei seminari e delle divinity schools che sono sorte soprattutto nel Nordest, nel Midwest e nel Sud del Paese. Questi teologi hanno spesso un punto di vista più ristretto e sono maggiormente vincolati alle varie ortodossie confessionali, ma hanno un ruolo chiave nella formazione dei futuri pastori della Chiesa.
Infine ci sono i titolari delle cattedre di filosofia nei college: sono quasi sempre ministri della Chiesa e in molti casi sono a capo dell’istituzione nella quale insegnano; il loro compito principale consiste nel fornire il bagaglio teoretico necessario ai teologi nonché nel chiarire i fondamenti dell’ordine sociale e politico. Appartengono a questa tipologia Noah Porter, rettore di Yale, e Francis Bowen a Harvard.
Il difficile cammino della secolarizzazione
La seconda caratteristica è indicata senza troppe sfumature da John Dewey quando ricorda che per gran parte dell’Ottocento “le supposte esigenze della religione, o della teologia, dominavano l’insegnamento della filosofia nella maggior parte dei college”.
Il caso di Francis Bowen è al riguardo esemplare. Nel 1853 Bowen succede a James Walker (diventato nel frattempo rettore) come Alford Professor of Natural Religion, Moral Philosophy, and Civil Polity. Dal 1783, per statuto, il titolare della cattedra è tenuto a impartire “un’istruzione che dimostri l’esistenza di Dio, spieghi la Sua provvidenza, il Suo governo e la Sua rivelazione”, e attorno a questo compito Bowen sviluppa il proprio magistero, finendo per conferirgli un carattere autoritario e dogmatico che, secondo gli stessi supervisori dell’Università, non giova allo sviluppo della libera indagine critica. Perché i termini dello statuto vengano messi in discussione bisogna aspettare la fine del secolo e il successore di Bowen, George Herbert Palmer (1842-1933).
Il clima culturale, tuttavia, comincia a cambiare già poco dopo la fine della guerra civile. Da una parte, la nascente società industriale americana ha bisogno di un’educazione più moderna e adatta alle sue esigenze; dall’altra, la diffusione del punto di vista evoluzionistico mette in discussione la “vecchia” teologia unitariana in maniera più radicale di quanto non avesse fatto il trascendentalismo.
Charles Eliot (1834-1926) a Harvard è tra i primi a comprendere questi mutamenti e a sintonizzare su di essi le politiche dell’università. Nel discorso inaugurale della sua lunghissima presidenza (dal 1869 al 1909), per prima cosa chiarisce che “l’idea che l’educazione consista nell’inculcare in maniera autoritaria ciò che l’insegnante considera vero può essere logica e appropriata in un convento o in un seminario ma è intollerabile nelle università”. E in questo caso si può dire che alle parole seguano i fatti: apertura dei curricula con l’adozione del sistema opzionale, cioè della possibilità per lo studente di scegliere i corsi; ampliamento e specializzazione del corpo docente; pluralismo delle posizioni; creazione di una Graduate School sull’esempio di quanto già stava accadendo alla John Hopkins di Baltimora.
Quando, nel 1872, William James comincia la sua carriera accademica, accettando l’offerta di Eliot di tenere un corso di fisiologia, questo processo è da poco avviato. Per parte sua, James vi contribuisce rinnovando su basi scientifiche l’insegnamento della psicologia, istituendo uno dei primi laboratori di psicologia sperimentale degli Stati Uniti, portando a Harvard forze nuove come il filosofo Josiah Royce e lo psicologo Hugo Münstenberg, e, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, lanciando un movimento che avrà risonanza mondiale, il pragmatismo. Sarà anche tra i primi a denunciare i rischi della iper-professionalizzazione dell’università e di quella che chiama l’“industria del Ph.D”.
Vita e opere
James nasce a New York l’11 gennaio 1842, primogenito di una ricca e colta famiglia che dà i natali anche a Henry James junior, il celebre scrittore. Il padre, Henry James senior – singolare figura di libero pensatore – cresce i figli secondo i principi di un’educazione assai poco convenzionale, nella quale l’indipendenza delle idee e i viaggi occupano un posto centrale. La meta è l’Europa, dove James frequenta scuole di ogni genere e tipo.
A 19 anni, dopo un lampo di passione per la pittura, James cambia rotta e opta per la scienza: all’inizio si orienta allo studio della chimica e poi dell’anatomia comparata, finché a 22 anni decide di iscriversi alla Harvard Medical School. Nel 1865 prende parte a una spedizione in Brasile organizzata dal biologo Luiz Agassiz, dalla quale torna deluso. Nel 1869 consegue la laurea, ma la carriera medica è interrotta sul nascere da problemi di salute poco chiari; anche in questo caso cerca il rimedio in un viaggio di istruzione in Germania, dove si interessa in particolare agli studi di Helmhotz e di Wundt sulla fisiologia del sistema nervoso. In questo periodo attraversa anche una crisi depressiva che racconta di aver superato grazie alla lettura del filosofo spiritualista Renouvier.
Nel 1871 dà vita con Peirce e altri amici – “la crème de la crème dell’umanità di Boston”, dirà scherzando – al Metaphysical Club: da questi incontri, che proseguono fino al 1875, nasce il pragmatismo. L’anno di svolta è però il 1872, quando riceve il suo primo incarico a Harvard. Da quel momento la sua carriera professionale procede spedita, e anche la vita personale trova pochi anni dopo, nel matrimonio con Alice Gibbens, il suo solido corso. Dal 1875 inizia a insegnare psicologia e dal 1879 fino al pensionamento nel 1907 è professore di filosofia. In questo arco di tempo James continua i suoi viaggi in Europa, gode di un crescente prestigio accademico e ottiene fama pubblica come brillante conferenziere. Nel 1910 si spegne a Chocorua, la sua casa estiva nel New Hampshire.
Tanto le sue due opere di psicologia – Principi di psicologia (1890); La varietà dell’esperienza religiosa (1902) – quanto i suoi libri di filosofia – La volontà di credere (1897); Pragmatismo (1907); Il significato della verità (1909); Un universo pluralistico (1909) – hanno grande popolarità e suscitano accesi dibattiti. Postumi vengono pubblicati Alcuni problemi di filosofia (1911) e i Saggi sull’empirismo radicale (1912).
Il funzionalismo e la psicologia dello “stream of thought”
Nel 1878 James accetta la proposta di scrivere un manuale di psicologia per la collana “American Science” di Henry Holt. Il volume, che nelle intenzioni dell’autore e nelle speranze dell’editore doveva essere pronto in due anni, è consegnato solo 12 anni dopo, cresciuto di dimensione fino a raggiungere i due tomi e costato a James tanto tormento da fargli dire che “se anche dovesse bruciare in tipografia non mi importa, perché non lo riscriverei mai più”. I Principles of Psychology hanno grande successo e presto diventano (soprattutto il Briefer Course, la versione abbreviata) il manuale di riferimento per i corsi di psicologia delle università americane; oggi sono un classico della disciplina.
L’intenzione programmatica è di offrire una trattazione scientifica della psicologia, emancipandola dalla tutela della metafisica. Ma, a differenza di Wundt e dei suoi allievi, che più o meno negli stessi anni erano impegnati a mettere a punto procedure sperimentali di misurazione dei processi psichici, James, pur dedicando ampio spazio a quelli che chiama i “preliminari fisiologici” della psicologia, sviluppa il proprio discorso in primo luogo attraverso un’analisi introspettiva del “flusso di pensiero” che presenta se mai affinità con il successivo approccio fenomenologico di Husserl.
L’impianto concettuale dell’opera si inscrive nell’orizzonte della ricezione americana della teoria evoluzionistica di Darwin. L’intelligenza viene interpretata come uno strumento adattativo e lo sviluppo della mente come il prodotto di un processo di aggiustamento dell’organismo al proprio ambiente. In questa prospettiva, la questione cardine della psicologia non è più “che cosa è la mente” ma “a che cosa serve e come funziona la mente”. La tesi di Herbert Spencer che la mente “serve ad adattare le relazioni interne a quelle esterne”, è considerata un progresso rispetto alla vecchia psicologia metafisica, che la concepiva come una sostanza separata e autosufficiente, ma non basta perché fa della mente un semplice riflesso meccanico dell’ambiente. Secondo James la caratteristica della mente è di essere un’“intelligenza intelligente”, cioè un elemento dinamico e creativo che pone dei fini e sa di porseli. La mente è teleologica e assolve la propria funzione perseguendo interessi e preferenze soggettivi che ne costituiscono la spontaneità nei confronti dell’ambiente. Quest’ultimo è, come per Darwin, il fattore che seleziona, cioè accoglie o rifiuta, le variazioni spontanee, ma non ne è la causa.
L’analisi della coscienza contiene uno dei contributi più originali dell’opera. Contro l’atomismo degli associazionisti, James presenta la coscienza come uno stream of thought, un flusso o corrente di pensiero in perpetua trasformazione. La coscienza, cioè, non è composta di elementi separati o di unità elementari, bensì è un continuo che “scorre, fluisce”. All’interno di questo continuo si profilano parti sostantive e parti transitive, così come si delineano sempre un primo piano e una frangia.
Celebre è anche la teoria delle emozioni, nota come “teoria di James-Lange”, essendo stata avanzata contemporaneamente da James e dal fisiologo danese Carl Lange. Se l’opinione comune “ci dice che incontriamo un orso, ne abbiamo paura e fuggiamo”, James spiega che la sequenza è erronea, dal momento che “uno stato mentale non è immediatamente indotto da un altro e vi si debbono frapporre certe manifestazioni del corpo, per cui la formula più razionale afferma che noi siamo spaventati in quanto tremiamo e non viceversa”.
La volontà di credere
La tesi fondamentale di The Will to Believe, una raccolta di saggi e conferenze pubblicata nel 1897, è che l’individuo ha il diritto di credere anche in mancanza di evidenze conclusive: contano, e valgono come giustificazione, le conseguenze pratiche e gli effetti a livello personale che credere in una data ipotesi piuttosto che in un’altra produce. Se l’ipotesi in cui si crede dimostra di “lavorare bene”, cioè risulta benefica per la vita dell’individuo e rende efficace la sua azione nel mondo, credere in essa è del tutto legittimo e, anzi, razionale, anche se le prove a suo favore sono insufficienti se misurate con i normali parametri della giustificazione epistemica. Ci sono inoltre situazioni in cui la fiducia in un risultato che non è assicurato è la sola cosa in grado di produrre quel risultato: in questi casi la credenza può produrre la propria giustificazione.
La portata della tesi è limitata a quelle credenze per le quali non sono disponibili prove conclusive della loro verità o falsità e che, dal punto di vista dell’individuo, sono vive, inaggirabili (cioè tali per cui si è costretti a prendere posizione nei loro confronti) e significative (cioè capaci di fare una differenza nella vita della persona). L’ambito che più interessa James è infatti quello delle convinzioni morali e delle credenze religiose, dove la sua posizione assume particolare significato in rapporto polemico da una parte con l’orientamento materialistico del positivismo e, dall’altra, con il razionalismo dogmatico della teologia tradizionale. La giustificazione della fede religiosa, in particolare, è l’obiettivo esplicito: non tanto della fede dogmatica richiesta dalle chiese ufficiali, quanto del “diritto dell’individuo di dare ascolto a una fede personale a proprio rischio e pericolo”.
La teoria pragmatista della verità
Le posizioni difese ne La volontà di credere aprono la strada all’interpretazione pragmatista del concetto di verità che James sviluppa nei primi anni del Novecento presentandola come “naturale” estensione della teoria del significato di Peirce. In realtà, del “principio di Peirce”, cioè dell’idea che il significato di un pensiero è la condotta che è atto a produrre, James offre la sua versione, nella quale per “condotta” sono da intendersi anche le conseguenze particolari che riguardano la futura esperienza pratica dell’individuo e non soltanto le conseguenze generali e vincolanti per tutti a cui pensava Peirce. Su questa base e sul presupposto che la funzione del pensiero non sia di copiare la realtà ma di metterci in rapporto con essa nel modo migliore, James propone una teoria della verità che ne sottolinea la dimensione pratico-strumentale: una concezione, un’ipotesi, una teoria sono vere quando “ci aiutano a ottenere una relazione soddisfacente con le altre parti della nostra esperienza”. “Vero” diventa così sinonimo di “conveniente”, “che funziona”, “utile da credere”, ecc., cioè di nozioni che, rispetto al concetto classico di verità, introducono il riferimento a preferenze e interessi.
La teoria ha suscitato reazioni vivaci: Bertrand Russell e George Edward Moore l’hanno considerata come un tentativo fallimentare di soppiantare la teoria classica della verità come corrispondenza; altri vi hanno visto una confusione tra “verità” e “conferma”; altri ancora l’hanno intesa come un invito ad abbandonare per sempre la ricerca di una presunta proprietà metafisica che sarebbe designata con la parola ‘verità’.
Per James, tuttavia, il pragmatismo è anche un programma di rinnovamento intellettuale e morale volto a superare le tradizionali dicotomie e a combattere ogni forma di dogmatismo. In quest’ottica sono da leggere la sua opera di proselitismo e l’entusiasmo con cui cerca di associare alla causa pragmatista, John Dewey a Chicago, Ferdinand C. S. Schiller a Oxford, e il “signor Papini” in Italia.
Un mondo di esperienza pura
Una dicotomia che negli ultimi anni della sua vita James è impegnato a superare è quella che oppone la materia e lo spirito come principi ultimi di spiegazione della realtà. Fedele all’idea che tutti i fenomeni si possano spiegare perfettamente in termini di esperienza, James definisce la “stoffa” ultima dell’universo – e quindi anche delle cose e delle menti – come “esperienza pura”; ma questa stoffa ha il carattere di un flusso vitale neutro, in sé né materiale né spirituale. Un elemento dell’esperienza può essere l’una o l’altra cosa – materiale o spirituale, fisico o mentale – a seconda del contesto di relazioni in cui viene preso.
“Empirismo radicale”
A differenza dell’empirismo classico, l’“empirismo radicale” di James mostra che il campo dell’esperienza non è ristretto soltanto alle cose e alle loro proprietà ma include anche le relazioni che intercorrono tra di esse: le relazioni sono parte dell’esperienza tanto quanto le cose stesse. In questo modo James ritiene da un lato di superare la frammentazione dell’esperienza implicata dall’empirismo humiano e dall’altro di evitare la necessità di postulare una Mente Assoluta per rendere conto della relazione tra le esperienze, fatta valere dagli idealisti come Bradley e Royce.