Allen, Woody
Nome d'arte di Allen Stewart Konigsberg, regista, attore e sceneggiatore cinematografico statunitense, nato a New York il 1° dicembre 1935. Appartenente all'esigua schiera degli autori di cinema veramente completi, come Charlie Chaplin, Erich von Stroheim e Orson Welles, in lui il genio titanico dei grandi classici lascia il posto alla malinconica timidezza dello shlemiel (tradizionale figura del malaccorto perdente di tanta narrativa ebraica) e al tono sommesso di un cinema quasi artigianale, ma in realtà cesellato con raffinato professionismo, che coinvolge lo spettatore in un gioco di sorridente complicità. Immerso in un contesto tipicamente statunitense, nell'ambito del quale, alla fine degli anni Sessanta, furono spinte al centro dell'attenzione culture fino a quel momento marginali, in primo luogo quella ebraica, A. ha fatto di questa rinnovata consapevolezza delle proprie tradizioni e radici uno degli elementi fondamentali del suo mondo poetico, ripercorrendole con irresistibile ironia e innalzandole a emblematica e universale espressione delle nevrosi e delle inquietudini dell'uomo contemporaneo. Tra le altre coordinate intorno a cui ruota la sua poetica, la città di New York, set privilegiato dei suoi film, ma anche le suggestioni della cultura europea che pervadono la sua opera: dagli autori letterari (F.M. Dostoevskij, A.P. Čechov, G. Flaubert, F. Kafka) a quelli cinematografici (Ingmar Bergman, Michelangelo Antonioni, Federico Fellini). Il tutto a comporre uno stile cinematografico complesso, animato dal gusto del paradosso e arricchito dai procedimenti più creativi del comico, ma anche, in alcuni film, venato di un'amarezza soffocante e corrosiva. Acclamato e discusso dalla critica e amato dal pubblico, più in Europa che negli Stati Uniti, pur se i suoi film migliori hanno spesso avuto esiti commerciali assai modesti, ha ottenuto, oltre a varie nominations, due premi Oscar nel 1978 per la regia e la migliore sceneggiatura (scritta con Marshall Brickman) con Annie Hall (1977; Io e Annie), e uno nel 1987, per la migliore sceneggiatura con Hannah and her sisters (1986; Hannah e le sue sorelle), un Orso d'argento al Festival di Berlino nel 1975 per Love and death (Amore e guerra), mentre nel 1995 gli è stato conferito il Leone d'oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia. Proveniente da una famiglia di origini ebraiche (i suoi nonni arrivarono negli Stati Uniti dalla Russia e dall'Ungheria con le prime emigrazioni della fine dell'Ottocento), dopo scarsi successi scolastici (frequentò ma non terminò la New York City University e il City College di New York) alla fine degli anni Cinquanta e all'inizio degli anni Sessanta si dedicò a scrivere gag e sketch teatrali e televisivi, diventando uno dei tanti aspiranti comedians che cercavano di avere successo nei locali del Greenwich Village, ma senza l'onore della firma. Entrato a far parte del gruppo di ghost-writer per lo show del comico Sid Caesar, insieme a Mel Brooks e ad altri già maturi e affermati autori, debuttò nel cinema come sceneggiatore e attore nel 1965 con What's new, Pussycat? (Ciao Pussycat) di Clive Donner. E fu proprio a partire dalla metà degli anni Sessanta che A. cominciò a raccogliere in volume le sue gag verbali, destinate ai programmi televisivi e radiofonici (Getting even, 1966; Without feathers, 1972; Side effects, 1975). Il gioco linguistico vi risulta sapientemente orchestrato: la parola viene rovesciata e distorta, gli stessi segni grafici sottoposti a variazioni sarcastiche con effetti di comicità pura irresistibili, indubbiamente più ampi e diretti di quelli ottenuti con i suoi film. Si tratta di una comicità assai diversa da quella universale dei grandi del passato, come Chaplin o Buster Keaton, rivolta a un pubblico provvisto di una cultura medio-alta e tanto più coinvolto quanto più raffinato e pronto ad amare la serie di parodie che chiamano in causa, tra gli altri, G. Flaubert e S. Bellow.Nel frattempo A. si era affermato come autore a Broadway, in particolare con una commedia poi adattata per lo schermo e da lui stesso interpretata nel 1972, Play it again, Sam (Provaci ancora, Sam) di Herbert Ross, accanto, per la prima volta, a Diane Keaton, presente in quasi tutti i suoi film degli anni Settanta. Il suo esordio come regista era invece avvenuto nel 1969 con Take the money and run (Prendi i soldi e scappa), parodia del poliziesco anni Cinquanta con voce fuori campo, che inaugura il caleidoscopio delle citazioni intese, in queste prime opere, come spostamento da un registro alto a uno di riscrittura parodica (basti pensare agli evasi che fuggono legati ai piedi da una catena come nel film di Stanley Kramer The defiant ones, 1958). E in un'irresistibile progressione, che porterà A. a sperimentare tutte le soluzioni della commedia farsesca per arrivare alle raffinate scelte di quella sofisticata, in quegli anni il regista realizzò e interpretò il folgorante Bananas (1971; Il dittatore dello stato libero di Bananas), unico film in cui le gag verbali hanno la stessa immediatezza comica dei suoi libri, Everything you always wanted to know about sex, but were afraid to ask (1972; Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere), Sleeper (1973; Il dormiglione), Love and death, tutte opere in cui il gioco delle citazioni continua travolgente, in chiave di riscrittura comica, coinvolgendo gli autori e gli attori prediletti da A.: dall'Ingmar Bergman di Det sjunde inseglet (1956) per Love and death, all'Humphrey Bogart di Play it again, Sam, guida, mito e a un tempo alter ego rovesciato. Fu però con Annie Hall, nei confronti del quale in un primo momento la critica si era espressa negativamente, che giunse la consacrazione definitiva e l'apprezzamento incondizionato del pubblico. In questa commedia intellettuale, fondamentale nel corpus della sua produzione, si delinea con compiutezza il discorso tante volte in seguito affrontato delle difficoltà, delle frustrazioni, delle idiosincrasie, delle nevrosi ironicamente delineate del rapporto amoroso, con una figura femminile centrale, osservata e filtrata, qui come anche in seguito, attraverso un'ottica rigorosamente maschile, partner perduta e per questo, in un trionfo di eros maschilistico, inseguita nella soffusa malinconia del distacco. E se in questo caso l'autoreferenzialità è palese (A. interpreta un attore ebreo) ancora più lo diventa in Manhattan (1979), atto d'amore nei confronti della sua città, ripercorsa dai travolgenti carrelli nella corsa finale di Isaac-Woody, scrittore televisivo in crisi, per raggiungere la ragazza amata. In un susseguirsi di intrecci d'amore e del caso sulle note della musica di George Gershwin (altro mito alleniano) che avvolge tutto il film scandendone il ritmo visivo, A. passa in rassegna i punti di riferimento fondamentali del suo mondo, gli antidoti alla crisi che rendono la vita degna di essere vissuta: i fratelli Marx, la cui comicità è terapia consolatoria per eccellenza (in Hannah and her sisters promossi addirittura a rimedio contro le tentazioni di suicidio), accanto a Potatohead blues nell'esecuzione di L. Armstrong, al secondo movimento della sinfonia Jupiter, Marlon Brando, Frank Sinatra, il volto della ragazza amata, l'Éducation sentimentale di Flaubert, le mele di P. Cézanne. Ma prima di Manhattan A. aveva iniziato con Interiors (1978), da lui solo diretto, un diverso lavoro di impossessamento dei grandi autori (in questo caso Bergman e Čechov, in un confronto che si protrarrà sino a September, 1987, Settembre) non più in chiave di trasposizione parodica, ma di consacrazione e omaggio e al contempo di confronto che gli consente di gareggiare con quei modelli (Fellini per la riflessione dolente di Stardust memories, 1980) e di farli suoi, iniziando la fase dell'introspezione e della riflessione sulla propria arte. Anche sul piano produttivo, del resto, la sua attività appare lontana, non solo geograficamente, dai prodotti hollywoodiani (non a caso tutti i suoi primi film vengono realizzati nel periodo più luminoso della produzione cinematografica newyorchese) e tesa invece a instaurare un modello definito specializzazione flessibile (Grespi 2000, p. 7) che a una produzione indirizzata a un pubblico di massa indifferenziato sostituisce la realizzazione di opere rivolte a un pubblico specifico e connotato culturalmente e socialmente. Ciò, di conseguenza, ha portato A., specie nei primi anni Ottanta, a girare 'piccoli' film, apparentemente minimali, ma in realtà perfetti dal punto di vista espressivo e ricchi di suggestioni anche sul piano culturale. Basti pensare a A midsummer night's sex comedy (1982; Una commedia sexy in una notte di mezza estate), con il quale ha preso l'avvio il suo sodalizio artistico-sentimentale con Mia Farrow (che per lo più nei film di A. interpreta la figura della donna desiderata e poi perduta) o a Zelig (1983). Capolavoro assoluto quest'ultimo, in cui la struttura combinatoria delle vecchie gag verbali viene spostata sul piano visivo e cinematografico, intessendo un gioco di citazioni che costituiscono la sostanza stessa del film, costruito su registri diversi intrecciati tra loro (il cinegiornale anni Trenta, ma anche l'inchiesta televisiva, la struttura da cinema verità, il film dai risvolti sociali tipo Warner Bros.), nonché quella del personaggio, che risulta una combinazione di personaggi possibili, estrema sintesi di quelle aspirazioni camaleontiche che il regista-autore ha tante volte rivelato. Il film, ambientato alla fine degli anni Venti e incentrato sul caso clinico di un uomo capace di assimilare l'identità dei suoi interlocutori al punto di assumerla interamente, al di là del suo aspetto ludico è un appassionato e appassionante discorso sugli Stati Uniti, il loro bisogno di miti e le tentazioni dell'assimilazione e del conformismo. Quest'opera appartiene alla stagione dorata del mondo alleniano che prosegue l'anno successivo con Broadway Danny Rose (1984), come il precedente segnato da uno scarso successo in patria, in cui A., in veste di impresario, accumula disgrazie su disgrazie per aiutare i suoi squallidi e immeritevoli 'artisti' di infimo ordine, pronti a licenziarlo non appena si configura una possibilità di successo, mentre sullo sfondo di un mondo colorito e patetico il protagonista teorizza l'importanza salvifica del senso di colpa e viene assalito dalla disperazione se allontanato dalla sua adorata Manhattan. E la solitudine e la marginalità, decisamente accentuate nelle sue opere più mature, risultano dominanti anche quando il regista non appare sullo schermo, come nel caso di The purple rose of Cairo (1985; La rosa purpurea del Cairo) in cui il personaggio-spettatore viene incluso nella funzione schermica e cerca di 'entrare' dentro un film e dentro il cinema, unica religione che non tradisce in un discorso quasi mistico sulla cinefilia come riscatto e sublimazione. O traspaiono in un'opera dai toni dolorosamente, ma affettuosamente autunnali come Hanna and her sisters, che rie- cheggia certi moduli di Interiors, o nell'affollata realtà autobiografica di Radio days (1987) sino a Another woman (1988; Un'altra donna) in cui A., solo regista, disegna il suo ritratto più autonomo e complesso di donna che rie- voca, con scoperta e voluta ricerca di scambi e contaminazioni, pur su un registro totalmente diverso, uno dei più misteriosi e complessi film bergmaniani, Persona (1966). Ed è quindi nel successivo Crimes and misdemeanors (1989; Crimini e misfatti), accorato ma asciutto, dai toni sobri, quasi narrato sottovoce, che A., con disperata amarezza, racconta come si vive e si muore in un mondo dove i fratelli non sono più tali, se non di nome, e gli stessi occhi di Dio sono spenti (non a caso il ricco medico ebreo colpevole di vari crimini, che rimarranno impuniti e non ne impediranno la glorificazione finale, è un esperto di oftalmologia) o rivolti altrove. E proprio agli inizi degli anni Novanta A. realizza uno dei suoi film più perfetti e più incompresi, Shadows and fog (1992; Ombre e nebbia), rivisitazione allarmata di orrori e paure ancestrali in cui si intrecciano angosce kafkiane e ombre espressioniste, con un uso minaccioso delle musiche di Kurt Weill, palesemente lontano da quello satirico che ne aveva fatto B. Brecht. E se un film dall'autobiografismo esasperato come Husbands and wives (1992; Mariti e mogli), caratterizzato dalle nevrotiche acrobazie della camera a mano, ha segnato la fine del rapporto con Mia Farrow, non è un caso se il successivo Manhattan murder mistery (1993; Misterioso omicidio a Manhattan) ha rappresentato un ritorno ai ritmi travolgenti della commedia, in questo caso giallo-rosa, e ha ritrovato una protagonista come Diane Keaton. A prove più stanche e ripetitive (Celebrity, 1998, sugli effetti per lo più spiacevoli del successo; The curse of the jade Scorpion, 2001, La maledizione dello scorpione di giada, parodia dei noir anni Quaranta) si sono poi alternati risultati riusciti e raffinati come Bullets over Broadway (1994; Pallottole su Broadway), ambientato in una New York ormai lontana (quella della commedia e dei backstage musicals degli anni Trenta) e appartenente al genere della rehearsal comedy, ossia la commedia-contenitore basata su un altro testo da mettere in scena; o il piacevole Mighty Aphrodite (1995; La dea dell'amore) in cui il gioco delle citazioni colte viene amplificato sino a coinvolgere l'uso del coro, ispirato alla tragedia greca, per scandire le fasi di una vicenda tutta contemporanea e newyorchese; o Everyone says I love you (1996; Tutti dicono I love you) nel quale l'universo della commedia romantico-familiare s'incontra con i ricordi, volutamente irreali, del musical, con un uso straniante e al contempo affettuoso dei numeri musicali. E ancora, un film toccante, rivisitazione del suo periodo migliore, come Sweet and lowdown (1999; Accordi e disaccordi) o Small time crooks (2000; Criminali da strapazzo), ritorno ai puri meccanismi comici dei suoi inizi. Mentre, nel rimettersi in scena autoriflessivamente in quanto artista, A., in un film del 1997 (Deconstructing Harry, Harry a pezzi), è riuscito a rappresentare con efficacia e corrosivo humour il suo stesso blocco creativo, finendo decisamente e bonariamente per autoassolversi.
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