WTO
Clausola della nazione più favorita e clausola di salvaguardia
Il WTO e le sfide del regime commerciale multilaterale
di
20 giugno
A Potsdam, presso Berlino, fallisce dopo due giorni di lavori il vertice tra quattro grandi potenze commerciali – Stati Uniti, Unione Europea, India, Brasile – che aveva l’obiettivo di rilanciare il Doha Round, il ciclo di negoziati per la liberalizzazione degli scambi avviato nel 2001 nella capitale del Qatar nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del commercio. I rappresentanti di India e Brasile hanno lasciato i lavori in forte polemica con UE e USA, in particolare sul tema delle sovvenzioni agrarie.
Negoziato multilaterale e accordi bilaterali
Gli anni iniziali del nuovo secolo hanno rappresentato una fase particolarmente difficile per le sorti del WTO, l’Organizzazione mondiale del commercio creata nel 1994 come successore dell’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT, General Agreement on Tariffs and Trade) con il compito di regolare e monitorare il commercio dei prodotti industriali, di quelli agricoli e dei servizi. Il negoziato multilaterale del Doha Round – lanciato con grande enfasi nel novembre 2001 – è stato sospeso nel luglio 2006 di fronte alle inconciliabili posizioni dei più influenti paesi dell’area sviluppata e non. Le difficoltà del negoziato multilaterale lasciano intravedere, nella più ottimistica delle ipotesi, un esito finale incerto e comunque di basso profilo, con il rischio così di favorire l’ulteriore crescita degli accordi bilaterali e preferenziali tra paesi, con una conseguente forte politicizzazione del commercio mondiale. Una prospettiva, quest’ultima, nient’affatto rassicurante e gravida di rischi soprattutto per i paesi in via di sviluppo e, tra questi, per quelli più poveri e con scarso potere negoziale.
Cercheremo qui di ricostruire l’evoluzione e le sfide del WTO, partendo dalle vicende del Doha Round, rintracciando le cause profonde delle difficoltà incontrate e delineando, allo stesso tempo, alcuni possibili scenari futuri del regime commerciale multilaterale e del WTO, che ne è il pilastro centrale. La tesi di fondo è che i cambiamenti di vasta portata che hanno interessato l’economia mondiale nell’ultimo quindicennio, con il rapido rovesciamento delle posizioni relative di molti paesi in termini di peso economico, hanno reso il funzionamento e i meccanismi decisionali del WTO sempre meno in grado di assicurare quel ‘bene pubblico internazionale’ che è rappresentato da un sistema di liberalizzazioni commerciali (multilateral trading regime) e che aveva finora offerto un contributo decisivo alla crescita dell’economia mondiale. È un grande problema di governance internazionale che va affrontato, cominciando a riscrivere alcune regole e norme alla base del regime di scambi commerciali, così da rivederne contenuti ed effetti, oggi decisamente troppo in favore dei paesi più ricchi e sviluppati. Le sorti della stessa fase di rapida apertura e integrazione internazionale in corso da molti decenni finiranno per dipendere dalla capacità di affrontare nell’immediato futuro questi problemi e tensioni nell’area del commercio mondiale.
Il lancio e le finalità del Doha Round
Il Doha Round – o secondo la denominazione ufficiale Doha Development Agenda (DDA) – fu lanciato nella capitale del Qatar nel novembre 2001 durante la quarta Conferenza ministeriale del WTO. Va ricordato che l’accordo per un nuovo Round fu raggiunto nonostante il dilagante scetticismo che aveva caratterizzato i mesi precedenti la Conferenza di Doha e in virtù di un nuovo atteggiamento cooperativo che si affermò, tra i maggiori paesi, subito dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre contro gli Stati Uniti. Giocò a favore la determinazione di molti governi di voler evitare a ogni costo un fallimento della Conferenza WTO, a soli due mesi dai drammatici avvenimenti del settembre 2001, al fine di scongiurare altre gravi lacerazioni a livello internazionale. Queste temute lacerazioni riguardavano soprattutto l’area dei paesi in via di sviluppo (PVS) e fu quindi pressoché unanime, tra i ministri rappresentanti i maggiori paesi, la decisione di porre i problemi dei PVS al centro del negoziato di Doha, intitolando il Round appunto come Development Round. Il contenuto della Dichiarazione e dei correlati documenti di Doha, in effetti, rivela – e in più parti – questo particolare rilievo dei temi dello sviluppo e rappresenta certamente un tratto originale di questo accordo, almeno rispetto a tutti i precedenti Round negoziali. Un’enfasi oltre che originale anche necessaria, visto che il WTO negli ultimi anni aveva sofferto in misura crescente di una sorta di ‘deficit di credibilità’ nei confronti dei PVS e dei loro problemi di sviluppo. La carenza era imputabile alla distribuzione asimmetrica, finora marcatamente in favore dei paesi più avanzati, dei benefici della liberalizzazione commerciale. Basti citare tre grandi motivazioni di questa asimmetria: il problema della mancata realizzazione (implementation) da parte dei paesi avanzati di molti importanti impegni assunti nell’Uruguay Round, a tutt’oggi mai onorati; la persistenza di elevatissimi picchi tariffari nei paesi avanzati nei settori di maggior interesse per le esportazioni dei PVS; i forti sussidi alla produzione e all’export agricolo utilizzati ancor oggi dai paesi avanzati, in molti casi a danno dei PVS più poveri. Va subito aggiunto che denunciare le sperequazioni esistenti nella distribuzione dei benefici delle liberalizzazioni commerciali non equivale affatto ad affermare che la liberalizzazione multilaterale sia avvenuta a spese dei PVS. È noto, al contrario, come svariati paesi in via di sviluppo, soprattutto in Asia, sono riusciti ad approfittare e utilizzare a loro favore l’ingresso nei mercati internazionali, accompagnando le politiche di apertura con efficaci politiche e cambiamenti al loro interno. L’apertura commerciale – va ripetuto con forza – ha effetti benefici sulla crescita dei paesi più poveri se accompagnata e sostenuta da politiche e riforme domestiche adeguate. Rilevare il deficit di attendibilità del WTO significa in realtà porre l’enfasi sulla necessità di colmare, al più presto, questo vuoto per recuperare l’apporto di molti PVS al rafforzamento del sistema multilaterale di liberalizzazioni e regole commerciali. Di qui, la rilevanza del Doha Round, che nasce proprio all’insegna di questa grande finalità da realizzare.
Come emerge chiaramente dai contenuti della Doha Development Agenda, con molti rilevanti temi da affrontare, a Doha i PVS avevano, in effetti, ottenuto – almeno sulla carta – importanti concessioni, soprattutto da Stati Uniti ed Europa, in cambio del loro assenso al lancio del nuovo Round multilaterale. La negoziazione si sarebbe dovuta completare in poco meno di tre anni, entro il dicembre 2004. Un compito ritenuto difficile fin dall’inizio, ma che si è poi rivelato pressoché impossibile, vista la dinamica davvero contrastata dei negoziati fin dalla prima ora. Molte delle promesse fatte a Doha vennero ben presto rimesse nel cassetto da Stati Uniti ed Europa. Il clima di cooperazione che aveva caratterizzato la Conferenza di lancio del Round e che aveva permesso di raggiungere un accordo definito storico si deteriorò rapidamente e lasciò il campo a rapporti tra i grandi paesi, da un lato, e tra questi e i paesi del Sud, dall’altro, pieni di tensioni e asprezze, già viste in passato. Nei primi due anni, fino all’agosto 2003, non fu mantenuto pressoché nulla di quello che era stato promesso, né furono rispettate le scadenze prefissate. Solo a pochi mesi dalla Conferenza di Cancún (settembre 2003) si tentò un ‘rinsavimento’ dell’ultima ora, con gli accordi tra Europa e Stati Uniti sull’agricoltura e sui farmaci salvavita, siglati a pochi giorni dall’inizio della Conferenza. Questi accordi erano certo la dimostrazione che nessun paese – e tanto meno Europa e Stati Uniti – voleva veramente il fallimento dell’importante summit che si sarebbe svolto di lì a poco, ma era evidentemente troppo tardi per cercare di evitare quell’esito negativo, che si verificò con gran rumore e contribuì a rendere oltremodo difficile il proseguimento del negoziato commerciale multilaterale.
Il fallimento della Conferenza di Cancún
Il vertice di Cancún era stato concepito semplicemente come una verifica di medio termine dei negoziati avviati a Doha. Pertanto nessuno si aspettava un fallimento. Nello scenario più pessimistico l’ipotesi era di siglare un accordo di basso profilo. Al contrario l’incontro finì anzitempo di fronte all’impossibilità di raggiungere un qualsiasi accordo. Fu un risultato tanto più preoccupante proprio perché nessuno lo aveva messo in conto, anche se, poi, tutti contribuirono in varia misura a determinarlo. In prima fila vi fu l’Unione Europea, che aveva messo in atto a Cancún una strategia negoziale né particolarmente astuta, né, tanto meno, efficace. In effetti, l’Europa seppe valorizzare assai poco quello (non molto) che aveva da concedere (la riforma della PAC, la politica agricola comune) e, per converso, chiese in contropartita la discussione dei temi introdotti nella Conferenza ministeriale di Singapore del 1996 (le liberalizzazioni in tema di concorrenza e investimenti, soprattutto), che suscitarono la feroce opposizione – peraltro ampiamente annunciata – di un vasto ed eterogeneo gruppo di paesi in via di sviluppo. Gli Stati Uniti si limitarono a fare da spettatori nelle trattative, a differenza di quanto era avvenuto due anni prima, al lancio del Doha Round. In verità anch’essi avevano assai poco da concedere, in quanto vincolati dall’importante scadenza elettorale delle elezioni presidenziali l’anno seguente. Alla rigidità negoziale degli europei si aggiunse così il low profile americano.
La vera novità del negoziato di Cancún fu invece il ruolo particolarmente attivo avuto dal gruppo G20, ovvero da un insieme di paesi in via di sviluppo guidati dall’India, dal Brasile e dal Messico. Il G20 seppe manifestare una fiera opposizione alle proposte sull’agricoltura e sull’inserimento dei Singapore issues, contribuendo così in misura decisiva al fallimento della Conferenza. Fu, in effetti, il potere di veto espresso dal G20 a impedire il raggiungimento di un accordo. Così, al di là delle dinamiche specifiche che hanno caratterizzato le strategie dei vari gruppi di paesi, il fallimento di Cancún ha soprattutto sancito la fine di quel modello negoziale imperniato pressoché esclusivamente sugli Stati Uniti e l’Europa, che aveva assicurato il successo di quasi tutti i precedenti Round commerciali.
La sospensione del Doha Round
Dopo Cancún il negoziato entrò in una fase di stallo, che durò parecchi mesi, finché USA e UE si convinsero a cercare di rilanciarlo prima delle elezioni americane e del rinnovo della Commissione Europea, eventi che avrebbero prodotto nuovi ritardi.
Dopo una serie di incontri a vari livelli, nei primi giorni di agosto 2004 si raggiunse un accordo-quadro (il cosiddetto July framework) per riprendere il negoziato agricolo nelle tre grandi aree del confronto: il sostegno interno, i sussidi all’export, l’accesso ai mercati. L’importanza dell’accordo non stava tanto nei suoi contenuti, di ambizioni in fondo modeste, quanto nel fatto di essere stato raggiunto.
All’inizio del 2005 i paesi membri del WTO si diedero una nuova scadenza (fine luglio) per presentare una prima bozza di accordo da definire nella Conferenza biennale del WTO che si sarebbe svolta in dicembre a Hong Kong, a distanza di due anni dall’incontro di Cancún. Ancora una volta, però, la scadenza di luglio non fu rispettata, compromettendo seriamente le possibilità di arrivare a un accordo di lì a qualche mese. I contrasti si manifestarono su tutti e tre i temi più importanti del negoziato: l’agricoltura (soprattutto in tema di riduzioni tariffarie), i prodotti industriali (anche in questo caso per il problema dell’abbassamento delle tariffe) e i servizi (con più temi in questione). Il confronto sull’agricoltura, a causa della (solita) posizione intransigente o in ogni modo eccessivamente rigida dell’Unione Europea, e della Francia in particolare, finì nuovamente per condizionare negativamente l’esito complessivo del negoziato. Va aggiunto, tuttavia, che nemmeno in tema di prodotti industriali e servizi si era raggiunto un qualche accordo preliminare, con responsabilità in questo caso da addossare soprattutto ai paesi in via di sviluppo più influenti.
Di fronte a questo stallo la Conferenza di Hong Kong del dicembre 2005 finì in maniera deludente, con un compromesso di basso profilo che rinviò, di fatto, all’anno successivo tutte le decisioni più importanti per poter chiudere il negoziato commerciale del Doha Round. Il rinvio fu un modo di evitare un nuovo plateale fallimento, come a Cancún, che avrebbe aperto una crisi grave all’interno dello stesso WTO. A Hong Kong, in ogni modo, qualche passo avanti fu fatto. In primo luogo si stabilì una data certa (il 2013) entro cui smantellare i famigerati sussidi alle esportazioni agricole dei paesi avanzati; si decisero, poi, parziali misure di apertura dei mercati dell’area più avanzata a favore del commercio dei paesi più poveri e meno sviluppati. Decisivo in questo caso fu il sostegno venuto da un gruppo di paesi emergenti guidato da India e Brasile, a conferma dei mutati rapporti di forza all’interno del WTO. Tuttavia si trattò di risultati, nel loro complesso, modesti. Le divisioni e i contrasti sui tre più importanti dossier negoziali (smantellamento del protezionismo agricolo, apertura dei mercati dei servizi e riduzione delle tariffe dei prodotti industriali) non furono sanati e fu rinviata ogni decisione – per arrivare a siglare l’accordo finale – ai primi mesi del 2006. Era evidente però che il mancato raggiungimento a Hong Kong di un accordo preliminare sulle questioni più spinose avrebbe reso molto difficile la preventivata chiusura del Doha Round entro la fine del 2006. In effetti dopo mesi di inutili tentativi il negoziato Doha Round fu sospeso nel luglio 2006 dal direttore generale del WTO, Pascal Lamy, che prese atto delle inconciliabili posizioni negoziali dei maggiori paesi. Un esito davvero deludente, ma in qualche modo previsto, considerati i forti contrasti che avevano accompagnato lo sviluppo delle trattative negli ultimi tre anni.
La crescita del bilateralismo
La crisi del Doha Round rischia di offrire nuovi forti incentivi nel futuro più immediato alla crescita del bilateralismo commerciale e degli accordi preferenziali tra paesi (PTA, Preferential Trading Arrangements). Tanto più che in pochi anni tali accordi sono divenuti uno strumento largamente utilizzato dalla quasi totalità dei paesi membri del WTO e il loro numero è cresciuto in modo spettacolare. Fino agli anni 1980 la maggior parte dei PTA era stata realizzata dall’Unione Europea e aveva interessato paesi ex colonie dell’Europa o paesi coinvolti, più o meno direttamente, nell’allargamento del processo d’integrazione europea. Negli ultimi quindici anni il fenomeno si è rapidamente esteso anche ad altre aree e paesi. Gli Stati Uniti, soprattutto, vi hanno fatto ampio ricorso e hanno fortemente contribuito alla diffusione del bilateralismo commerciale su scala mondiale. Anche molti PVS hanno sviluppato PTA sia tra loro sia con la maggior parte dei paesi industrialmente più avanzati. Si è creata una sorta di effetto ‘domino’ per cui la creazione di blocchi commerciali preferenziali da parte dei maggiori paesi ha finito per esercitare una forte pressione all’adesione da parte di terzi, nel timore di costi di esclusione sempre più elevati. In ultimo anche i paesi dell’Asia, rimasti per decenni al margine delle iniziative preferenziali, hanno cominciato a promuovere con intensità crescente accordi commerciali bilaterali e plurilaterali. La Cina è stata una delle nazioni più attive e le iniziative cinesi con i paesi ASEAN e l’India hanno spinto prima il Giappone e poi la Corea a percorrere strategie simili e in parte concorrenti.
È altresì importante ricordare che molti dei più recenti PTA presentano profonde differenze nei loro contenuti rispetto ad altre esperienze del passato, sia per il diverso grado di sviluppo dei paesi che vi partecipano sia per i nuovi temi commerciali coperti. I contenuti non sono, in effetti, limitati alla rimozione delle tradizionali barriere commerciali, ma interessano in misura crescente i nuovi temi del commercio, quali i diritti di proprietà intellettuale, i servizi, gli investimenti, la concorrenza e gli standard sociali e ambientali. Soprattutto nel caso degli Stati Uniti, gli accordi preferenziali presentano un’estesa copertura di settori-attività e di sistemi regolamentari relativi ad aree quali le politiche di concorrenza, l’ambiente, l’e-commerce, gli standard sociali, tutti temi non inclusi e/o appena sfiorati dai negoziati multilaterali in ambito WTO. Anche grazie alle iniziative commerciali preferenziali degli Stati Uniti e dell’Europa e alla loro estensione su scala globale, i PTA sono arrivati a coprire nel loro complesso (inclusi quelli dei PVS) circa un terzo del commercio mondiale e una quota analoga degli scambi americani ed extracomunitari. Nel caso degli Stati Uniti, per esempio, il commercio totale (esportazioni e importazioni) con i partner dei PTA è stato stimato pari a 750 miliardi di dollari nel 2004. Se si tiene conto del completamento e della ratifica dei PTA ancora in corso di negoziazione, si prevede che gli accordi preferenziali arriveranno a coprire nel prossimo futuro circa il 39% del commercio totale degli Stati Uniti, cioè il 46% delle esportazioni totali. Va aggiunto, però, che larga parte di questi scambi riguarda paesi vicini degli Stati Uniti, nell’America Settentrionale e Centrale.
Per quanto concerne gli effetti dei PTA, la letteratura teorica ed empirica più recente dimostra che a determinate condizioni essi possono rappresentare un importante laboratorio di sperimentazione delle modalità di ‘integrazione profonda’ (deep integration) tra paesi, consentendo di affrontare i ‘nuovi temi del commercio’ (new trade issues), dai servizi agli investimenti, alla mobilità del personale delle imprese estere. Perché si verifichino questi effetti si richiede però che gli accordi preferenziali perseguano obiettivi compatibili con il contesto multilaterale (Doha Round), per costituire una sorta di ponte tra regimi commerciali nazionali e globali. Altrimenti le modalità d’integrazione preferenziale possono diventare antagoniste al sistema globale, con destabilizzazioni, frammentazioni e costi pesanti per tutti, e in particolare per i paesi più poveri e meno sviluppati. Proprio quest’ultimo è il rischio da fronteggiare nei prossimi anni, in particolare con riferimento alla competizione tra vecchi e nuovi giganti dell’economia mondiale: Europa e Stati Uniti da un lato, Cina, Brasile e India dall’altro.
Tale sfida competitiva presenta, per alcuni versi, degli aspetti positivi, in grado di spingere i grandi attori globali verso rinnovate politiche di sviluppo-cooperazione a beneficio di molti paesi partner dell’area in via di sviluppo. Tuttavia, al di là di una certa soglia, potrebbe degenerare in forme di esasperato ‘neomercantilismo’; in altre parole esiste l’eventualità che i grandi paesi arrivino a creare separate e opposte sfere d’influenza commerciale ed economica, con reti di accordi e preferenze sovrapposte e in aperto conflitto tra loro. Più che il ritorno a forme di chiusura e protezionismo del passato (tariffe e dazi), di fatto improponibili perché incompatibili con la nuova organizzazione dell’attività economica su scala globale, è dunque l’affermazione di un acceso ‘neomercantilismo’ nelle relazioni commerciali a rappresentare oggi il vero rischio da scongiurare nei rapporti tra le aree in generale. Un simile scenario finirebbe per divenire foriero di rischi per lo stesso sistema commerciale globale. Una minaccia più seria allorché si consideri che la febbre da ‘bilateralismo antagonista’ sta investendo anche il continente asiatico, ove si stanno moltiplicando i progetti di creazione di blocchi regionali a geometrie variabili. A esserne coinvolti sono paesi tradizionalmente baluardi del multilateralismo, quali il Giappone, o isolazionisti, come la Cina.
La necessità di nuove strategie
Alla luce di quanto messo in luce fin qui non vi è dubbio che la soluzione multilaterale – ovvero una positiva conclusione del negoziato multilaterale avviato a Doha e sospeso lo scorso anno – continui a rappresentare un passaggio chiave per il mantenimento e il rafforzamento di un sistema di regole al cui interno svolgere il commercio mondiale, soprattutto perché la soluzione multilaterale costituisce il meccanismo più efficace per evitare le diversioni del commercio e gli altri effetti negativi degli accordi preferenziali.
Ma il negoziato rischia di rimanere congelato per un lungo periodo. Il fallimento del Doha Round non è, in effetti, un mero incidente di percorso, cui porre riparo con qualche accorgimento ad hoc e qualche sforzo in più per arrivare a rimettere in moto e concludere a breve le trattative. È il risultato di una molteplicità di fattori, per certi versi assai eterogenei, ma se letto nel suo complesso e unitamente agli esiti negativi della Conferenza di Cancún e, ancora prima, di quella di Seattle del 1999, esso rivela il profondo disagio che caratterizza da tempo la vita di un’organizzazione internazionale come il WTO. Il fatto è che in questi anni sono venuti meno gli equilibri che avevano assicurato il successo dei Round commerciali svoltisi in sede GATT e WTO, nei quali il modello negoziale era imperniato sull’accordo tra Stati Uniti ed Europa, poi esteso al resto dei paesi: un duopolio di fatto che ha cominciato a non funzionare più a Seattle ed è clamorosamente fallito a Cancún, a causa dell’ascesa nel WTO di nuovi potenti paesi-attori dell’area in via di sviluppo. Essi hanno trasformato il Round in un contesto affatto diverso, di natura multilaterale e oligopolistica, caratterizzato da più soggetti dotati di potere di veto, in altre parole capaci di condizionare e influenzare l’esito finale del negoziato. Basti pensare all’accresciuto peso, in termini economici e demografici, di paesi come la Cina (entrata nel WTO nel 2001), il Brasile e l’India. Il nucleo portante dei PVS a medio reddito – in cui vive la maggior parte della popolazione del globo – ha ormai acquisito sempre più consapevolezza della propria forza e un più grande interesse al risultato finale del negoziato multilaterale.
Questi paesi hanno inoltre capito l’importanza di formare coalizioni forti per non rimanere esclusi dalle trattative e hanno imparato l’uso degli strumenti previsti dagli accordi WTO. Non solo gli attori, tuttavia, anche i contenuti dei confronti negoziali in ambito WTO sono mutati in questi anni. L’irrompere dell’economia globale ha comportato una serie di trasformazioni qualitative del sistema di scambi commerciali, producendo prime forme embrionali di ciò che è stato definito un processo di ‘integrazione profonda’ tra le diverse economie nazionali. Politiche e tipologie d’intervento pubblico tradizionalmente considerate di esclusivo dominio nazionale sono diventate, di fatto, sempre più interdipendenti, generando effetti di ricaduta, diretti e indiretti, che sono andati ben oltre i confini nazionali. Una prima conseguenza è stato lo spostamento del focus dei negoziati commerciali dall’abbattimento delle barriere strettamente commerciali alla modifica di politiche e sistemi regolamentari domestici, con un’invasione più marcata delle sovranità dei singoli paesi.
Nel nuovo contesto commerciale multicolore, caratterizzato da nuovi attori e contenuti, in analogia con quanto avviene in un mercato oligopolistico, gli equilibri e un efficace funzionamento sono garantiti solo da un accordo cooperativo di fondo tra i grandi paesi (imprese) leader del mercato, in grado di bloccare i reciproci poteri di veto. Un gioco non cooperativo, viceversa, fatto di azioni e reazioni autonome di tutti gli attori principali, non può che generare instabilità e innescare una sorta di guerra di tutti contro tutti. È proprio quanto si è verificato negli ultimi anni portando il Round commerciale in corso ad arenarsi più volte nel gioco perverso dei veti incrociati tra paesi.
Se si vorrà evitare che il WTO si trasformi in un’organizzazione sempre più paralizzata nella sua capacità di decisione e rischi una crescente marginalizzazione, come è già accaduto ad altre organizzazioni internazionali, occorrerà mettere in campo approcci e strategie nuovi, così da favorire soluzioni cooperative nel nuovo regime commerciale multilaterale. Sulle strade da perseguire, tuttavia, le ricette sono le più varie e comprese tra due estremi: da un lato, vi sono quelli che vorrebbero delimitare il ruolo del WTO perché resti un foro intergovernativo ‘a porte chiuse’ e torni a occuparsi dei temi commerciali più tradizionali, ovvero le barriere tariffarie; dall’altro quelli che chiedono l’estensione dell’agenda del WTO ai nuovi temi del commercio, compresi quelli di ‘seconda generazione’ (investimenti, concorrenza, politiche per l’ambiente e per il lavoro), e spingono per l’adozione di procedure più trasparenti e per meccanismi di coinvolgimento del settore privato e delle ONG. Le debolezze strutturali del sistema commerciale da fronteggiare si possono riunire in tre gruppi principali: vi è innanzi tutto l’insieme delle questioni aperte relative all’‘equità’ del regime commerciale internazionale, in secondo luogo vi è il grande problema del ‘deficit democratico’ e della legittimità dello stesso regime, infine vi sono le carenze legate ai suoi meccanismi di funzionamento. Per quanto riguarda il problema dell’asimmetrica distribuzione dei costi e benefici del libero scambio sia tra i paesi sia al loro interno, tra i vari gruppi sociali, nel caso di molti PVS è certamente vero che gli accordi commerciali hanno loro conferito indubbi benefici in termini di accesso ai mercati e liberalizzazioni, ma è anche vero che una crescente insoddisfazione si è diffusa circa il rispetto e la realizzazione concreta di tali accordi, vedendo i paesi avanzati disattendere sistematicamente e/o distorcere ripetutamente gli impegni presi.
Sui problemi di legittimità democratica del sistema commerciale multilaterale, si è rilevato che gli accordi del WTO interessano, in misura crescente, temi di tradizionale dominio della sovranità di singoli paesi e non solo direttamente connessi al commercio. Lo stesso meccanismo di risoluzione delle controversie ha creato nuovi punti di attrito e di sovrapposizione con le politiche domestiche dei paesi, generando in molti una sindrome da ‘intrusione’ del WTO negli ambiti protetti della sovranità nazionale. A fronte di ciò, è cresciuto, manifestandosi in forme sempre più clamorose, l’interesse della società civile. La reazione più frequente è stata una contestazione fondamentale della legittimità di misure provenienti dal WTO.
Infine per ciò che concerne i meccanismi di funzionamento, sono in molti ad aver denunciato le gravi insufficienze dell’attuale struttura organizzativa e dei meccanismi di negoziazione del WTO. Il sistema decisionale del GATT ha ben funzionato per molti anni in presenza di pochi paesi coinvolti e di temi tariffari da negoziare relativamente semplici. È evidente che la partecipazione al WTO è oggi assai diversa e gli stessi temi al centro dei negoziati presentano una complessità crescente. Pascal Lamy ha più volte parlato a proposito dei meccanismi organizzativi del WTO, di un «sistema medievale» di decisione e di una struttura di tipo «bizantino». Per migliorare entrambi è necessario, tuttavia, mantenere un delicato equilibrio tra i principi di maggior efficacia degli strumenti decisionali e una partecipazione e una trasparenza maggiori. In definitiva, per riassumere in estrema sintesi, le sfide che il regime commerciale multilaterale dovrà affrontare nei prossimi anni per continuare a garantire un contesto di apertura e integrazione internazionale consistono, da un lato, nel costruire un consenso sui contenuti dei processi di liberalizzazione commerciale, che siano in grado di soddisfare gli interessi dei PVS oltre che quelli dei paesi avanzati, con un coinvolgimento attivo dei primi; dall’altro, nell’allargare e rafforzare il sostegno delle società civili nei principali paesi al WTO e alle sue attività, creando un quadro di maggiore trasparenza dei processi negoziali e di politiche di sostegno più efficaci nelle conseguenze dei processi di liberalizzazione. È un grande problema di governance internazionale, che va affrontato, ovviamente, con la necessaria gradualità, ma consapevoli del pericoloso vuoto di potere a livello globale che si è aperto negli ultimi anni con il forte indebolimento di quella che è stata la struttura consolidata dell’economia mondiale dei passati decenni e con il rapido rovesciamento delle posizioni relative, in termini di peso economico, dei paesi.
L’Organizzazione mondiale del commercio
Dal GATT al WTO
L’Organizzazione mondiale del commercio (WTO, World Trade Organization), destinata alla gestione delle relazioni commerciali internazionali, nacque, il 15 aprile 1994, sugli stessi principi che avevano costituito le basi del GATT (General Agreement on Tariffs and Trade). Firmato il 30 ottobre 1947 a Ginevra da 23 paesi (poi saliti a 92 membri di pieno diritto, più 32 ad altro titolo, rappresentanti nel complesso i 4/5 del commercio mondiale), l’Accordo generale sulle tariffe e il commercio rappresentò una pietra miliare della collaborazione economica internazionale nel dopoguerra e una garanzia contro il protezionismo nell’interscambio mondiale. Fu tale accordo a porre le fondamenta di un sistema mondiale del commercio, al fine di contenere le tariffe, eliminare i trattamenti discriminanti nel commercio internazionale e ridurne le altre barriere, e contribuire allo sviluppo delle parti contraenti.
L’intesa costitutiva del GATT prevedeva che l’Accordo avrebbe portato all’istituzione dell’ITO (International Trade Organization), l’organizzazione che doveva costituire insieme al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale il terzo pilastro del coordinamento economico mondiale ideato a Bretton Woods nel 1944. Si era anche pensato a una sorta di statuto dell’ITO e la Carta dell’Avana, che poneva regolamentazioni in materia di commercio e occupazione, fu firmata in questa prospettiva il 24 marzo 1948 dai rappresentanti di 53 Stati intervenuti alla conferenza indetta dalle Nazioni Unite. Scopi principali dell’organizzazione sarebbero stati l’incremento degli scambi internazionali, il miglioramento del tenore di vita dei paesi partecipanti, l’aumento dell’occupazione e lo sviluppo delle aree economicamente arretrate. Nonostante gli sforzi, i compromessi e le eccezioni fatte per cercare di raggiungere lo scopo finale, non si riuscì ad arrivare a un numero sufficiente di adesioni da parte degli Stati e l’ITO non giunse mai a realizzarsi, per opposizioni di natura politica soprattutto da parte degli Stati Uniti. La Carta dell’Avana rimase così un documento di puro valore storico, anche se i suoi scopi furono in parte realizzati tramite il GATT e altri accordi internazionali di zona.
Il GATT, nato come un accordo a breve termine, sopravvisse in realtà molto a lungo, rafforzando progressivamente la propria sfera di influenza, estendendo e consolidando, nelle periodiche conferenze, le concessioni di tariffe convenute fra coppie di paesi e diventando l’unica base internazionale stabile del movimento in favore della liberalizzazione degli scambi. La sua esecuzione fu garantita da un Segretariato con sede a Ginevra. Dovettero passare 48 anni e 7 negoziati (i cosiddetti Round: Geneva Round, 1948; Annecy Round, 1949; Torquay Round, 1951; Fourth Round, 1956; Dillon Round, 1960-61; Kennedy Round, 1964-67; Tokyo Round, 1973-79) perché venisse finalmente istituita quella organizzazione che allora era stata immaginata, una struttura istituzionale destinata ad amministrare l’Accordo generale e tutti gli accordi sottoscritti sotto i suoi auspici. Si giunse a ciò durante l’ottavo ciclo di negoziati, l’Uruguay Round, avviato nel settembre 1986 a Punta del Este (Uruguay) e concluso a Marrakech il 15 aprile 1994. Il WTO entrò in vigore il 1° gennaio 1995, con sede a Ginevra. L’accordo istitutivo ne delinea le funzioni, la struttura e l’attività, precisati, negli accordi del Trattato di Marrakech, da quattro importanti allegati. Il primo comprende gli accordi multilaterali riguardanti gli scambi di merci: l’accordo GATT del 1947 con incorporati i risultati dell’Uruguay Round; un accordo quadro per il commercio di servizi, GATS (General Agreement on Trade in Services); un accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio (TRIPS, Trade-Related aspects of Intellectual Property rights). Il secondo allegato, con un’intesa sulla riforma delle procedure per la risoluzione delle controversie, costituisce uno dei punti qualificanti del Trattato, poiché modifica e rende efficace il sistema di composizione delle dispute commerciali bilaterali. Il terzo allegato regola il meccanismo di esame periodico delle politiche commerciali, con il quale i paesi membri controllano che le norme GATT vengano applicate e rispettate; il Trattato sancisce infatti l’obbligo di ciascuno Stato membro di adattare leggi, normative e procedure amministrative nazionali alle disposizioni stabilite negli accordi multilaterali. Infine, il quarto allegato contiene gli accordi plurilaterali concordati a margine dell’Uruguay Round e aperti a ulteriori adesioni, come per esempio le intese sugli aeromobili civili, gli appalti pubblici, i prodotti lattiero-caseari e le carni bovine. L’Uruguay Round è stato di importanza fondamentale non solo per aver istituito il WTO, ma anche perché si è trattato del primo negoziato organizzato a livello mondiale, con la partecipazione dei paesi industrializzati e anche di quasi tutti i paesi in via di sviluppo e buona parte delle economie dell’Est europeo in transizione verso l’economia di mercato. Questo negoziato ha inoltre permesso al GATT di estendere le sue prerogative fino a inserire all’interno delle sue regole anche quei settori che erano stati fino ad allora esclusi, come l’agricoltura, il tessile e la proprietà intellettuale.
L’organizzazione del WTO
La struttura organizzativa del WTO prevede una Conferenza dei ministri, massimo organo decisionale, composta da tutti gli Stati membri, che si riunisce almeno una volta ogni 2 anni. Alla Conferenza sono affidati lo svolgimento dei compiti istituzionali e la nomina del direttore generale del Segretariato.
Il Segretariato è il più importante ufficio permanente in seno all’Organizzazione mondiale del commercio. Gli sono affidati compiti gestionali e amministrativi analoghi a quelli svolti in precedenza dal Segretariato del GATT. Pascal Lamy, francese, ricopre la carica di direttore generale dal 1° settembre 2005. Suoi predecessori sono stati l’italiano Renato Ruggiero, che è stato direttore generale dalla fondazione del WTO nel 1995 al 1999, il neozelandese Mike Moore, in carica dal 1999 al 2001, il thailandese Supachai Panitchpakdi, che rilevò l’incarico di Moore a metà mandato. Il potere del direttore generale dipende molto dal suo profilo politico, poiché più articolata è la sua rete di rapporti, maggiore è la sua capacità di mediazione con gli Stati membri. Nell’ambito dei vari accordi che si trova a gestire, ha modo di favorirne la riuscita o meno non solo attraverso la diplomazia informale, ma anche utilizzando i media per accrescere la pressione sui negoziatori, proponendo progetti di accordo, organizzando conferenze ministeriali per influenzare le negoziazioni che, anche a seconda dei termini da lui fissati e quindi del livello di partecipazione dei vari membri, hanno maggiore o minore possibilità di successo.
Un Consiglio generale, costituito dai rappresentanti di tutti gli Stati membri, ha un ruolo di sorveglianza del funzionamento degli accordi e delle decisioni ministeriali e fa in qualche modo le veci della Conferenza nell’intervallo fra le sue riunioni biennali, riunendosi anche in caso di situazioni straordinarie in ambito di conciliazione o di politiche commerciali. Il Consiglio funge infatti anche da organismo preposto alla gestione del sistema integrato di risoluzione delle controversie e da organismo per l’esame delle politiche commerciali. A esso fanno capo tre diversi Consigli, che operano seguendo le direttive e l’indirizzo del Consiglio generale, con funzioni specifiche loro attribuite dai rispettivi accordi: un Consiglio per le merci, un Consiglio per i servizi e un Consiglio per la proprietà intellettuale. Nella struttura organizzativa del WTO rientrano infine il Comitato del commercio e dello sviluppo, il Comitato delle restrizioni per motivi legati alla bilancia dei pagamenti e il Comitato del bilancio, delle finanze e dell’amministrazione. Un Comitato permanente commercio/ambiente è stato istituito nella Conferenza di Marrakech con il compito di studiare l’impatto del commercio sull’ambiente e identificare i rapporti tra le due realtà in modo che eventuali modifiche possano essere apportate alle disposizioni GATT.
Al Trattato di Marrakech, nel 1994, aderirono 112 paesi, fra cui quelli già appartenenti al GATT e con essi l’Italia. Nel 2007, dopo l’ingresso del Vietnam e di Tonga, l’Organizzazione conta 151 membri.
I principi del WTO
Scopo istituzionale del WTO è fornire agli Stati membri un quadro istituzionale comune per la gestione delle relazioni commerciali internazionali e costituire un foro per i negoziati multilaterali relativi al commercio. I suoi compiti essenziali consistono nell’amministrare il funzionamento e l’attuazione degli accordi, gestire le procedure per la soluzione delle controversie commerciali tra gli Stati membri e il meccanismo di riesame delle politiche commerciali nazionali, cooperare con altre organizzazioni internazionali, in particolare con il Fondo monetario internazionale e la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo.
L’Organizzazione ha mantenuto inalterati i tre principi su cui già si fondava il GATT: a) la non discriminazione, che implica l’accettazione incondizionata della clausola della nazione più favorita, cioè l’estensione a tutti gli Stati membri delle condizioni più favorevoli applicate a un qualsiasi altro paese, con la sola eccezione dei casi d’integrazione economica regionale. Le parti contraenti devono inoltre garantire alle società e ai prodotti esteri lo stesso trattamento previsto per quelli nazionali; b) l’eliminazione delle barriere tariffarie, con deroghe per i paesi che si trovano in improvvise difficoltà di bilancia dei pagamenti (cosiddetta clausola di salvaguardia); c) la risoluzione pacifica, mediante consultazioni multilaterali, delle controversie commerciali tra i singoli paesi. Gli accordi vincolanti che il WTO ha promosso hanno accresciuto i vantaggi del partenariato commerciale. Ciò è accaduto in particolare grazie alla clausola della nazione più favorita che, benché non sempre sinonimo di uguaglianza di trattamento, ha comunque dato vita ad accordi bilaterali che hanno consentito vantaggi e crescita per i paesi che ne beneficiavano, a loro volta obbligati ad applicare lo stesso miglior trattamento a tutti gli altri membri del WTO.
Gli sviluppi
Se il GATT incentrava la sua attività quasi esclusivamente sulle questioni tariffarie e sull’abbattimento delle barriere al commercio, il WTO ha cercato di ampliare i suoi orizzonti e di mettere in atto iniziative anche su temi più generali, quali il rapporto tra attività commerciale e ambiente, gli standard di tutela dei diritti dei lavoratori, gli investimenti legati al commercio e alle problematiche connesse con la competitività e più in generale la concorrenza. Attraverso il GATS ha anche costruito uno spazio maggiore e più articolato nel settore dei servizi. Le sue accresciute competenze e il peso degli obblighi derivanti dagli accordi su cui vigila hanno reso il WTO l’unico gestore della globalizzazione del commercio mondiale. Proprio questo ruolo ha suscitato innumerevoli obiezioni e critiche da parte di organizzazioni non governative, movimenti per i paesi in via di sviluppo e movimenti ambientalisti. Questi gruppi ritengono che le prerogative del WTO siano troppo rigide ed esorbitanti e che le sue attività e iniziative finalizzate alla liberalizzazione degli scambi possano avere conseguenze ed effetti negativi soprattutto sull’ambiente. Inoltre l’ideologia deregolamentatrice promossa dal WTO è considerata un fattore di grave distorsione sia nei flussi commerciali internazionali sia sul terreno degli scambi con i paesi in via di sviluppo. In questo quadro la Conferenza ministeriale degli Stati membri che si riunì a Seattle nel dicembre 1999 con l’impegno di lanciare un nuovo negoziato commerciale al fine di abbattere qualunque barriera protezionistica suscitò un larghissimo movimento di protesta. Quello che fu chiamato il ‘Movimento del popolo di Seattle’ manifestò con forza contro il WTO, contestando il processo di globalizzazione del commercio, considerato espressione soltanto dei paesi più ricchi e affluenti. Il movimento chiedeva inoltre maggiore sensibilità e attenzione ai problemi sociali, ambientali e alle ricadute che lo sviluppo commerciale avrebbe avuto nei paesi meno fortunati e criticava anche il metodo di lavoro dei partecipanti alla Conferenza, che si riunivano a porte chiuse senza preoccuparsi di avere contatti e scambi con la società civile. Fu quello di Seattle l’atto di nascita del movimento no-global.