Yang Zhu («Maestro Yang» o «Scuola del maestro Yang»)
(«Maestro Yang» o «Scuola del maestro Yang») Filosofo cinese o scuola di pensiero (probabilmente 4° sec. a.C.). Nulla di certo si conosce sull’identità del maestro Y., personalità che ricorre in molte fonti dell’epoca o posteriori (Mengzi, Xunzi, Han Feizi, Lüshi Chunqiu, Huainanzi Zhuangzi, Liezi, ecc.) con una varietà considerevole di nomi: Yangzi, Yangshi, Yang Ziju e Yang Sheng. Come è incerta la reale esistenza, così è incerto e indeterminato il periodo in cui il maestro visse; molte e contrastanti sono le date proposte dagli studiosi: 479-381 a.C. (T. Kushner), 440-360 a.C. (Hu Shi, Chan Wing-tsit, H. Roetz), 414-334 a.C. (A. Chang e Chen Cisheng), e altre ancora. Sebbene l’ipotesi più verosimile risulti quella di Qian Mu, che indicò il lasso temporale 395-335 a.C., per molti studiosi sarebbe preferibile considerare Y., più che il nome di un singolo maestro o filosofo, come il termine che designa un orientamento, o cenacolo, o scuola di pensiero, e ciò per il fatto che nessuna opera fu mai associata a questo nome e che, inoltre, Y. assume un’identità specifica solo quando gli sono attribuite alcune dottrine in contesti di contrapposizione dialettica, com’è il caso più eclatante di Mencio (➔), che per l’appunto, con impareggiabile vis retorica, lo oppose a Mozi (➔). Infatti, fu proprio Mencio a sbottare: «Le dottrine di Y. e di Mo Di riempiono il mondo intero: quelle che non si rifanno all’uno, sono riconducibili all’altro» (Mengzi, 3B/9); o con maggiore puntualità: «La dottrina scelta da Y. è l’egoismo (wei wo): egli rifiuterebbe di strapparsi un solo pelo per il bene del mondo. Mozi invece ama tutti indistintamente (jian’ai), al punto che si raderebbe dalla testa ai talloni per il bene del mondo» (Mengzi, 7A/26). Meno parziale e più ricca è tuttavia l’attestazione dello Huainanzi (➔), dove a Y. è ascritta la paternità di ben tre specifiche dottrine: mantenere integra la propria natura (quan xing), preservare la propria autenticità (bao zhen) ed evitare che il corpo dipenda da cose terrene. Così l’idea di natura umana (xing) è introdotta nella filosofia cinese e per Y. non è altro che la capacità dell’uomo di prendersi cura di ciò che ha ricevuto in dono dal Cielo, vale a dire la vita (sheng), rifuggendo soprattutto da ogni condotta smodata. Il saggio pertanto nulla esclude, nulla evita, ma con accortezza accoglie solo ciò che gli giunge dalla vita e che reca sicuro giovamento alla propria natura: ha il potere, in altri termini, di governare la molteplicità delle cose, le cosiddette «diecimila creature» (wanwu). Un tal uomo agisce sempre e solo per preservare la propria autenticità, la propria spontaneità contraria dunque a qualsiasi cerimoniale, che è un effetto artificiale e quindi artificioso ed esclusivo di usanze e non della pura e immediata volontà del Cielo. Una tentazione permanente è comunque sempre pronta a insidiare la vita anche dell’uomo saggio: la fascinazione del possesso, espressa in sommo grado nell’esercizio del potere e quindi nella brama di possedere uno Stato o addirittura un impero. Vari sono gli aneddoti che narrano di rifiuti esemplari (per es., di un vasto territorio, del trono, ecc.) sempre al fine di salvaguardare la propria o altrui vita o per dedizione all’integrità della propria natura. E paradossalmente solo chi ha tale forza è degno in verità di prendersi cura del mondo e di governarlo rettamente. Tópos, quest’ultimo, che ricorre spesso nella letteratura taoista, e con particolare enfasi nello stesso Laozi o Daode jing (➔): «si affidi il mondo solo a chi avrà maggior premura per sé, e lo si consegni a chi, tra sé e il mondo, pari amor dispensa» (13).