Yogacara
Corrente filosofica del buddismo Mahāyāna, anche detta Vijñānavāda («dottrina della [sola] coscienza»). Il termine significa «pratica dello yoga».
Il primo testo dello Y. è probabilmente il Sandhinirmocanasūtra, ossia il «Sūtra che svela l’intenzione [del Buddha]». Lo Y. concepisce infatti sé stesso come il compimento dell’insegnamento del Buddha; nei precedenti due livelli, ossia le quattro nobili verità e la vacuità (śūnyatā), il senso ultimo del suo insegnamento sarebbe rimasto ancora implicito. Seguono poi alcuni trattati filosofici ascritti a Maitreya (probabilmente un personaggio storico, anche se identificato con il Bodhisattva del futuro Maitreya), in partic. la Yogācārabhūmi, un’opera frutto di varie redazioni successive in cui sono descritti gli stadi del cammino del Bodhisattva, inserendovi anche il Pratyekabuddha, considerato dal Mahāyāna lo stadio più alto cui possono giungere i seguaci delle scuole del buddismo antico (➔ Abhidharma; Theravāda), e prevedendo un ruolo anche per i laici. Il sistema Y. fu sistematizzato da Asaṅga (395-470 ca.) e da suo fratello Vasubandhu (➔) (400-480 ca.), autore di Viṃśatikā e Triṃśikā.
Già il nome Y. fa riferimento alla centralità delle pratiche di meditazione (yoga) nello sviluppo dello Y. e si vedrà come varie dottrine della scuola possano essere scaturite direttamente (come sottolineato soprattutto da L. Schmithausen) da esercizi meditativi. Le pratiche di yoga sono inoltre essenziali nello Y. poiché fin dalla Yogācārabhūmi si spiega come per giungere a una mente pura non basti una comprensione intellettuale, ma sia necessaria una realizzazione meditativa, il cui risultato ultimo è detto samādhi (➔ Yoga). D’altra parte, all’interno dello Y. coesistono, da una parte, influssi della letteratura della Prajñāpāramitā (➔ Madhyamaka) – che si concentra sulla vacuità del mondo fenomenico e soprattutto delle nozioni di «io» e «mio» – e, dall’altra, l’idea già presente nel canone pāli che la mente sia in costante flusso, ma sostanzialmente pura.
Lo Y. viene spesso definito una forma di idealismo, poiché sostiene la teoria della «mera rappresentazione», secondo la quale non esistono né sé personali (ātman) né fenomeni esterni (dharma) e a esistere realmente non è che la loro rappresentazione nella coscienza. A esistere realmente è dunque solo una coscienza-deposito (ālayavijñāna), in cui vengono a depositarsi le tracce di tutte le idee e azioni passate, le quali costituiscono, a loro volta, i semi di tutte le azioni e idee future in un ciclo senza inizio (➔ saṃsāra). Al termine di ogni tipo d’azione (inclusi anche pensieri e forme sottili di azione), le forze residue dell’azione si depositano nella coscienza-deposito da cui torneranno ad attualizzarsi in un qualche momento futuro. Gli uni o gli altri semi, giunti a maturazione, fanno apparire questo o quel simulacro di oggetto. Quindi, un’immagine (la parvenza di un oggetto esterno) appare quando i semi residui delle esperienze passate vengono riattualizzati, e non a causa di un oggetto esterno. Essa è dunque un effetto del karma. L’identificazione di un tratto di tale flusso coscienziale come ‘mucca’ o ‘vaso’ è una sovraimposizione cui non corrisponde alcuna realtà al di là del flusso ininterrotto della coscienza-deposito stessa. Vasubandhu precisa questa intuizione aggiungendo che tali rappresentazioni derivano da modificazioni (pariṇāma) della coscienza. Il termine «modificazione» è quello usato anche nel Sāṅkhya per spiegare come un’unica prakr̥ti possa essere la causa materiale immanente in tutti i suoi evoluti. Tuttavia, al contrario della prakr̥ti come intesa nel Sāṅkhya, la coscienza di cui parla Vasubandhu non ha una natura propria unitaria ed esiste solo come flusso di attimi di coscienza, in cui ogni evento ha durata istantanea ed è causa del successivo.
Nella Viṃśatikā, Vasubandhu afferma perciò che ciò che ci appare è come i capelli erroneamente percepiti da chi abbia problemi agli occhi (e che in realtà sono distorsioni della sua retina). Nello stesso testo, un obiettore domanda: (1) perché allora percepiamo non solo oggetti, ma oggetti estesi nello spazio e nel tempo (che sembrerebbero costituire una cornice oggettiva, garanzia della realtà di quanto in essi appaia)?; (2) perché percepiamo tutti la stessa cosa (perché, per es., tutti quelli che vi si trovino accanto percepiscono il calore di un fuoco)?; (3) perché tali rappresentazioni hanno anche efficienza causale (➔ Pramāṇavāda), ossia producono effetti? Vasubandhu risponde a (1) citando l’esempio dei sogni, in cui pure si ha l’impressione che quanto si vede si estenda nello spazio e nel tempo. L’obiettore chiede allora perché gli oggetti esterni non scompaiano, come accade al termine di un sogno e Vasubandhu spiega che siamo tuttora all’interno del sogno. Questa risposta mostra implicitamente che lo scopo dello Y. è quello di «svegliarsi» dalle cognizioni empiriche. A (2) Vasubandhu risponde citando l’esempio dei dannati, che pure hanno tutti le stesse percezioni illusorie, per es., credono tutti di vedere fiumi di pus o di subire punizioni terribili, poiché hanno il medesimo karma (le scuole buddiste dell’epoca concordavano infatti nel ritenere inferno, demoni e punizioni non luoghi fisici, bensì immagini mentali create dalla forza di atti commessi nel passato). A (3) Vasubandhu replica che anche i sogni possono avere efficienza causale, come accade nel caso delle polluzioni notturne.
Tre diversi tipi di modificazione della coscienza spiegano, secondo lo Y., tutto il mondo fenomenico: maturazione, cogitazione e rappresentazione. La prima spiega il sorgere di nuove esperienze a partire dal karma accumulato, la seconda spiega l’identificazione di un tratto di tale flusso coscienziale con un io personale, la terza è alla base dei sei tipi di cognizione (visiva, uditiva, olfattiva, gustativa, tattile e mentale, ➔ puruṣa) di contenuti oggettuali. Fine dello Y. è il superamento di tutte e tre attraverso un «ribaltamento del sostrato» (ossia della coscienza), in base a cui passare dalla realtà illusoria del saṃsāra a quella di una mente immacolata, equivalente al nirvāṇa.