DOLFIN, Zaccaria
Nato, nel 1450, nel "confin" di S. Lio a Venezia, da Andrea di Giovanni e da Suordamore di Stefano Querini delle Papozze, si sposò, nel 1479, con Maria di Leonardo Sanuto, la quale gli portò in dote 2.800 ducati; era sorella di Marino, nei cui Diarii, fonte principale per ripercorrere la vicenda politica del D., egli è, appunto, talvolta qualificato come "mio cugnado" o, più spesso, come "nostro cugnado".
Dei provveditori alle Biave nel 1496, si deve al D. (del , la cui vita antecedente risulta solo che Fantin Zorzi di Giovanni lo designa commissario testamentario nel suo testamento del 20 giugno 1484) e ai due suoi colleghi se la scarsità di "formenti" anche "menudi" non diventa preoccupante: è grazie, infatti, alle loro "valide provixion" che si verifica un tempestivo arrivo di "farine". Nel 1498 il D. è membro della commissione di nove patrizi preposta alla definizione delle differenze tra Brescia e i Comuni del circondario a proposito del "caxon" del monte "Pascoso". Nel 1499 è uno dei due "deputati" alla "causa" tra il "protolero" della Morea e Luca Marini; e si riduce la somma da quello pretesa da questo a 100 ducati. Sempre nel 1499 il D. risulta, successivamente, investito da incombenze di maggior conto: deve reperire i mezzi finanziari per fronteggiare il Turco; deve sopperire ai vuoti negli equipaggi nell'armata quando, appunto, i "capitani" delle "galee grosse di levante" lamentano "di non haver homeni" disposti all'imbarco; deve entrare nel merito delle vive proteste d'"alcuni spagnoli" per il sequestro d'un loro carico da parte del capitano delle galee Bernardo Cicogna. E, il 19 luglio, il D., d'accordo col collega Girolamo Querini, dà "raxon" a quelli; "il "capitano nostro non le dovea tuor" suona seccamente il giudizio. Provveditore sopra "le cosse da mar", alla fine d'agosto, assieme al collega Angelo Trevisan, ordina "di scargar" un grosso quantitativo di biscotti destinato all'armata: sono troppo "cativi", di qualità troppo scadente.
Eletto, il 6 settembre, rettore a Crema, il D. rifiuta perché ritiene più utile - e concorda con lui lo stesso doge Agostino Barbarigo lodandolo "sommamente" - il suo impegno di "provedador executor sopra le cosse da mar". Autorizzato a proseguirlo, il D. - che, peraltro, figura anche tra i capi del Consiglio dei dieci (un organo allora dai poteri amplissimi di cui il D. farà parte più volte e come capo e, anche, come cassiere per quasi tutto l'arco attivo della sua vita politica) - è tra i partecipanti alle sedute senatorie (e, in quella del 19 giugno 1500, s'alza di scatto ingiungendo a Luca Tron, troppo malignante nel riferire sul suo sindacato in Levante, d'"obedir" una volta per tutte al reiterato ammonimento di non dir "inal di le persone") -, s'adopra con lena, sempre affiancato dal Trevisan, per "catar" mille marinai per la flotta. Inoltre, assieme allo stesso, si prende "cura" dell'Arsenale al momento carente e di "fero" e di "legnanii".
È insito, però, nella carica di "provedador sovra l'Arsenal" un conflitto di competenza coi "patroni" dello stesso opponenti una certa resistenza all'intervento straordinario del D. e del Trevisan. Indispensabile, ad ogni modo, alla fornitura tempestiva dell'immane cantiere di Stato un'immediata e abbondante disponibifità di denaro. Ma poiché, invece, il savio di Terraferma cassiere Francesco Foscari tende a lesinarlo, il D. non esita ad attaccarlo, il 24 febbr. 1501, con un'energica "renga" nella quale l'accusa "che non li vol dar danari per l'Arsenal".
Dei quarantuno che, il 2 ott. 1501, eleggono doge Leonardo Loredan, il D. è, quindi, uno dei tre governatori delle Entrate; in tale veste, il 18 ott. 1503, essendo in ballottaggio i cento "sanseri", il D. sostiene con successo - la sua tesi è condivisa dal doge e dalla Signoria - l'esclusione dal "balotar" dei savi agli Ordini, mentre questi - così, dispiaciuto, il Sanuto - allegando "molte raxon" caldeggiavano il contrario. "Nui disevemo potevamo star", annota Sanuto. Ed è sempre il Sanuto che fissa l'immagine del D. riscuotente, il 6 nov., il quarto della "tansa" davanti a "la Marangona", quando "tutti a furia" s'accalcano per il versamento "per esser li primi a la restitution". E la "prima partita" è del doge Loredan.
Rapidamente riscuotono 17.000 ducati perché "tutti paga volentieri perché se acquista stado", nella contagiosa fiducia una politica espansiva meriti d'essere finanziata perché in breve ampiamente remunerante. E il D. canipeggia come energico animatore di questa corsa al versamento, come galvanizzatore di questa gara contributiva. Ma quando, coi collega Marco da Molin, l'11 dicembre, propone che i "poveri zentilhuomini" debitori possano - pagando la metà e dilazionando l'estinzione residua - "andar a capello", il doge s'oppone trattandosi d'agevolazione in contrasto colla legislazione vigente. Favorevole, dunque, il D. ad una facilitazione pei patrizi indebitati e ostile, invece, ai "Chiozoti", quelli di Chioggia cioè, beneficiari della "gratia o ... dil oio e grassa", contro i quali, il 4 marzo 1504, s'esprime duramente.
Di nuovo provveditor all'Arsenale, col compito d'esaminarne le spese e di "vegnir al pregadi a schansarle" (ma Sanuto non si trattiene dal bollare come "injusta parte" una delibera da lui fatta approvare contro il "gita bombarde" Sperandio per incapacità e perché debitore di "8 miara di rame"), il 19 dicembre il D. accompagna nella visita alle raccolte d'armi di palazzo ducale Pietro Beriszlo, "orator d'Hongaria".
Nel 1505 il D. è tra i giudici del segretario Francesco Tagliapietra che, reo di rivelazione di segreti di Stato e, per soprappiù, accusato di sodomia da un suo "garzon", viene impiccato il 7 marzo. E il D. è pure tra i giudicanti il caso d'altri quattro segretari (e tra questi c'è Gianpietro Stella già accompagnatore di Girolamo Donà nella sua missione romana), tutti arrestati per "letere fate". Designato, il 28 ottobre, consigliere di Dorsoduro, il D., che rifiuta l'elezione dell'11 luglio 1506 a savio alle Acque, è pure, l'11 novembre di quest'anno, tra i quattro procuratori "in vita loro" della "chiesa di Rialto" di S. Giovanni. Il 29 giugno 1507 - essendo capo del Consiglio dei dieci - fa, coi colleghi, arrestare il falsario Girolamo Mocenigo.
Momento di svago in quest'ininterrotta presenza politica del D. - anche se talvolta in qualche votazione sta "soto", non raggiungendo il quorum dei suffragi, di li a poco riaffiora attestandosi nella carica desiderata - la recita, "a S. Canzian in Biri", del 26 febbr. 1508, in una commedia plautina, d'una "parte", per la cui "execution" s'è esercitato con scrupolo. Una pausa gioiosa prima della bufera dell'assalto della Lega di Cambrai, quando il D., nella fase tragica che mette in discussione la stessa sopravvivenza della Repubblica, come esecutore "sopra le cosse di guerra", si prodiga nel reperimento dei "danari" che le urgenze belliche senza sosta richiedono. Donde il suo assillo per una continua riscossione, il suo star dappresso ai camerlenghi di Comun, il suo quotiffiano precipitarsi nella Camera degli imprestiti. Purtroppo, commenta Sanuto, "pocho si scodeva, perché in la terra non era denari". Ulteriore incombenza del D., nel luglio del 1509 (quando, peraltro, non va in porto la condotta da lui "tramata" del conte di Popoli Restaino Cantelmo, che egli, sapendolo "bellicoso", avrebbe voluto "governador in campo" della Serenissima), la sovrintendenza degli "spioni" per "saper" le "mosse" del nemico. Eletto, il 5 agosto, capitano a Padova e quivi prontamente recatosi, concorre al particolare risalto propagandistico con il quale si rimarca la cattura del marchese di Mantova Giovanfrancesco Gonzaga.
Quando l'illustre prigioniero entra in duomo, il D. campeggia nella "scala di mezzo". E, nella successiva riunione dei vertici militari e politici de modo conducendi da Padova a Venezia il marchese, il D. "sopra questo" disquisisce "assai". Segue il trasferimento del marchese organizzato abilmente si da conferire alla cattura il massimo della risonanza (e perciò visualizzandola lungo il percorso) senza, peraltro, disgiungerla da precauzioni di sicurezza ad evitare fulminee mosse nemiche volte alla liberazione del prigioniero.
Impegnato nell'approvigionamento di pane per le truppe e gli abitanti della città assediata, il D. sovrintende altresi al febbrile scavo di fossati larghi e profondi d'una fortificazione che è, anzitutto, demolizione per restringere - a costo di dolorose amputazioni d'intere aree edificate per sventarne l'utilizzo nemico - il perimetro urbano, che il lavoro di duemila cernide s'affretta ad irrobustire con "repari" e "bastioni". Severo nell'esigere il concorso di tutta la popolazione ai lavori disponendo che "li homeni debano in persona venir a cavar et non per estimo", il D. lo è del pari nel pretendere, sempre dall'intera cittadinanza, la consegna delle armi.
Incalza nel frattempo la guerra minacciosa, intralciata dalla guerriglia dei "vilani" che, a sua volta, non dà tregua agli assedianti ostinati a prendere Padova per quivi "acamparsi". Ma questa, circondata da macerie, rinserrata tra "gran ruine", con le vie d'accesso volutamente devastate, con i ponti deliberatamente distrutti, resta in mano veneziana mentre vieppiù s'inasprisce la repressione all'interno sulla sua nobiltà filoimperiale. Sventuratamente violentissimi dolori di schiena - conseguenza, a suo dire, d'una brutta caduta antecedente, a Venezia, nella "riva" di S. Francesco della Vigna - costringono il D., nel gennaio del 1510, a letto, sicché - così la sua richiesta d'esonero letta a Venezia il 23 - "non si pol adoperar". Ma alla nomina del successore s'oppongono gli avogadori, adducendo che, in ogni caso, il D. non può rifiutare la carica "senza pagar pena". Sostiene con vigore le ragioni del D. il podestà Pietro Babi (che non dimentica come il D., quando egli era incapace d'agire per il dolore per la perdita d'un figlio, l'aveva aiutato sobbarcandosi anche i suoi compiti), garantendo che il "colega" è effettivamente impossibilitato ad "operar". La "doja" alla schiena lo immobilizza realmente.
Trasportato il D. a Venezia il 23 febbraio, il 24 il Balbi riferisce, per suo conto, in Collegio sui lavori di "cavazion" da lui diretti a Padova profondendosi in elogi, insistendo che il D. s'è "ben portato". Ciò non toglie che l'immagine pubblica del D., col rientro a Venezia, un po' scada, un po' s'offuschi. Circola addirittura la voce che egli - rintanatosi a letto col pretesto d'atroci dolori fisici - abbia, in realtà, disertato il capitaniato "per paura". Una maldicenza che attecchisce, che s'insinua nelle stesse file dei Maggior Consiglio, ove - eleggendosi, il 10 marzo, i tre sopragastaldi - il D. è si tra gli eletti, ma con meno voti d'Andrea Loredan, pur criticatissimo perché per sei mesi allontanatosi dalla sua luogotenenza in Friuli.
"Cussi va le cosse di la terra nostra", commenta a margine con una punta d'amarezza il Sanuto, stupefatto perché la latitanza del Loredan suscita meno sconcerto della malattia effettiva del cognato, il quale, proprio per 4 esser amalato", se ne sta chiuso in casa sino a giugno, senza che il Sanuto sia sfiorato dal sospetto che ci possa essere in ciò dell'esagerazione, che il D., insomma, un tantino simuli per accreditare, così, la gravità dei suoi mali. Fatto sta che il D. si riaffaccia il 20 giugno alla vita pubblica non senza fierezza vantando le benemerenze del suo operato patavino e criticando, il 10luglio, quanto s'è fatto, relativamente alle "fortification", dopo la sua "partita" dalla città.
Riacquistato con quest'atteggiamento pugnace, il più atto a rimuovere le maligne chiacchiere residue, il suo per un po' traballante prestigio - avvalorato un minimo anche dalla dedica, del 10 luglio, da parte del domenicano Innocenzo Bacchi dell'edizione pesarese (per i tipi di Piero de Capha, 1510) del Dialogo, volgarizzato da D. Cavalca, di s. Gregorio, di cui sussiste un esemplare in malo stato alla biblioteca bolognese dell'Archiginnasio (G. Dufner, Die Dialoge Gregors des Grossen..., Padova 1968, p. 87) -, il D., eletto il 29 settembre dei tre savi del Consiglio "di zonta" e divenuto, il 10 ottobre, capo del Consiglio dei dieci, è di nuovo politicamente autorevole, tant'è che, il 23 apr. 1511, è dei tre che per un mese debbono andar "per li officia" a sollecitare, appunto, "con grande autorità", denaro.
Un'autorevolezza che legittima la sua opposizione, del 10 luglio, alla proposta del pur influente Bernardo Bembo di soprassedere, pel momento, alla demolizione della casa, a Padova, del cittadino patavino Pietro Gabrieli, suo amico (N. Giannetto, B. Bembo, Firenze 1985, p. 73). Aspro, invece, il dissenso del D.: la casa, sostiene, deciso, va buttata "Zoso". Nette, in più occasioni, le sue prese di posizione, specie quelle espresse in veste di savio del Consiglio. Vanificato però dal fatto che se ne procrastina l'applicazione alla fine della guerra il suo appoggio alla proposta d'Antonio Tron - volta ad ostacolare il restringimento in atto della sfera decisionale - limitante a non più di due procuratori (uno de citra, l'altro de ultra) la presenza di questi tra i savi del Consiglio. Comunque sia, il D. non manca d'intervenire nelle discussioni, ora con secche e rapide battute, ora con argomentazioni piuttosto prolisse. "Andò in renga" e "fo longo", testimonia Sanuto. Il 14 agosto il D. sostiene, reagendo con vivacità alle obiezioni di Marcantonio Loredan, che quanti prestano alla Serenissima 100 ducati debbano essere considerati creditori di 110 ducati, e tale "parte" passa. Nel giugno del 1512, nella "disputation" sulle pretese imperiali alla restituzione dei prigionieri con, per di più, l'esborso di 10.000 ducati, il D. - che, il 20 ottobre dell'anno prima, è tra i gentiluomini vestiti di seta partecipanti alla processione per la pubblicazione della lega col papa e colla Spagna - propende per la loro accettazione, purché sia possibile prorogare il pagamento da addossare, comunque, per il D. agli ebrei, senza che per questo li si debba esentare, nel corso dell'anno, dal "pagar altra angaria".
Eletto, il 17 novembre, provveditore all'Arsenale, rifiutata quindi la nomina, del 19 dicembre, a provveditore generale in Campo, il D., nel gennaio del 1513, perora l'affidamento della carica di padrone dell'Arsenale a personalità di grande spicco come già nel passato, quando ne venivano investiti "i primi homeni de la terra", come suo nonno Giovanni e il grande umanista Francesco Barbaro. Nello stesso mese il D. consiglia P"indusio", vale a dire il temporeggiamento, nei confronti della proposta d'alleanza francese; e, quanto ai "debitori" verso la Signoria "che sono a palazo", suggerisce una scadenza ravvicinatissima per l'estinzione di metà del debito, pena, in caso contrario, una maggiorazione del 5% di questo. Nel marzo, il dazio straordinario d'uscita per "formenti" e "megii" dal D. caldeggiato viene fortemente contrastato soprattutto da Alvise Priuli, "merchadante de dormenti", come precisa, non senza malignità, il Sanuto.
Eletto, il 30 giugno, nello "scurtinio" di due provveditori per "trovar denari" da gettare nella voragine bellica, il D., col collega Alvise da Molin, propone, il 15 luglio, che i creditori del Monte Nuovo anticipanti - entro quindici giorni - in contanti metà del loro "pro" possano subentrare alla Signoria come creditori nei confronti dei debitori di questa. E alle obiezioni in contrario il D. replica con, a detta del Sanuto, "bona renga", vantando il duplice vantaggio del provvedimento da lui escogitato: da un lato si raccoglie rapidamente denaro fresco, dall'altro si dà un po' di respiro ai "poveri debitori, che non li si venderà le sue caxe così presto, ma con comodità loro".
Fertile, in effetti, l'inventiva del D. - non per niente in fama di "grandissima praticha di trovar danari" - per alimentare al più presto le esauste casse statali, anche se troppo spesso improvvisata, anche se sprovvista di meditazione sulle conseguenze nel tempo. Ad esempio, la sua "opinion" che, purché tassati, i mercanti di "malvasie" possano "vender vin a lira" sembra ignara che il "danno" per le osterie sarebbe rimbalzato su di un sicuro cespite per la Serenissima. L'ossessione di "trovar" subito "danari" l'inducono ad espedienti aggroviglianti vieppiù la contraddittoria matassa dei crediti e dei debiti, alla promessa di sconti e facilitazioni per i debitori, all'allettamento di cospicuo ispessimento dei crediti per i creditori disposti ad ulteriori versamenti. Né il D. valuta a sufficienza che ogni sovratassa su questo o quel genere - ad esempio gli "ogii" - può provocare un immediato rialzo dei prezzi con conseguente contrazione dei consiffirii e, quindi, alla lunga, pure del gettito tributario.
Quanto ai "danari" pel pagamento delle "setimane" dell'Arsenale, viene accolto il prelievo, proposto dal D., del 10% di tutte le entrate, a qualsiasi titolo, dei camerlenghi di Comun. Il torturante assillo delle spese belliche non concede, d'altronde, tregua ed esaspera la spirale delle, più o meno ingegnose, sovrimposizioni, dei prelevamenti aggiuntivi, delle contribuzioni sollecitate da condizioni mirabolanti, delle promesse costosissime, dei sovraccarichi estemporanei, dei contributi forzosi, delle vessazioni e delle estorsioni a danno degli ebrei. Il D. sembra, per ragioni d'ufficio, solo smanioso di nansar nuovamente", non pensa che alla "decima nova". Non gli è concesso - in "materia pecuniaria" - quel minimo di ponderazione per proposte meno improvvisate. "Bisogna trovar immediate ducati 10 milia e mandarli in campo", insiste angosciato con il Molin il 4 luglio 1514. E il D. - che, nel febbraio del 1515, risulta contrastare invano la giostra richiesta dal capitano generale Bartolomeo d'Alviano - vien ritenuto a ciò adatto se, il 26 luglio, viene rieletto provveditore sopra i denari, così rinnovandogli l'incubo della spedizione, di volta in volta, "in campo" di 10.000 ducati.
Un'urgenza di contante che forse nevrotizza il D., che probabilmente - tortuosamente e torbidamente - esaspera il suo latente antisemitismo, lo carica d'animosità sino ad indurlo all'esplicito attacco contro gli ebrei del 26 marzo 1516, quando li accusa, in Collegio, d'essere un corpo estraneo allo Stato e, nel contempo, inquinante, ché da loro deriverebbero "le perversità", appunto, "dil stado". Meglio - ne deduce il D. - concentrarli, allora e, separandoli dal resto della popolazione, "mandarli tutti a star in Geto nuovo, ch'è come un castello, e far ponti levadori et serar di muro" e quivi costringerli a vivere imbrigliati da severe disposizioni. Vanamente opponendosi i rappresentanti della comunità ebraica lagunare, la proposta concentrazionaria del D., spalleggiato dallo stesso doge Loredan, diventa in breve legge - con effetti, alla lunga, nonostante l'ispirazione virulentemente antiebraica, anche positivi ché il ghetto significherà protezione rispetto ai furori omicidi sollecitati dai pulpiti, sbarramento rispetto alle ricorrenti tentazioni di saccheggio, e concederà ai suoi addensati abitanti, sia pure in una cornice fortemente restrittiva, sia pure coll'odioso costante pedaggio di contribuzioni forzate, margini d'esistenza meno insicura, laddove la prescritta separatezza si tradurrà in spazi d'autonoma organizzazione, offrirà spunti d'autogestione - resa esecutiva già il 10 aprile.
Rieletto, il 28 giugno, savio del Consiglio, il D. non si stanca d'insistere sull'inderogabile necessità di "trovar danari", perorando l'inasprimento della tassazione straordinaria ed una mobilitazione nella direzione del soccorso della Repubblica dell'intera classe dirigente. Ma col procedere degli anni, le forze l'abbandonano sicché, per ben due volte, nel 1518 si sottrae alla rielezione a savio del Consiglio.
Una stanchezza che, tuttavia, non smorza il suo livore antisemita, che, lungi dal demordere, esplode con un sussulto sbavante odio nel novembre del 1519, quando, discutendosi in Senato fl rinnovo dei capitoli stipulati nel 1508, il D., facendo seguito alla violenta tirata antiebraica d'Antonio Condulmer, quasi auspica la cacciata. "Fo longo et parlò ben contra hebrei", annota il Sanuto, il quale, comunque, non manca di rimarcare la malafede ("grande ypocrexia") della demogogica arringa del D. nonché la sua non pertinenza, quasi facile sfogo fuori tema. Si trattava infatti non di "disputa contra hebrei", ma delle modalità con cui inquadrare la loro presenza essendo questa necessaria "per la povera zente non vi hessendo monte di la pietà come è in le altre terre". Ed avrà, di li a poco, ragione il procuratore Antonio Grimani ricordando, senza tema di smentita, che non solo "è necessario hebrei per sovegnir la povera zente", ma che essi "in questa guerra ne ha aiutà di assa' danari".
Ma dopo quest'intervento la voce del D. cessa dal risuonare in Senato, ché tende, sentendosi vecchio e stanco, ad assentarsi sempre più. E la sua partecipazione alla seduta del 27 febbr. 1521 è registrata come eccezionale dal Sanuto, non essendo "solito venir" già da tempo. A, d'altronde, il D. stesso a far presente, il 26agosto, alla Signoria d'"aver passà i 70 anni". Lambito, nel maggio del 1522, da voti, peraltro insufficienti, per l'elezione, dietro versamento, a futuro - non appena il posto si fosse reso vacante - procuratore di S. Marco (e questa sua aspirazione viene nuovamente colpita l'11 luglio e 18 febbr. 1523, quando risulta "tolto", cioè non eletto), egli ormai attende la morte, fornendo, già nel testamento del 12 luglio 1522, meticolose disposizioni per la propria sepoltura nella cappella della Madonna, nell'"arca" di famiglia, della chiesa dello Spirito Santo. E muore nel 1525.
Due le figlie - Laura, sposa ad Alvise Cappello e Andriana, maritatasi nel 1513 con Girolamo Malipiero di Perrazzo - dategli dalla moglie ed altrettanti i figli, Andrea e Leonardo, entrambi, grazie all'estrazione - rispettivamente del 3 dic. 1505 e del 19 nov. 1509 - della balla d'oro, ammessi in Maggior Consiglio prima dei venticinque anni. Morto il secondo il 5 apr. 1512, l'affetto del D. si concentra su Andreacui lascia - così il testamento - "la mia botega de spiciaria grossa tenuta per mi et per mio conto et per mio nome", nonché, coll'obbligo di trasmissione di primogenito in primogenito e coll'impegno inderogabile, per lui e i discendenti, di portarla sempre, la "croseta" miracolosa donatagli, a suo tempo, dal parente Niccolò Corner. Certo che Andrea, sposatosi ancora all'inizio del 1512 con Deia di Alvise Mocenigo (e resta memorabile la "festa" di nozze, del 10 febbraio, in casa del suocero cui partecipano cento gentildonne e centocinquanta gentiluomini, con sontuoso banchetto e splendido ballo mascherato, nonostante la guerra in corso, come osserva, non senza sconcerto il Sanuto), lungi dal seguire le orme paterne, non si impegna nel servizio della Repubblica. Savio agli Ordini il 5 apr. 1512, racimola appena qualche voto, il 15 marzo 1516, essendo in votazione la carica di provveditore sopra il Fisco. Ma, eccezion fatta per qualche saltuaria offerta di prestiti e oblazioni allo Stato (a "suo nome", ad esempio, il 28 nov. 1513 giungono "per servir" a Treviso dieci fanti), la sua figura è così evanescente che al Sanuto non resta che inserire, in data 31 luglio 1527, questo suo "nievo" nella lista di quanti, o per malattia o per sisternatico assenteismo, non si fanno mai veder in Maggior Consiglio. Andrea morì nel 1548.
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