VALARESSO, Zaccaria
– Membro di una famiglia veneta di antica nobiltà, nacque a Venezia l’8 giugno 1686, trascorrendo poi tutta la vita nella città natale. Letterato e protettore di letterati, va distinto da un suo omonimo che sarebbe apparso nelle ultime vicende della Repubblica come proponente, nel 1793, di quella neutralità disarmata che favorì la fine dell’indipendenza di Venezia.
Di carattere integro e prudente, rivestì la carica di senatore e fin dalla giovinezza si dedicò agli studi di letteratura e di storia sacra e profana sotto la guida del padre somasco Stanislao Santinelli, nel collegio di S. Maria della Salute. Ben presto si indirizzò soprattutto alla poesia, componendo attorno al 1701 un oratorio in italiano per il coro femminile dell’ospedale degli Incurabili: Gioas re di Giuda, musicato da Antonio Lotti, compositore a lungo sostenuto dalla famiglia Valaresso e che ne ricambiò i favori dedicando a Paolo Valaresso, vescovo di Concordia, un altro oratorio a tre voci, Giuditta (1701). Ancora Lotti musicò nel 1736 il madrigale a quattro voci Spirto di Dio, ch’essendo in mondo, cantato sul Bucintoro dogale nella festa dell’Ascensione e i cui versi sono attribuiti a Zaccaria; nella circostanza se ne fecero centinaia di copie manoscritte a uso sia dei veneziani sia degli ospiti stranieri e agli inizi dell’Ottocento una di queste fu inclusa nella raccolta della Cappella Marciana quale unica opera di soggetto profano qui conservata.
Dopo l’esordio di Gioas, Valaresso si rivolse alla letteratura teatrale, traducendo in prosa italiana due tragedie di Euripide, Le Feniciane e L’Ecuba, pubblicate senza data ma collocabili nel 1714, e dando alle stampe dieci anni dopo, sotto lo scherzoso pseudonimo di Cattuffio Panchiano Bubulco Arcade, l’opera che gli diede maggior notorietà, ossia Rutzvanscad il giovine, arcisopratragichissima tragedia elaborata ad uso del buon gusto de’ grecheggianti, apparsa nel 1724 a Bologna e, pressoché contemporaneamente, a Venezia con due diverse stampe ravvicinate.
Si tratta di una tragedia satirica volta a ridicolizzare, scena per scena, l’esempio offerto da Domenico Lazzarini, professore di eloquenza greca e latina a Padova, che con il suo Ulisse il giovane (1720), collocandosi sulla scia della Merope di Scipione Maffei (1713), aveva riproposto come modello assoluto per i nuovi testi drammatici quello della tragedia greca, in particolare di Sofocle. Dell’Ulisse lazzariniano Valaresso contestava sia la violenza e l’incongruenza della trama, che vedeva il protagonista condotto dagli dei a uccidere il figlio e a sposare la figlia quale punizione per un delitto commesso a suo tempo dal padre Ulisse, sia l’epilogo, dove la catastrofe finale era anacronisticamente sancita da una decisione del Fato piuttosto che derivare da una logica conseguenza degli avvenimenti narrati. Viceversa Rutzvanscad intendeva affermare chiaramente, pur attraverso il filtro parodico, la necessità di proporre le vicende tragiche in termini razionalmente condivisibili da parte dei fruitori dall’inizio fino al loro epilogo, indipendentemente dal fatto che il testo fosse destinato alla scena, come lasciava intendere la divisione in cinque atti della stampa bolognese, o alla lettura, cui pareva puntasse quella veneziana, sviluppata in forma di un ininterrotto dialogo tra i personaggi.
Nella riproposta in chiave moderna dei valori morali del dramma greco, la funzione informativa del coro veniva realisticamente affidata a rapidi interventi del confidente, mentre dal punto di vista linguistico Valaresso si differenziava dalle scelte cruscanti di Lazzarini, puntando attraverso il verso sciolto a una maggiore colloquialità e corrispondenza con la sensibilità del pubblico, sulla scia di quanto aveva positivamente mostrato il teatro francese del Seicento.
Una sintesi emblematica delle peculiarità stilistiche del Rutzvanscad era inoltre offerta dall’epilogo, sempre puntualmente citato nei relativi studi, con il suggeritore che usciva dalla sua buca e si presentava sulla scena rimasta improvvisamente vuota, congedando un pubblico perplesso con la battuta: «Uditori, m’accorgo, che aspettate, / che nuova della pugna alcun vi porti; / ma l’aspettate in van: son tutti morti» (Rutzvanscad il giovine, Venezia 1724, p. 79).
Con questa sua parodia tragica, Valaresso intervenne dunque in modo concreto in quel dibattito sulla perfetta tragedia che da Apostolo Zeno a Scipione Maffei vide coinvolti vari letterati veneti nella prima metà del Settecento e nel quale rientrava anche l’esplicita, immediata contrapposizione in favore degli esempi classici messa in campo nello stesso 1724, sempre a Venezia, dal torinese Michelangelo Boccardo con un suo Bacco usurpatore di Parnaso, o sia Arlechino, poeta tragico alla moda e di buon gusto, bergamascante giurato per la vita, riformatore delle tragedie, in risposta a’ signori tragici moderni.
E sempre Boccardo, celato dietro lo pseudonimo di Merlino Beccatutto, Accademico Incolto e poeta grecheggiante giurato, proponeva contemporaneamente un ancor più mirato Mintidaspe il vecchio, arcipiuchesopraridicolissima tragicomedia [...] in risposta alla moderna tragedia di Cattuffio Panchiano. Si trattò, in entrambi i casi, di opere assai modeste, ma significative in questo contesto dialettico, anche se non conobbero di certo la rilevante fortuna attestata per Rutzvanscad da una decina di edizioni, talvolta motivate da specifiche messe in scena, comparse nel quindicennio successivo alla princeps; poi ribadita da El Rutzvanscadt o Quijote trágico di Juan Pisón y Vargas, un suo rifacimento in spagnolo apparso nel 1786.
Restò affidato per molto tempo a una circolazione manoscritta nei circoli letterari e nobiliari veneziani Bajamonte Tiepolo, il lungo poema eroicomico al quale Valaresso lavorò per vari anni e che però fu dato alle stampe solo all’indomani della sua scomparsa, con due tomi pubblicati nel 1769 e nel successivo 1770. Nel primo di essi, comprendente quindici canti, ciascuno dei quali esteso per oltre cento ottave, si ripercorrevano in termini ancora una volta satirici i vari momenti della congiura ordita nel giugno del 1310 dai Querini e dai Tiepolo contro il doge e risoltasi in un fallito assalto al Palazzo Ducale; nel secondo, più precisamente intitolato Bajamonte Tiepolo in Schiavonia, poema eroicomico di Catuffio Panchiano Bubulco arcade, venivano narrate in dodici canti delle stesse dimensioni le avventure del protagonista durante l’esilio in terra slava, al quale era stato condannato in quanto incluso tra i promotori confessi della rivolta.
La rinuncia alla pubblicazione di questo poema da parte del suo autore, che pure l’aveva completato, fu determinata non tanto dall’aver trattato in termini giocosi un drammatico episodio della storia di Venezia, quanto dall’avervi inserito tutta una serie di ritratti satirici di personaggi veneziani suoi contemporanei. Lo affermava nella pagina prefatoria della stampa postuma L’editore al leggitore, quando dichiarava che Valaresso non aveva voluto stampare Bajamonte e si era limitato a farlo circolare tra i suoi amici «a motivo per altro dei spiritosi Sali che in se racchiude, e dei modestamente caricati caratteri, che nei suoi personaggi dipinge, tutti per lo più fedelmente copiati da persone viventi, e di universal conoscenza» (Bajamonte Tiepolo, Venezia 1769, p. III); individuabili costoro, asseriva ancora l’editore, grazie a una fantomatica chiave dei personaggi che non si trovava più e che si sarebbe potuta pubblicare solo in quel momento, quando tutte le persone là citate gli risultavano ormai defunte.
Valaresso morì il 2 marzo 1769 e venne sepolto nella chiesa di S. Fosca, parrocchia della sua famiglia.
Secondo Giannantonio Moschini, Valaresso lasciò manoscritti parecchi sonetti, sia seri sia giocosi, e un Dialogo tra un Cittadino attempato e un giovane patrizio per istruzione di questo sopra diversi gravi argomenti di Religione, di Morale, di Politica. Se ne sono perse le tracce, mentre quello che restò nella memoria letteraria di fine Settecento e primo Ottocento fu senz’altro il Rutzvanscad, puntualmente incluso nelle principali antologie poetiche allestite in quell’arco di tempo a Venezia e a Milano, dal Parnaso italiano di Andrea Rubbi (I, Venezia 1791) alla Raccolta di tragedie scritte nel secolo XVIII allestita da Giovanni Antonio Maggi (II, Milano 1825).
Fonti e Bibl.: G. Moschini, Della letteratura veneziana del secolo XVIII fino a’ giorni nostri, II, Venezia 1806, pp. 124 s.; E. De Tipaldo, Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti del secolo XVIII, e de’ contemporanei, compilata da letterati italiani di ogni provincia, VI, Venezia 1838, p. 269; E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane raccolte e illustrate, V, Venezia 1842, pp. 327 s.; F. Caffi, Storia della musica sacra nella già Cappella Ducale di San Marco in Venezia dal 1318 al 1797, I, Venezia 1854-1855, pp. 335 s.; G. Brognoligo, Parodie tragiche del Settecento, Lanciano 1922, passim; G. Mazzoni, Tragedie per ridere, in Abati, soldati, attori, autori del Settecento, Bologna 1924, pp. 181 ss.; D. Pietropaolo, Parodia della tragedia classica e riforma teatrale nel Settecento: il contributo di Z. V., in Revue romane, XXI (1986), 2, pp. 229-243; F. Fido, Parodie settecentesche: Rutzvanscad il giovine, in L’immagine riflessa, n.s., I (1992), pp. 267-279; V.G. Tavazzi, Rutzvanscad il Giovane di Z. V.: note sulle edizioni e sulla tradizione manoscritta, in Lettere italiane, LXV (2013), 1, pp. 77-94.