ZAMBRA
– Famiglia di mercanti attivi in Abruzzo alla metà del XVII secolo.
Defendente, nato nel 1637 a Careno, in provincia di Como e morto a Chieti nel 1721, orfano dall’età di dieci anni, giunse a Chieti al seguito dei mercanti Durini, tra i tanti che spinti dalla sfavorevole congiuntura economica (conosciuta come ‘crisi del Seicento’) che aveva danneggiato i circuiti commerciali del Nord della penisola si erano spostati dal Milanese e dal Bergamasco nelle regioni del Centro e del Sud. Inizialmente ‘giovane di bottega‘, nel 1657 Defendente rappresentava già il suo datore negli atti notarili, e contemporaneamente aveva intrapreso in maniera autonoma l’attività di credito, dapprima ai piccoli artigiani locali, successivamente ai notabili e ai grandi mercanti. Un’attività florida che, complice l’assenza di istituzioni creditizie locali, gli consentì di raggiungere una solida posizione economica. Nel 1679, alla morte del barone Durini, rilevò tutti i suoi magazzini e le attività economiche, comprese quelle del suo erede, Geronimo, presso la città di Lanciano. Iniziò a questo punto un sistematico investimento in case e terre, sia in città che nei centri limitrofi, che gli consentì di accumulare e mettere a rendita un ingente patrimonio immobiliare. Raggiunta la stabilità economica, consolidò la sua posizione sociale sposando all’età di poco più di quarant’anni Lucrezia Tersani (morta nel 1717), figlia di benestanti stampatori lombardi anch’essi trasferitisi a Chieti. Dal loro matrimonio nacquero cinque figlie: Maddalena, Francesca, Vienna, Elisabetta e Rosa. In mancanza di un erede maschio Defendente attuò una serie di strategie matrimoniali che oltre a legare la famiglia agli esponenti più in vista della società chietina consentirono di perpetuarne il cognome. Congruamente dotate, affinché non potessero avanzare pretese sull’asse ereditario, le giovani Zambra si unirono in matrimonio rispettivamente con Paolo Zibrari (ricco mercante di origine milanese), con il barone Giovan Battista Lanuti e con il barone Alessandro Valignani. Con le nozze della quarta figlia, Elisabetta, Defendente mirò più in alto dandola in sposa a Nicola Giordano, figlio del presidente della Regia Camera della Sommaria di Napoli. A Rosa (che sarebbe morta nel 1717), l’ultimogenita, venne invece riservato il matrimonio da cui dipesero le sorti del casato: nel 1715, grazie a una dispensa papale, sposò il cugino Giovanni (1682-1754), figlio dello zio Paolo Zambra (1639-1693).
Da quell’unione nacque Giuseppe (1717-1789): tramite l’istituto successorio del fedecommesso, Defendente destinò a lui tutti i suoi averi. Al genero Giovanni affidò la sola tutela dell’eredità, fino al compimento della maggiore età del nipote. Giovanni si rivelò un ottimo amministratore, proseguì l’opera dello zio/suocero nell’attività di ‘pubblico mercante’, in quella creditizia e nella vita politica cittadina (fu priore nel consolato di commercio di mare e di terra), riuscì a incrementare in maniera consistente il patrimonio e a compiere un passo importante: il conseguimento del titolo nobiliare. Nel 1741 l’acquisto, in favore del figlio, delle ‘due terze parti’ del feudo di Roccamorice, appartenuto al duca di Vacri, consentì agli Zambra di fregiarsi del titolo di baroni ed essere titolari di un complesso di diritti, poteri e privilegi di grande rilievo sotto il profilo sociale. Rimasto prematuramente vedovo, Giovanni si risposò con Caterina Landi, dalla quale nel 1720 ebbe una figlia, Maria Rosaria, che destinò al monastero di S. Maria in S. Pietro con il nome di suor Alma. Alla morte di Caterina, Giovanni si sposò nuovamente nel febbraio del 1722 con Giustina, figlia di Matteo Caccianini, barone Frisa, appartenente alla piccola nobiltà locale. Giustina perì pochi mesi dopo.
Giovanni si spense all’età di settantaquattro anni, lasciando Giuseppe sposato con Maria Siropoli Straticò, nipote del conte Giovanni, amministratore del feudo dei principi Caracciolo. La famiglia risiedeva in un palazzo nel centro urbano e nella sola Chieti possedeva diverse proprietà immobiliari e una sostanziosa rendita derivante dal Monte di famiglia. Giuseppe continuò l’opera di accumulazione fondiaria e svolse un ruolo di primo piano nella vita politica locale. Fu camerlengo (sindaco) della città e coordinò le misure di bonifica per arginare l’epidemia scoppiata nella provincia abruzzese in seguito alla carestia che nel 1764 colpì il Regno di Napoli. Dal suo matrimonio nacquero dieci figli. Arbitro della loro vita, nella convinzione che la proprietà dovesse rimanere unica e indivisa, crescere e mai frantumarsi, si avvalse dell’istituto del maggiorasco, per destinare tutti i suoi beni al primogenito Pietro (nato nel 1751). I destini degli altri figli furono pesantemente condizionati da tale scelta: mentre Doralice (nata nel 1827) fu data in sposa a Bartolomeo Nolli e se ne perdono le tracce, Giovannantonio (non sono note le date né di nascita né di morte), Maria Giuseppa (1750-1830), Aurora Maria (1758-1823), Maria Caterina (1764-1828) e Maria Elisabetta (1767-1827) furono avviati alla vita monacale, il primo come frate celestino, le donne come suore nel monastero di S. Maria in S. Pietro, deegli altri figli maschi, Defendente (1752-1812) fu istradato agli studi in legge presso l’Università di Napoli e Giacomo (1753-1822) seguì la carriera militare. Infine Pasquale (1763-1847), il più giovane dei figli maschi e il più incline a una oziosa vita borghese, sposò Maria Vincenza Costanzo, dalla quale nel 1822 ebbe una figlia, Costanza; né lui né la sua stirpe vengono più menzionati nelle carte di famiglia, perdendosene così le tracce. La scelta di destinare Defendente e Giacomo a carriere di lustro (nobiltà di toga e di spada), non mise a repentaglio l’unità del patrimonio, in quanto era usanza dei cadetti non sposarsi per non generare eredi, e fare testamento in favore del fratello primogenito o del primo nipote maschio.
La morte di Giuseppe segnò l’inizio della divisione della famiglia, che fino ad allora era vissuta unita sotto lo stesso tetto. Pietro, sposato con Beatrice Gentileschi de L’Aquila, dalla quale aveva avuto Concetta e Giuseppe (1792-1858), si trasferì a Napoli per partecipare alla vita di corte. Il suo ramo familiare si estinse con la morte di Giuseppe che sopravvisse a suo figlio Ernesto e all’unico nipote maschio, Ernesto il giovane.
Con la sua partenza il maggiore esponente Zambra a Chieti divenne Giacomo, militare di carriera, al quale il fratello, in sua assenza, aveva delegato la gestione del patrimonio di famiglia. Con lui la famiglia acquisì nuova vitalità. Attivissimo nella tumultuosa vita politica e militare dell’epoca, si destreggiò abilmente tra governi francesi e borbonici. Nel 1792 divenne ispettore di polizia borbonica, nel 1799 collaborò con il nuovo regime repubblicano, per rimettersi nuovamente al servizio dei Borbone durante la prima Restaurazione. Nel decennio francese simpatizzò per il re Gioacchino Murat e venne eletto sopraintendente alle Opere pubbliche. Gestì i fondi dedicati alla realizzazione e alla manutenzione delle infrastrutture più importanti dell’Abruzzo Citeriore, e conservò tale incarico anche dopo la restaurazione. Tentò inoltre di stimolare l’economia locale attraverso l’operato della Società economica di cui era socio onorario. Si dedicò con tenacia a costituire ex novo il patrimonio immobiliare Zambra, iniziando con l’acquisto dei beni demaniali messi in vendita dal governo napoletano per sovvenzionare la guerra contro i francesi, e di quelli ex ecclesiastici svenduti dai francesi per finanziare le campagne napoleoniche, proseguendo con l’acquisto degli immobili di proprietà del fratello Pietro. L’eversione della feudalità aveva mutato l’atteggiamento della classe nobiliare verso la proprietà terriera. L’equiparazione degli stili di vita tra ricchi veniva demandata sempre più al denaro, e Pietro, al pari di altri nobili, preferiva contare su rendite in denaro, sostanziose e sicure, piuttosto che su quelle derivanti dalla gestione di proprietà fondiarie ubicate di solito lontano dalla capitale. Iniziò quindi a vendere i suoi possedimenti abruzzesi al fratello Giacomo per investire in titoli del debito pubblico. In pochi decenni quest’ultimo accumulò un ingente patrimonio immobiliare senza aver intenzione, in qualità di cadetto, di lasciarlo in eredità al nipote Giuseppe.
Nel rispetto delle tradizioni dei cadetti non si sposò, ma ebbe una convivenza con Tecla Spennacchiera che durò fino alla morte della donna, avvenuta nel 1803. Dal legame nacquero due figli, Ferdinando (1790-1872) e Rachele (1793-1837), legittimatati ufficialmente nel 1805. A partire dal 1806 le riforme napoleoniche che sconvolsero la società napoletana, smantellarono anche l’intero sistema delle successioni ereditarie, introducendo il principio dell’uguaglianza dei figli di fronte all’asse ereditario, indipendentemente dal genere e dall’ordine di nascita. Se da una parte Giacomo fu dunque libero di destinare i suoi beni al figlio, dall’altra ebbe il problema di escludere la figlia dall’eredità. Tentò quindi vanamente di chiuderla in convento o di accasarla con qualche nobile locale, ma Rachele si oppose sia alla monacazione sia al matrimonio imposto, mettendo in discussione il dogma dell’autorità paterna nella famiglia. Riuscì infine a sposarsi con Michelangelo Ruozzi, dopo due mesi dalla morte del padre, e non ricevette dal fratello alcuna dote. Ferdinando assecondò invece la volontà paterna sposando Rachele (1787-1871), figlia del barone Vincenzo Maria del Monaco, dalla quale ebbe quattro figli: Giovanni (1811-1886), Maria (nata nel 1813), Gaetano (1814-1839) e Giustino (1815-1890). Ricoprì diverse cariche pubbliche, fu sindaco di Chieti, decurione, cassiere comunale, consigliere provinciale, revisore dei conti comunali dei Monti frumentari della provincia, socio onorario della Società economica. Affiancò il padre nel processo di accumulazione fondiaria, figurando come unico acquirente dei numerosi immobili. Il fine era quello di ridurre al minimo l’asse ereditario.
Per evitare contestazioni circa il testamento, Giacomo motivò il possesso di denaro da parte del giovane figlio come l’esito di fortunate vincite al lotto, come dote apportata dalla moglie e come anticipo delle rendite annuali che lui stesso si era impegnato a versare per il mantenimento degli sposi. Un’ulteriore decurtazione del patrimonio di famiglia la realizzò con un escamotage: poco prima di morire contrasse un ingente debito fittizio con il suo amico barone Giovambattista Obletter, vincolando la maggior parte del suo patrimonio al pagamento del debito. Nel testamento il debito fu accollato a Ferdinando che, di conseguenza, divenne proprietario dei beni ipotecati. Non è un caso che il mutuo venisse prontamente estinto pochi mesi dopo la morte di Giacomo e che il figlio Giovanni e la nipote di Obletter, Carolina (1822-1894), si sposassero pochi anni dopo. Nella quota di legittima spettante a Rachele rimasero pochi beni immobili, di scarso valore, e una modesta cifra di denaro. L’ingiustizia subita diede origine a una lunga causa civile tra i fratelli Zambra che si protrasse oltre la morte di Rachele, fino a metà XX secolo.
Deceduto Ferdinando la maggior parte del patrimonio passò nelle mani di Giovanni, che appassionato di agraria si dedicò alla gestione del latifondo conducendo una vita schiva e modesta. Ebbe quattro figli, Maria (nata nel 1841), Giacomo (1844-1926), Gaetano (1846-1919) e Defendente (1848-1889) che sposò Margherita de Lellis (1861-1932). Fu Giacomo a ereditare la maggior parte del patrimonio che amministrò assieme al fratello Gaetano. Quando alcuni terreni del latifondo furono espropriati per la costruzione della ferrovia Roma-Pescara i fratelli si batterono, vanamente, per farvi costruire una stazione ferroviaria. Agli inizi del Novecento la volontà di Giacomo di assumere come amministratore dei beni familiari Ernesto Staccioli provocò una furiosa lite con Gaetano, del quale intentò l’interdizione. Sdegnato, Gaetano abbandonò il tetto familiare chietino e si ritirò nella tenuta di S. Maria D’Arabona, dove visse fino alla morte, lasciando parte dei suoi beni in eredità ai coloni. Alla morte del fratello Defendente, Giacomo adottò e istituì come suo unico erede il nipote Gerardo (1887-1968), che fu l’ultimo barone Zambra, in quanto sopravvisse ai suoi figli. Gerardo sposò Elena di Giorgio (1889-1977), da cui ebbe Ferdinanda (1920-1921) e Defendente Dino (1922-1944). Gerardo in società con Staccioli fondò una fornace e le imprese elettriche ‘Gerardo Zambra’ che erogavano energia nella Val Pescara. Aiutò il regime fascista nella realizzazione di opere di bonifica e nel 1930 divenne presidente della Cassa di Risparmio Marruccina. Il fallimento della fornace diede origine a una lunga lite giudiziaria con il socio Staccioli che, vincitore, si appropriò di buona parte del suo patrimonio. Gerardo fu così costretto a lasciare Chieti per rifugiarsi nei possedimenti di S. Maria D’Arabona. Il figlio Defendente Dino, arruolato nell’esercito, morì nel 1944. La vita pia del ragazzo, plaudita anche da padre Agostino Gemelli, indusse il genitore a destinare i loro beni a opere di beneficienza. Il patrimonio Zambra fu lasciato in eredità all’Ordine dei salesiani di Macerata.
Fonti e Bibl.: Mercanti, nobili, santi. La famiglia Z. di Chieti fra XVII e XX secolo (catal.), a cura di M. Ciarma - A. de Cecco - G. Viggiani, Bucchianico 1995. Si veda inoltre P. Nardone, Denaro e terra. ‘La modernità’ di un latifondo ottocentesco (secc. XVII-XIX), Milano 2004.