ZAMPIERI, Domenico detto Domenichino
– Nacque a Bologna il 21 ottobre 1581 da una Valeria e da Zampiero de’ Zampieri (o Giampiero Giampieri, secondo la forma centroitaliana) e ricevette il battesimo otto giorni più tardi (Roio, 1995, p. 287, nota 23). Ebbe una sorella, Gentile, e un fratello di nome Gabriele, secondo quanto riportano i biografi Carlo Cesare Malvasia e Giovan Battista Passeri (o Sebastiano, a quanto risulta da un rogito notarile reso noto da Guerra, 1844, p. 170).
Il padre, un calzolaio piuttosto abbiente, avviò Domenico allo studio della grammatica e della retorica, ma, vista la più promettente inclinazione artistica del giovane, dopo una parentesi infelice presso la bottega del fiammingo Denys Calvaert, intorno al 1595 presentò il figlio all’amico Agostino Carracci, il quale «lo pigliò per mano e lo condusse alla scuola di Ludovico», suo fratello (Bellori, 1672, 2009, p. 307). Qui il giovane manifestò un carattere umbratile, distinguendosi per la sua «taciturna lentezza» (Passeri, ante 1679, 1934, p. 21). Avendo partecipato anonimamente a una delle competizioni di disegno tra gli allievi indette da Ludovico, in cui il suo foglio fu «non una, ma ben tre volte giudicato il migliore», solo incalzato avrebbe ammesso timidamente di esserne l’autore: da allora, elogiato come «maggior d’ogni altro, ancorché il più picciolo» (Malvasia, 1678, p. 312), avrebbe ricevuto l’appellativo di Domenichino, forse anche in riferimento alla bassa statura. La prima attestazione pubblica del diminutivo cui rimase legata la sua fama risulta un avviso del 1° ottobre 1614 relativo all’installazione dell’Ultima comunione di s. Girolamo (Orbaan, 1920, p. 227), e già intorno al 1620 Giulio Mancini lo diceva «communemente chiamato Dominichino» (Mancini, 1621 circa, 1956, p. 243).
Presso l’Accademia degli Incamminati Zampieri attese allo studio dell’ottica, della prospettiva e dell’anatomia, praticò il disegno dal nudo, la copia di rilievi e statue antiche, nonché dei grandi modelli cinquecenteschi, in primis la S. Cecilia di Raffaello, ma anche gli affreschi di Correggio e Parmigianino ammirati de visu durante viaggi di studio a Parma, Modena e Reggio. Centrale nella prassi formativa ludovichiana era il coinvolgimento degli allievi nei grandi cantieri corali, tra i quali quello dell’oratorio di S. Colombano, cui verosimilmente Domenichino prese parte tra il 1598 e il 1600 (Arcangeli, 1958).
Frattanto giungevano da Roma disegni riproducenti gli affreschi vaticani di Raffaello (Baglione, 1642, 1995, p. 382; per Malvasia, 1678, p. 313, piuttosto, fogli relativi alla Galleria Farnese), che pungolarono il desiderio del giovane pittore di seguire le orme degli amici Francesco Albani e Guido Reni (conosciuti presso Calvaert), i quali si erano trasferiti nell’Urbe verso la fine del 1601. Secondo Malvasia (ibid.) Domenichino li raggiunse sei mesi dopo, dunque nella primavera del 1602, alloggiando anch’egli presso il monastero di S. Prassede.
La prima attività romana di Zampieri fu fondamentale tanto per la maturazione del suo stile, quanto per l’inserimento in una rete di committenza destinata a offrirgli durevole protezione. Le primissime opere di certa autografia, la Visione di s. Girolamo (Londra, National Gallery) e il Sacrificio di Isacco (Fort Worth, Kimbell Art Museum) figurano, infatti, nell’inventario del cardinale Pietro Aldobrandini, redatto nel 1603 da Girolamo Agucchi forse coadiuvato dal di lui fratello Giovanni Battista (Sparti, 1998, pp. 47 s.): nomi ricorrenti nelle successive vicende umane e artistiche del pittore. Allo stesso periodo risale il discepolato presso Annibale Carracci, che lo introdusse allo studio delle Stanze di Raffaello e di cui assimilò lo stile attraverso l’esercizio della copia (per esempio la Pietà del Metropolitan Museum di New York, la Madonna del silenzio del Louvre e l’Adorazione dei pastori della National Gallery di Edimburgo). Le fonti secentesche traboccano di aneddoti sulla predilezione accordatagli dal maestro (e sulla conseguente gelosia degli altri allievi, specie di Giovanni Lanfranco), da cui l’ampio coinvolgimento di Zampieri nelle imprese decorative da lui dirette, in primis quelle per i Farnese. Al 1603-04 si datano le lunette con la Morte di Adone, l’Apollo e Giacinto e il Narciso per il casino della Morte; benché Giovanni Pietro Bellori (1672, 2009, p. 308) affermi che nella prima di esse il pittore lavorò «di sua invenzione», traspare l’influenza del maestro, tanto in certe soluzioni compositive, quanto nel tono elegiaco del paesaggio, già in debito con le Lunette Aldobrandini di Annibale (Roma, Galleria Doria-Pamphilj), alle quali, almeno nella Fuga in Egitto, Zampieri verosimilmente collaborò (Spear, 1982, p. 142), avviandosi a diventare il massimo erede del paesaggio classico carraccesco.
Se problematica resta la sua partecipazione un poco più tarda al cantiere della cappella Herrera in S. Giacomo degli Spagnoli (L. Pericolo, in Malvasia, 2013, p. 156, nota 38), certo è il suo intervento in quello, sempre diretto da Annibale, nella Galleria Farnese, dove, tra il 1603 e il 1606-08, conclusa la volta, si decoravano le pareti. La critica ha avanzato diverse ipotesi attributive a favore del giovane allievo (sulle quali si veda da ultimo Ginzburg, 2008, pp. 20, 242 s.), convenendo su brani quali la sezione destra della Liberazione di Andromeda e la Fanciulla con il liocorno.
Il discepolato carraccesco e la lezione di Raffaello ebbero come primo frutto autonomo la Liberazione di s. Pietro dal carcere per la basilica di S. Pietro in Vincoli, scoperta il 1° agosto 1604 (poi a Potsdam ma perduta durante la seconda guerra mondiale, e oggi nota attraverso due copie nella medesima basilica, di cui una nell’antisagrestia e l’altra sul secondo altare della navata destra, commissionata da Bellori a Pietro Santi Bartoli, su cui si veda Zandri, 2014). L’opera fu dipinta su sollecitazione di Giovanni Battista Agucchi, il quale lo aveva accolto in casa dopo averne ammirati alcuni disegni (Baglione, 1642, 1995, p. 382), e gli valse la protezione del cardinale Girolamo, inizialmente maldisposto verso il pittore. Avendo apprezzato la tela, il prelato gli commissionò tre lunette illustranti episodi della vita di s. Girolamo nel portico esterno della chiesa di S. Onofrio (1604-05) nonché il suo ritratto, oggi agli Uffizi, nel quale l’adozione del prototipo raffaellesco cardinalizio produsse un irrigidimento espressivo, specie in rapporto al precedente e più disinvolto Ritratto di giovane (Darmstadt, Hessisches Landesmuseum), datato 12 aprile 1603, passerottiano nell’impaginazione e più mosso nella pennellata.
Alla morte del cardinale Agucchi, avvenuta il 27 aprile 1605, Zampieri si misurò con il suo primo progetto architettonico, realizzandone il monumento funebre in S. Pietro in Vincoli, di cui disegnò l’impianto generale, dipinse il ritratto ovale entro sfingi affrontate e scolpì almeno uno dei bucrani del sarcofago (Baglione, 1642, 1995, p. 384; Bellori, 1672, 2009, p. 310). La riflessione sul lessico architettonico antico qui intrapresa continuò nella memoria del cardinale eretta nella chiesa di S. Giacomo a Bologna, per la quale ancora nel 1609 Domenichino stava approntando disegni (sulla cui messa in opera si veda G.P. Cammarota, in Domenichino 1581-1641, 1996, pp. 232-236). Bellori (1672, 2009, p. 310) enumerò anche «altre figure picciole in rame» che Domenichino dipinse presso Agucchi, ossia l’Ascensione di s. Paolo (Parigi, Louvre), il S. Girolamo (Oxford, Ashmolean Museum) e il S. Francesco in preghiera (ubicazione ignota), e una dibattuta Susanna e i vecchioni (sulla cui identificazione fa il punto L. Pericolo, in Malvasia, 2013, p. 157, nota 39), mentre Mancini ricordava «alcuni paesaggi a olio di gran vaghezza e perfettione» (Mancini, 1621 circa, 1956, p. 243), da riconoscere in opere come il Paesaggio con lavandaie (Parigi, Louvre) o Il guado (Roma, Galleria Doria-Pamphilj).
Queste tele recano i tratti tipici dei paesaggi giovanili dell’artista, dove, entro le quinte di una natura umida e rigogliosa, si agitano figurine affaccendate in occupazioni umili, digressioni di genere che il pittore avrebbe abbandonato con la maturità, quando prevalsero piuttosto tematiche mitologiche (si pensi al Paesaggio con Silvia e il satiro della Pinacoteca di Bologna o al dittico con le Fatiche di Ercole del Louvre).
Zampieri soggiornò presso Giovanni Battista anche dopo la morte del cardinale (Baglione, 1642,1995, p. 382), per poi trasferirsi a Grottaferrata nel 1608, anno in cui, grazie all’intercessione di Annibale, ricevette dal cardinale Odoardo Farnese la commissione del rifacimento della cappella dei Santi fondatori nell’abbazia greca di S. Nilo, di cui il porporato era abate commendatario. Al pittore vanno ascritti non solo gli affreschi che si snodano lungo le pareti e nella cupola (dove i notevoli finti stucchi a chiaroscuro richiamano quelli da lui affrescati circa un anno prima a palazzo Mattei sotto la supervisione di Albani), ma anche il disegno degli intagli lignei del soffitto. Nelle Storie dei santi fondatori il nitore disegnativo e la gamma cromatica limpida, priva di eccessi chiaroscurali, sono funzionali alla sobrietà della narrazione, incentrata su quella poetica degli affetti che già si preannunciava come asse portante della ricerca artistica del pittore.
Frattanto, nel 1609, Domenichino non solo prese parte al cantiere diretto da Albani nella villa Giustiniani-Odescalchi a Bassano Romano, dove, in un camerino del piano nobile, affrescò le Storie di Diana, ancora vicine al modello farnesiano, ma ottenne in subappalto da Reni uno dei due affreschi delle pareti dell’oratorio di S. Andrea nel complesso di S. Gregorio al Celio, il cui restauro era stato finanziato dal cardinale Scipione Borghese.
Raffiguranti l’Andata di s. Andrea al calvario (Reni) e la sua Flagellazione (Zampieri), queste opere esemplificarono due declinazioni del classicismo bolognese (di cui il secondo maestro offrì un’interpretazione severa e raffaellesca) già agli occhi dei contemporanei, in primis di Annibale.
Questi avrebbe ribadito la propria preferenza per Domenichino, dando credito al giudizio di una «vecchiarella» che, benché ignorante di cose d’arte, avrebbe espresso maggior coinvolgimento emotivo dinnanzi all’intensa e variata espressività dei personaggi effigiati nell’«historia» di Domenico e che sarebbe rimasta indifferente davanti a quella di Reni. L’aneddoto fu ripreso da Bellori (1672, 2009, p. 319) per dimostrare come Zampieri «prevalesse nell’azione e negli affetti», attitudine consolidata grazie all’esercizio del disegno dal vivo che egli praticava indefessamente per captare le più diverse gradazioni espressive, come testimoniano i circa 1750 fogli di cui l’allievo Francesco Raspantino entrò in possesso dopo la sua morte e che pervennero nel Settecento nelle collezioni reali di Windsor Castle, in Inghilterra, dove sono tuttora conservati (Pope-Hennessy, 1948).
Concluso il cantiere di Grottaferrata nel 1610, mentre meditava di lasciare l’Urbe in seguito alla morte di Annibale, Domenichino realizzò due opere che ne consacrarono la fama romana. Al 1612 si data la commissione dell’Ultima comunione di s. Girolamo da parte dell’arciconfraternita di S. Girolamo della Carità (oggi alla Pinacoteca Vaticana).
Recante la prima firma nota del pittore, la pala venne modellata sul dipinto di identico soggetto realizzato da Agostino Carracci per l’altare della chiesa della Certosa di Bologna, visto da Zampieri nel corso di un breve soggiorno emiliano tra l’aprile e il maggio del 1612 e, in seguito, fatto riprodurre ad acquaforte da Lanfranco per mano di François Perrier così da accusare il collega di plagio. La controversia restò un’occasione di riflessione, nel Seicento e oltre, sul problema dell’imitazione artistica (Cropper, 2005), ma non impedì alla pala, caratterizzata da un caldo cromatismo d’ispirazione veneziana e da un calibratissimo chiaroscuro, di essere celebrata già all’epoca come uno degli apici della pittura moderna: per Nicolas Poussin, un primato condiviso solo con la Trasfigurazione di Raffaello.
Intanto, il 16 febbraio 1612, Domenichino aveva sottoscritto con Pierre Polet il contratto per la decorazione dell’omonima cappella presso la chiesa di S. Luigi dei Francesi (Spear, 1982, pp. 178 s.). Il pittore vi affrescò un ciclo con le Storie della vita di s. Cecilia, dove le aperte citazioni (l’Antico, Raffaello, Polidoro da Caravaggio, Annibale, Reni) prendono vita entro una narrazione posata, non priva, tuttavia, di digressioni sul mondo degli umili, liquidate come «bambocciate» da Malvasia (1678, p. 318). La cappella fu conclusa nel settembre del 1615 e, nello stesso anno, Zampieri firmò l’Angelo custode per i Vanni di Palermo (Napoli, Museo di Capodimonte), secondo Evelina Borea (1965, p. 53) espressione di piena adesione alla poetica del ‘bello ideale’ coltivata da Agucchi. Il contributo del pittore alla stesura del solo parzialmente noto Trattato della pittura di quest’ultimo (Mahon, 1947), benché a oggi non meglio circoscrivibile, fu il portato di un sodalizio erudito, forse testimoniato dal vivissimo Ritratto di Agucchi a York, per il quale è stato però proposto di trasferire l’autografia ad Annibale (Ginzburg, 1994). La qualità elevatissima di Domenichino in questo genere è, nondimeno, corroborata da prove quali il Ritratto virile degli Uffizi (forse effigiante Francesco Angeloni) e il Ritratto del cardinale Giovanni Bonsi (Montpellier, Musée Fabre).
Si data al 21 aprile 1617 un pagamento di 150 scudi che Zampieri ricevette dai Borghese per due dipinti, da riconoscere nella Sibilla Cumana e nella Caccia di Diana (Spear, 1982, pp. 191-194). Il tema della sibilla fu più volte affrontato dal pittore tra gli anni Dieci e Venti. Alla versione della Galleria Borghese si aggiungono la Sibilla Cumana della Pinacoteca Capitolina di Roma, la variante Ratta di quest’ultima in collezione privata e la Sibilla Persica della Wallace Collection di Londra: variazioni sul tipo della figura femminile dalla pelle alabastrina e l’espressione ispirata, panneggiata con un gusto neoveneto per i broccati. La Caccia di Diana, invece, entrò immantinente nel florilegio della pittura classicista del Seicento per la rarità dell’iconografia, la politezza del disegno e lo splendore venezieggiante del colore, in rapporto, quest’ultimo, con i Baccanali di Tiziano, che in quegli anni Zampieri poteva ammirare nelle collezioni di Pietro Aldobrandini (Puglisi, 2019). Non a caso era stato quest’ultimo a ordinare la tela (strappata dal cardinale Scipione al pittore con la coercizione), confermandosi quale suo committente privilegiato; ancora per suo conto, nel 1616, Domenichino iniziò a decorare la villa del Belvedere a Frascati con Storie di Apollo: scenette vivaci entro paesaggi verdeggianti su finti arazzi, nella pur discontinua qualità esecutiva dovuta agli ampi interventi dei collaboratori Giovanni Battista Viola e Alessandro Fortuna (Spear, 1982, pp. 195 s.). Altra commissione Aldobrandini fu il soffitto della basilica di S. Maria in Trastevere, per il quale l’artista disegnò la decorazione a cassettoni, disponendovi, al centro, l’Assunzione della Vergine, scoperta il 9 dicembre 1617 (Orbaan, 1920, p. 252). Nel biennio 1616-17 si colloca anche la S. Cecilia del Louvre, di provenienza Ludovisi, dichiarato omaggio al modello raffaellesco, ma anche manifesto degli interessi musicali del pittore, di cui le fonti attestano la conclamata competenza nella costruzione di strumenti musicali e nelle ricerche sugli antichi generi diatonico, cromatico ed enarmonico, in rapporto con la lettura di Vitruvio e con i suoi studi sull’architettura (De Simone, 2016).
A questo punto Zampieri accettò l’offerta del giurista Guido Nolfi di decorare la cappella di famiglia nella cattedrale di Fano, sottoscrivendo il contratto il 23 giugno 1617 per la favolosa cifra di 4000 scudi e impegnandosi a trasferirsi nel centro marchigiano entro il gennaio dell’anno successivo (Spear, 1982, pp. 201 s.). Durante i mesi trascorsi a Fano, che furono un «paradiso» (Passeri, ante 1679, 1934, p. 37), il pittore affrescò le Storie della Vergine, percorse da una vena neorinascimentale, e dipinse per il medesimo committente due delle tre versioni note della Madonna della rosa (Poznań, Chatsworth e una terza in collezione privata, resa nota da Caretta, 2004), nonché il David con la testa di Golia (Fano, Museo civico Malatestiano).
Tornato a Bologna, lavorò a due imponenti tele che, risentendo dell’impatto dell’Assunzione della Vergine che Reni aveva appena spedito a Genova, mettono in scena complesse iconografie entro uno spazio articolato in registri sovrapposti: la Madonna del Rosario per la cappella Ratta in S. Giovanni in Monte e il Martirio di s. Agnese per l’omonimo convento bolognese (entrambe concluse a Roma nel 1625 e oggi conservate nella Pinacoteca di Bologna). Specifici tipi fisionomici e schemi decorativi delle sete agganciano cronologicamente a queste tele la S. Agnese di Hampton Court e la S. Maria Maddalena in gloria dell’Ermitage, mentre ancora al soggiorno bolognese si riferiscono il Re David che suona l’arpa (Versailles, Musée du Château) e il Martirio di s. Pietro da Verona (Bologna, Pinacoteca), palmare ripresa del perduto dipinto di Tiziano, che Zampieri rivisitò, caricando gesti ed espressioni a discapito del rapporto di fusione atmosferica tra le figure e il paesaggio.
Il 27 aprile 1620, in S. Maria Maggiore a Bologna, Domenichino prese in sposa Marsibilia Barbetti (Roio, 1995, p. 292, nota 117), da cui ebbe due figli, morti in tenera età, e una bambina, Maria Camilla, alla quale fu molto legato. Il 6 febbraio 1621 il primogenito della coppia, Rinaldo, fu battezzato nella cattedrale di S. Pietro a Bologna dal cardinale Alessandro Ludovisi (Malvasia, 1678, 1841, p. 230), il quale, tre giorni dopo, salì al soglio pontificio con il nome di Gregorio XV. Si aprì così una fortunata congiuntura per Zampieri, che poté contare tanto sulla protezione del pontefice (di cui realizzò il doppio ritratto insieme con il cardinal nipote Ludovico Ludovisi, oggi al Musée des beaux-arts di Béziers), quanto su quella di Agucchi, divenuto segretario dei Brevi: effetto ne fu la nomina ad architetto generale della Camera apostolica, con un breve del 1° aprile 1621 (Bertolotti, 1885), carica che gli garantì la ricca provvigione di 25 ducati d’oro mensili. Rare tracce documentarie attestano gli esigui lavori svolti nell’ambito del prestigioso incarico, tra cui alcuni pagamenti del maggio e giugno 1623 e un progetto di decorazione in collezione privata inglese relativi alla sistemazione degli ambienti vaticani destinati a ospitare la Biblioteca Palatina di Heidelberg, donata al pontefice da Massimiliano I di Baviera (Fumagalli, 2014, p. 677). Benché la pratica architettonica di Domenichino fosse piuttosto limitata, fu durante l’intermezzo bolognese che egli «attese agli studii dell’architettura» (Bellori, 1672, 2009, p. 335) e della prospettiva, disciplina che nei primi anni Venti poté approfondire a Roma sotto la guida del teatino Matteo Zaccolini. Nell’alveo della produzione di Domenichino architetto (su cui si veda G. Curcio, in Domenichino 1581-1641, 1996, pp. 151-161) sono da citare anche i disegni presentati nel 1626 in occasione della gara per l’erezione della chiesa di S. Ignazio e quelli per la facciata di S. Andrea della Valle (Windsor); il portale di palazzo Lancellotti; l’altare della cappella Porfirio in S. Lorenzo in Miranda (1626-27), dove collaborò con il fidato scultore francese Jacques Sarrazin; la cappella della Madonna della Strada Cupa in S. Maria in Trastevere (iniziata nel 1628, ma lasciata incompiuta), di cui disegnò le partiture in stucco e le figure di telamoni.
Eppure fu nella tribuna di S. Andrea della Valle che la capacità di organizzazione dello spazio di Domenichino architetto e prospettico trovarono più compiuta espressione. Finanziati dal cardinale Alessandro Peretti di Montalto (per il quale il pittore aveva già dipinto l’Alessandro e Timoclea oggi al Louvre), i lavori, iniziati nel 1622, si protrassero fino al 1627 e furono saldati l’anno successivo (Hibbard, 1961, p. 364; Spear, 1982, pp. 242 s.); essi consistettero negli affreschi con le Scene della vita di s. Andrea, sei Virtù e i disegni per i partimenti in stucco nella volta della tribuna e i quattro Evangelisti nei pennacchi. Inizialmente gli venne affidata anche la decorazione della cupola, poi passata al rivale Lanfranco.
Il confronto che si dà nella crociera della basilica illustra esemplarmente gli esiti divergenti dei percorsi dei due pittori, pur nella medesima filiazione carraccesca: alla plasticità di Michelangelo e dell’Annibale romano che contrassegna i vigorosi Evangelisti si contrappone il correggismo centrifugo della Gloria del Paradiso nella cupola, che già preannuncia gli sfondati barocchi.
Ancora al tempo del breve papato di Gregorio XV, tra il 1621 e il 1622, Zampieri partecipò al cantiere del Camerino dei paesi del casino dell’Aurora di villa Ludovisi, dipingendovi l’idillico Paesaggio con amanti. Probabilmente a queste date si colloca anche la «poetica invenzione» (Bellori, 1672, 2009, p. 324) della Verità disvelata dal tempo di palazzo Costaguti (già Patrizi), dove nel carro del Sole, che si staglia entro la sobria quadratura di Agostino Tassi, il bolognese parve animare un cammeo antico, dilatato su scala monumentale. Pressoché contemporanea fu anche la Conversione di s. Paolo, commissionata da Iacopo Inghirami per il duomo di Volterra (1621-23).
Diverse furono le soluzioni compositive per le grandi pale d’altare che il pittore andava sondando nel secondo lustro degli anni Venti: dalla Vergine in trono con i ss. Giovanni Evangelista e Petronio per l’omonima chiesa nazionale dei bolognesi a Roma (1626-29; Roma, Galleria nazionale d’arte antica di Palazzo Barberini), dove recuperò un impianto piramidale cinquecentesco, all’affollato Martirio di s. Sebastiano per l’altare del santo nella basilica di S. Pietro (ora in S. Maria degli Angeli), prestigiosa commissione ottenuta nel 1625 grazie all’intercessione del cardinale Francesco Barberini, padrino di battesimo della figlia Maria Camilla. La tendenza all’assiepamento delle figure che qui si registra torna nei pennacchi di S. Carlo ai Catinari (1629-30), nelle cui Virtù cardinali Domenichino recuperò la monumentale plasticità dei precedenti Evangelisti, astraendo il disegno e complicando i concetti, così da anticipare l’ipertrofia dei pennacchi napoletani. Vi dominano colori ‘schietti’ e brillanti, accostabili a quelli degli ovali della cappella Bandini in S. Silvestro al Quirinale (1628), dove il pittore parve attendere ai principi del trattato della Prospettiva del colore di Matteo Zaccolini (Bell, 1997). L’affastellarsi delle commissioni, in aggiunta alla proverbiale lentezza del pittore, motivò il sempre più ampio impiego della bottega, da cui emerge la personalità del messinese Antonio Barbalonga (Parisi, 2016): è il caso della cappella Merenda in S. Maria della Vittoria e del S. Francesco in estasi in S. Maria della Concezione.
La stima di cui il pittore godeva nell’ambiente artistico romano è confermata dall’elezione, nel novembre del 1629, a principe dell’Accademia di S. Luca per l’anno successivo, dirottata poi su Gian Lorenzo Bernini a causa delle pressioni di Francesco Barberini (G. Perini, in Domenichino 1581-1641, 1996, p. 103, nota 81). La bruciante delusione dovette incoraggiarlo ad accettare la prestigiosa (e generosa) offerta della Deputazione della cappella del Tesoro di S. Gennaro presso il duomo per la sua decorazione, di cui sottoscrisse il contratto l’11 novembre 1630 (Spear, 1982, pp. 286 s.). Trasferitosi a Napoli entro il maggio dell’anno successivo, il pittore intraprese il ciclo di affreschi con le Storie di s. Gennaro tra le ostilità e le impietose critiche dei pittori locali, così aspre da indurlo a fuggire nel 1634 e a trovare riparo presso la villa del Belvedere di Frascati, accolto dal cardinale Ippolito Aldobrandini e dal suo segretario, Francesco Angeloni.
Dopo un breve passaggio per Roma, dove iniziò il Funerale di un imperatore romano per Filippo IV di Spagna (1634-36; Madrid, Prado), fece ritorno a Napoli entro il giugno 1635 per portare a termine gli affreschi, passando, poi, alle pale su rame dei cinque altari della cappella agli inizi del 1638. Nel medesimo anno iniziò anche ad approntare i cartoni per la decorazione della cupola, lasciata interrotta (e successivamente del tutto ridipinta da Lanfranco) per il sopraggiungere della morte, avvenuta il 6 aprile 1641 (Faraglia, 1885, p. 454). Fu sepolto nel duomo di Napoli.
Nel testamento, che aveva dettato tre giorni prima temendo di venire avvelenato dai pittori napoletani, i quali, dopo il suo rientro, «lo malignavano più aspramente» (Passeri, ante 1679, 1934, p. 64), nominò la figlia Maria Camilla erede universale (Spear, 1994), lasciando disposizioni in merito al suo matrimonio, in seguito al quale ella si sarebbe trasferita a Pesaro, mentre la moglie Marsibilia, beneficiaria di 1000 ducati, condusse la sua vecchiaia a Bologna, dove fu consultata da Malvasia mentre redigeva la biografia del marito.
Nel 1642, presso il palazzo della Cancelleria di Roma, l’affezionato biografo Passeri recitò un’orazione funebre per onorarne la memoria alla presenza degli accademici di S. Luca e del loro ‘protettore’, il cardinale Barberini (Passeri, ante 1679, 1934, p. 69).
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